Bandajorona – Io so’ me (SquiLibri, 2019)

Foto di Arianna Bonelli
Bianca Giovannini ha molte cose da dire e mondi interi da raccontare, da tramutare, da riproporre, da scombinare. È lei l’anima di Bandajorona e nei lunghi anni di storia del suo gruppo ha usato il cuore, la pancia e il suo fine cervello di intellettuale e donna colta, per raccontare, non tanto una città, quanto la vita attaverso un binocolo particolare: attraverso il buco della serratura che dall’Aventino fa vedere San Pietro o forse attraverso lo squarcio di una rete di periferia che si affaccia al Mandrione. Ma non è importante il dove: è importante il modo. Ora Bianca Giovannini ha deciso di essere cantautrice e di esprimersi direttamente attraverso le sue parole. Lo ha fatto con un nuovo album di Bandajorona: “Io so’ me”, edito da Squilibri, nella collana Crinali. Lo ha fatto per la maggior parte utilizzando quella lingua romanesca che si è impadronita di lei per “osmosi”.  È lei a dirlo nell’intervista. Dice anche altro e immagina la sua particolare Roma come la Belleville del romanziere francese Daniel Pennac, perché attraverso il racconto di una umanità, o meglio ancora, attraverso il suo linguaggio, cerca di raggiungere altre anime, in un altro punto del mondo. Ce lo ha spiegato approfonditamente in una lunga chiacchierata, tra una fila nella mensa Rai, qualche digressione intima, e qualche conseguente abbraccio tra donne. Bianca è un’artista che ha molte cose dentro e vuole che siano chiare a chiunque le ascolti, in un modo o nell’altro.

C’è una canzone di Piero Brega, che si chiama “Città” - una canzone che parla di Roma senza nominarla - in cui a un certo punto si dice: “città, che porto nella voce, nella cadenza del parlare, quindi nel modo di ragionare”. Ecco: in che modo tu porti il romanesco in te, come influenza il modo di impostare la tua arte?
Che te possino! Questa domanda apre talmente tante porte ed è talmente complessa che è complicato rispondere. Ho grandissima stima di Piero Brega: lo conosco dall’epoca del Canzoniere del Lazio e ho avuto il grande piacere di condividere palchi con lui… mi piace partire da qui! 
Da ex archeologa di Roma tardo-antica, alto-medievale (che è il periodo della decadenza:  i periodi più interessanti sono sempre quelli delle crisi e quindi delle opportunità) mi viene da dire che questa è sempre stata una città particolare; Roma ha una capacità tutta sua di accettare sempre ciò che arriva, comunque e ovunque; è una mamma che apre le braccia e dice: “se te vòi mette a sede, accomodati” e tu cambi; non importa se sei nato in questa città: lei accoglie quello che sei e allo stesso tempo ti ingloba all’interno di una realtà molto più ampia.

Non solo in quella Roma lì: secondo la storica Fiorella Bartoccini, nell’Ottocento era ancora così. Lei paragona la Capitale a un grande calderone dove tutto finisce dentro e viene trasformato, per poi essere ritrasmesso a livello nazionale. 
Esatto. Roma ti accoglie, ti cambia e cambia anche lei. Senza voler essere romanocentrici, questa è proprio un’antica caratteristica della città, che si autorappresenta in tanti modi diversi: lo vedi anche dalle stratificazioni del tempo, affacciandoti ai Fori. Ti dicevo appunto che prima sono stata archeologa e poi mi sono indirizzata all’etnomusicologia, all’antropologia culturale; ma non c’è cesura col passato, perché io ho curiosità per le storie e una che le racconta come me – per tornare alla domanda iniziale – usa gli strumenti che ha. Il fatto curioso è che nella mia famiglia il dialetto non è una consuetudine. E non si ascoltava musica romanesca. Mio fratello aveva un disco di Gabriella Ferri e mi ha insegnato a cantare il “Barcarolo romano” e “Pupo bionno” e qua finisce. È perciò davvero curioso capire come poi il mio interesse sia andato in quella direzione, fino a farmi diventare un’icona della canzone romana; un po’ fa ridere. All’inizio dicevano che ero emula della Ferri, cosa che mi faceva molto soffrire. Poi hanno detto che ne ero l’erede, cosa invece davvero molto onorevole; ma io non ho mai voluto questo: io volevo essere considerata per quello che sono io. Alla fine era una gabbia, perché spiegami in che modo io posso ricordare Gabriella Ferri… penso sia per la mia modalità espressiva, perché ci metto cuore e faccia. Ma la mia storia è diversa dalla sua.  
Foto di Angelo Larocca
Questo per dire che alla fine è curioso che io - per osmosi, respirando l’aria di Roma, come dicevo una volta, oppure, come dico ora, “prestando attenzione” anche a livello inconscio - sia finita con l’essere considerata la voce romana più verace, “più de core e de panza”. Credo di usare il dialetto in modo espressivo, come uno strumento musicale che conosco e faccio mio. Porto spesso l’esempio di Daniel Pennac  e dei romanzi col personaggio di Benjamin Malaussène. Lui raccontava il microcosmo di un quartiere specifico di Parigi, Belleville, e all’interno di quel microcosmo ci siamo tutti rispecchiati. Credo che la bravura di un artista sia proprio nella capacità di fare la stessa cosa, in modo che gli altri riconoscano come proprie le espressioni della sua arte. Io provo a farlo usando il dialetto. Ma la lingua in definitiva è secondaria rispetto alla capacità di narrare storie. 

Ok. Vuoi dire che è uno strumento. Ma uno strumento, a seconda di come lo utilizzi, serve a determinati scopi; tu potresti quindi arrivare allo stesso risultato usando un’altra lingua ancora?
Senz’altro. Ti faccio degli esempi. Sono sempre stata attenta alla ricerca e mi stupisco del fatto che chi fa canzone romana a volte non conosca l’autore di un determinato brano; per esempio tanti non sanno che er Barcarolo non è una canzone di tradizione ma ha un autore che si chiama Romolo Balzani. Molti non sanno che “Le Mantellate” l’ha scritta Giorgio Strehler, un milanese. Massimo rispetto per lui e per uno con questa capacità di lettura di ciò che è popolare. Ma è Strehler ragazzi! 

E Pasolini?
Attenzione: su Pasolini apriamo non una porta, ma un portone gigantesco e rispunta sempre anche nel disco; Pasolini ha letto una città e l’ha tradotta con l’attenzione dovuta, ha respirato una determinata aria e l’ha resa. Ma torno ai miei esempi. Il primo è appunto su Gabriella Ferri.
Foto di Angelo Larocca
Mi stupisce un po’ quando scopro che alcuni che si occupano di canzone romana non si ricordino che la Ferri è stata anche cantautrice e che molte sue canzoni, tra le più famose, sono scritte in italiano. Altre sono in spagnolo. E ora porto me come esempio: quando si fanno le cose a tavolino, può funzionare a livello pratico, ma alla fine mancherà sempre qualcosa. E le cose invece arrivano al pubblico quando sono vere e spontanee. E quindi io, che una volta mi facevo tante domande e scrupoli sullo scrivere canzoni e sul come scriverle, se in italiano o in dialetto e se usare un dialetto più antico o più contemporaneo ecc.., ebbene ora, con tutta l’esperienza che ho fatto, ho deciso di fare come mi viene, senza problemi. Semplicemente ho smesso di pormi domande e pensa che addirittura il brano da cui nasce il disco è scritto in inglese… ed è una canzone che è nata per bisogno, da un lutto.  

Ecco, veniamo al disco, come è nato, quando hai detto: “ora faccio questo disco”…
Non ho mai detto: “ora faccio questo disco” ovviamente. L’ultimo album è del 2012 e in questi anni spesso ci veniva chiesto: “esiste ancora Bandajorona?”… una cosa davvero irritante.  Io mi chiedo come si faccia a fare un disco all’anno: per me un disco si fa quando si ha un progetto, cose da dire, una visione artistica di senso compiuto; non è possibile doverlo fare perché sennò “non esisti”. In realtà il primo stimolo, come ti dicevo, è arrivato da un lutto. La prima canzone che è nata è “Tudu Song”: parla del mio cane e l’ho scritta quando è morto. Abbiamo vissuto insieme 15 anni e lui aveva una sua personalità specifica e indipendente; è stato soprattutto il mio compagno di viaggio. Tudu era anziano e sapevo che sarebbe accaduto e comunque ho avuto altri animali. Però quando se ne è andato lui, io ho provato uno strappo interiore estremamente forte e mi sono sentita veramente sola. Era il 2014; e mi sono trovata a canticchiare questa canzone proprio in inglese, a mo’ di consolazione, una specie di ninna nanna a me stessa, che giocava col fatto che Tudu è un nome cinese, affettuoso, che vuol dire “piccolino”, mentre in inglese diventa “to do”, verbo che serve per tante cose: c’era un piccolo gioco di parole molto stupido e del tutto inconsapevole,
Foto di Angelo Larocca
che nasceva dalla tristezza dei giorni immediatamente successivi al lutto; mi ricordo che sotto la doccia mi cantavo questo brano in cui dicevo:  “nessuno potrà mai amarmi come mi hai amato tu”. E così questa canzone non l’ho scritta: m’è venuta da dentro, m’ha scritto lei! mi è arrivata addosso. Tre giorni dopo mi sono trovata di notte, un po’ brilla, davanti al computer, e l’ho registrata dall’inizio alla fine, musica e testo. Ho provato a tradurla in italiano o in romanesco ma risultava retorica. E proprio questo brano ha generato in me un flusso creativo e mi ha disinibito. Da lì ho cominciato a scrivere e ho trovato una complice fenomenale in Desirée Infascelli, la mia partner di follie e di Bandajorona. I testi sono miei ma senza di lei alla fine non sarebbe nato niente: la nostra è stata una complicità femminile, tra donne che affrontano cose e riescono finalmente a esprimersi in maniera disinvolta. Molti brani sono stati registrati su base elettronica, ma sono nati acustici, perché siamo musiciste che hanno respirato polvere di palco. 

La base elettronica è abbastanza imponente in alcuni passaggi del disco, in effetti. È stato il produttore artistico Alberto Menenti a spingervi in questa direzione?
Alberto è il “membro non suonante del gruppo”, una persona importante, che ha fatto da collante su tante cose e mi ha sostenuto in dispendi energetici che di solito affrontavo da sola;  senza di lui probabilmente non ce l’avrei fatta a portare a termine tutto. Lui è stato il produttore artistico nel senso artigianale e vero del termine, come si faceva una volta. Però in questa operazione il gioco fondalmente è stato tra me e Desirée; ad esempio “La signora del quinto quarto”, che ha questo gioco dance anni Ottanta - proprio come il sound della nostra  gioventù - nasce come brano acustico (suona un po’ klezmer nella versione live), ma un giorno Desirée mi ha mandato questa base elettronica e io le ho detto: “tu sei il genio del male” e ho capito che andava fatta così.

Foto di Angelo Larocca
Una canzone davvero particolare…
È una metafora e parla di cibo, ma anche della marginalità delle donne: un tema che ricorre tanto nel disco. Vanta una collaborazione importante, non scritta: quella di Chef Rubio. Abbiamo giocato su questo testo e lo abbiamo scritto un po’insieme, in uno strano flusso di coscienza. 

Ecco. Parliamo delle numerose collaborazioni e dei musicisti che hanno suonato nell’album. Cominciamo da Mario Castelnuovo. 
Mario Castelnuovo è un carissimo amico, un poeta e una persona nobile. Anni fa mi chiamò per cantare “Trasteverina”, un brano del suo disco “Musica per un incendio”; aveva bisogno di una voce femminile romana e verace e così ci siamo incontrati; poi da lì è nato un affetto inesausto e sono nati altri brani. Ha scritto varie canzoni per me, ma io ho scelto “Il poema dei visionari” che mi piace così tanto. Si discosta dal resto del disco ma ci trovo dentro una poesia profonda. E lui mi fa l’onore di cantarla con me in duetto.

C’è anche Daniele Sepe nel disco.
Daniele ha donato pennellate di sax all’interno di un tango:  “La rosa sbagliata”, uno dei brani in italiano, anche se questo è un disco sostanzialmente romanesco. Però vorrei che uscisse fuori dalla città; non vorrei riportare sempre tutto su Roma e sarebbe una grande soddisfazione riuscire a comunicare al di fuori, nel senso di cui parlavamo prima quando si diceva di Pennac. 

Anche Piergiorgio Faraglia, scomparso circa un anno fa, canta nell’album. Piergiorgio manca. Come artista e come operatore culturale della scena romana. 
Piergiorgio non manca, perché lo vedo seduto sul mio letto con la chitarra imbracciata e comunica costantemente con me; io penso che questa è una delle cose più belle che possano succedere a qualcuno, che sia vivo o che sia morto: esserci, esserci stato e continuare ad esserci.
Foto di Felice Zingarelli
Quando sento le sue canzoni mi arriva una botta di energia pari e esattamente identica a quando lui le suonava dal vivo. Quindi per me Piergiorgio non manca, perché c’è. Personalmente lui è stato importantissimo; siamo stati amici per moltissimi anni e abbiamo lavorato e giocato con la musica insieme per tanto tempo.  Per quanto riguarda il brano “Er sorcio e ‘r gabbianello” - presente in due versioni, la nostra e la sua - ti racconto come è andata. Nasce come un saltarello supertradizionale, perché io canto su zampogna con un grandissimo protagonista, Alessandro Mazziotti. Il canto femminile su zampogna è una cosa abbastanza anomala, perché bisogna avere un certo uso del diaframma; è bellissimo e molto liberatorio. Quindi il pezzo nasceva come canto tradizionale, ma ti confesso che sono un po’ satura e vorrei uscire da certi confini. E quindi, volendo sperimentare, dissi a Piergiorgio di farmi un arrangiamento alla Bruce Springsteen. Gli ho detto come si dice a Roma: “Me fai ‘a sghitara come sai fare solo te?” E lui mi ha regalato tantissime versioni del pezzo. Io ho provato a rifarla così, ma non c’è stato niente da fare: erano brutte copie della versione di Piergiorgio. E così l’ho registrata a saltarello. Però poi, quando è arrivato il momento di scegliere una bonus track, ho pensato di metterci la versione sua. Peraltro è una cosa che mi inorgoglisce, perché, senza voler sembrare arrogante o immodesta, quando un pezzo regge in due versioni così differenti vuol dire che di per sé è valido.

Citiamo anche gli altri collaboratori.
Innazitutto c’è Daniele Ercoli, che è la quota azzurra del gruppo; nella forma estesa sul palco c’è Gianluca Mattei, che è stato anche il genius loci del trattamento elettronico dei suoni; una specie di folletto, che ha suonato il chitarrino di qua, il coro di là, il trombone di su. C’è anche il trombone di Ludovica Valori nella Title Track; e non dimentichiamo l’apporto di Armando Serafini. Aggiungiamo come ospite il piano di Felice Zingarelli, che casualmente adesso è anche il mio compagno. Altro elemento importante è il già citato produttore artistico e manager Alberto Menenti.
Foto di Felice Zingarelli
E ancora tanti altri hanno suonato nel disco: Mazziotti, Gabriele Caporuscio, Adriano Bono, Antonio Ragosta, Giovanni Lo Cascio…  Vorrei poi dire due parole su Squilibri, una casa editrice che fa volumi curatissimi e che ha questa collana, Crinali, attenta a un mondo musicale che fa molta fatica a trovare spazi in Italia. Squilibri mi ha concesso il lusso di un libretto cd con 48 pagine; all’interno ci sono vari testi, tra cui uno del caro amico Paolo Restuccia, “The Genius” del Ruggito del Coniglio e le fotografie di un’altra donna eccellente che si chiama Arianna Bonelli.

E tutto questo per raccontare cosa? Per esempio ora porti la felpa con scritto: “Io so’ me”. In questo modo stai rivendicando come donna e come artista qualcosa che vuoi ribadire costantemente. Qualcosa che riguarda te come persona ma è valida anche per il contesto generale. Non è così? 
Lo voglio ribadire da donna, prima di ogni altra cosa. “Io so’ me” è la canzone che dà il titolo all’intero disco; è la frase che ho scritto sulle felpe e sulle magliette; non significa: “io so’ me e de voi non mi importa nulla”, ma: “io so’ me e voglio essere me stessa”, al di là del giudizio altrui.  Fatalmente un’affermazione di questo tipo è rivolta alle donne più che agli uomini ma anche molti uomini vi si ritrovano; noi siamo i primi terrificanti nemici di noi stessi, perché se reagissimo facendo spallucce quando gli altri ci dicono: “tu dovresti essere così o cosà”, vivremmo meglio. Non si tratta di difendere la staticità di ciò che si è, ma di crescere e di cambiare a seconda di ciò che riteniamo opportuno noi e non secondo quello che ritengono opportuno gli altri per noi. Tutte le frasi che compaiono nella canzone mi sono state dette nel tempo: sono tutte citazioni e io ricordo bene chi mi ha detto questo o quello e sono spesso frasi in contraddizione tra di loro. Se noi ascoltassimo sempre gli altri faremmo prima a chiuderci a doppia mandata dentro casa.
Foto di Felice Zingarelli
In realtà è molto difficile amarci per quello che siamo e vale soprattutto per le donne. Noi viviamo in un mondo che ci schiaccia e cerca di ridurci e riportarci a dimensioni differenti. Insomma, “Io so’ me” significa: “io sono così e tutto sommato mi piaccio così e devo imparare a piacermi così perché tanto gli altri non saranno mai soddisfatti”. 

Dicevi che fatalmente riguarda soprattutto le donne…
Certo. Perché come donne siamo sempre sottoposte al giudizio, anche estetico. I femminicidi sono solo la punta di un iceberg: poi ci sono i maltrattamenti e le scarse valutazioni. Invece questa canzone rivendica quello che si è. Comunque Bandajorona è un gruppo con una forte identità femminile, in un mondo ancora tutto maschile e patriarcale, dove accade che l’uomo, anche quando appare “aperto” alle donne, è quello che nel gioco conserva sempre il ruolo attivo. Le donne restano passive. In questo contesto io invece voglio rivendicare che Bandajorona è un gruppo femminile, impegnato e schierato politicamente. E questo mi costa appeal e mi costa umanamente, professionalmente e a livello energetico. Però è quello che ci determina e ci contraddistingue e io lo rinvendico a chiare e fortissime lettere.



Bandajorona – Io so’ me (SquiLibri, 2019)
Bandajorona ha una storia che arriva davvero da lontano. A Roma è un’istituzione della scena musicale; la voce potente di Bianca Giovannini accompagnata sempre da artisti di grande forza come Desirée Infascelli e Daniele Ercoli –attuali colonne portanti del gruppo – è una certezza. Altrettanto nota l’attività meritoria di ricerca nelle tradizioni e nelle vicende della canzone romana. Questa volta però il cambiamento è davvero notevole e imponente. Da tanti punti di vista: scopriamoli. Naturalmente c’è quello più evidente di tutti: Bianca Giovannini ha deciso di tirare fuori tutta la sua anima musicale e ha deciso che era il momento di mostrare le sue doti di cantautrice. I testi dei brani di questo disco sono infatti stati scritti proprio da lei, tranne “Il poema dei visionari”, pezzo di Mario Castelnuovo. E sempre fatta eccezione per questa canzone, le musiche sono tutte sue e di Desirée Infascelli. Un album in cui si respira profumo di pelle femminile dall’inizio alla fine. A scriverlo è una donna non comune naturalmente: si tratta chiaramente di un’intellettuale e si tratta naturalmente di un’artista che esprime la sua visione del mondo in modo autentico. Il suo romanesco – che non è l’unico linguaggio adottato in questo disco, ma di sicuro è quello più praticato a livello espressivo, anche come cadenza e intonazione – non richiede di essere vero, perché è molto di più: è autentico. Un concetto questo che per vie diverse e con diverse soluzioni, è applicabile soprattutto a due grandi letterati come Gadda e Pasolini; ma nella grande energia della nuova scena musicale della Capitale, questo discorso sull’autenticità è davvero tutto. È il punto fondamentale, secondo l’opinione di chi scrive. Perché, pur riconoscendo l’indubbio grande talento di molti, non possiamo nascondere che a volte l’uso del dialetto romano è fine a se stesso e compiacente e per quanto appartenga a chi lo canta e quindi vero, suona inautentico e perciò non può andare al di là di quello che sembra voler dare: l’immagine chiusa di una città che forse nemmeno esiste. Questo non accade mai con Bianca Giovannini e Bandajorona. Meno che mai in questo disco, anche quando esagera, insiste, spinge, “mena forte” ed è imperfetto. E va detto che capita. Forse capita perché – qui si azzarda una ipotesi – dopo tanto aspettare e porsi scrupoli e farsi problemi, dopo essere riuscita a rompere quel tabu che le impediva di scrivere, si è rotta una diga e il fiume è dilagato prorompente in piena. E si sente. Si sente nei suoni, diciamolo subito. Suoni importanti, suoni tanti, mille strumenti, mille soluzioni e variazioni. Tantissima elettronica che però sta proprio dove deve essere e rende positivamente inquieto l’ascolto. Sono molte le considerazioni che possono farsi su questa album – e complimenti al lavoro di Alberto Menenti, produttore artistico che ha saputo contenere tutto questo dilagare di energia femminile – ma alcune sono necessarie. Non si può per esempio trascurare la poesia disarmante e struggente del brano “Le scarpe nove”, che arriva come un pugno “pasoliniano”, ancora più diretto e forte grazie al letto elettronico su cui poggia la sua struttura. E non si può certo trascurare la capacità di svelare l’amore, senza mediazioni, in modo verace e consistente (a Roma si direbbe: “è proprio tanta roba”) di pezzi come “La rosa sbagliata” – un tango che somiglia a certi flussi di coscienza alla Joyce – e anche come “Tudu Song”, canzone in inglese da cui tutto è cominciato, scritta nel dolore della perdita del cane Tudu, compagno di viaggio e avventure. Un brano che suona e canta come una vecchia ballata americana e che commuove fino alle lacrime. D’altronde – va ribadito - questo è un album che ha il coraggio delle donne, senza retorica e senza luoghi comuni, come nell’alienazione culinaria de “La signora del quinto quarto”; in generale è lo sguardo su un mondo complesso, di periferia multirazziale, vivo e contraddittorio. Ed è lo sguardo di una donna co’ “la panza popolare” e “la capoccia intellettuale”, con esperienza della vita, tra paure, fragilità e momenti di forza titanica. Una donna giunta alla consapevolezza di se stessa, nel bene e nel male, e che, senza inutili fierezze, rivendica la sua identità individuale. Lo fa con la title track: “Io so’ me”, che – ci tiene a spiegare – non significa “Io so’ io e voi non siete… “ di sordiana memoria. No. Significa “Io sono me stessa e non voglio e non posso essere quello che voi pensate dovrei essere”. È semplice, sembra banale eppure si trasforma in un inno da gridare con gioia in faccia a tutti. Perché c’è sempre chi sa meglio di te chi dovresti o potresti essere, come dovresti comportarti, come è giusto fare, dalle piccole alle grandi cose. Soprattutto se sei una donna, se devi prevenire “tempeste emotive”, se devi favorire seduzioni, se vuoi lavorare, se vuoi fare carriera, se semplicemente hai la presunzione di voler vivere. E invece no: “Perché io so’ me”. Canzone davvero geniale. Chiudiamo con la doppia esecuzione del divertente apologo metropolitano  “Er sorcio e ‘r gabbianello”. Si passa dal saltarello tradizionale della Bandajorona, alla versione rockettara di Piergiorgio Faraglia, cantautore, musicista e operatore culturale, che sull’autenticità in musica e pensiero avrebbe potuto dare lezioni. È forse questo il brano – anche e soprattutto per la doppia esecuzione – che riesce meglio a sintetizzare lo spirito e la poetica intellettuale e sentimentale di un disco importante, che arriva da un certo angolo di mondo, che qualcuno chiama “Roma Capitale”, tutto da scoprire. 


Elisabetta Malantrucco

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