Nella commovente “Quand je menai mes chevaux boire” cantata dall’inimitabile Gabriel, il cuculo annuncia al ragazzo che la sua innamorata sta per essere sepolta, lui inizialmente è dubbioso e insulta la bestiola (tradizionalmente foriera di cattive notizie) ma si arrenderà all’evidenza quando sarà la
ragazza stessa dalla bara ad informarlo che all’inferno, un posto è già riservato anche per lui. La versione scelta da Malicorne proviene dall’Alta Normandia ma in Bretagna ne esiste un’altra dove il protagonista chiede alla fidanzata Jeanne se esista un modo per non finire dove è finita lei. “Almanach” mette in scena il fantastico, la sopravvivenza pagana, la mitologia dell’inconscio collettivo nel Regno di Francia, restando, tutto sommato, un disco che non appartiene a nessuna epoca precisa, anche se le immagini narrativo-storiche giocano spessissimo, un ruolo fondamentale nella folk-music. La durezza della vita annuale contadina si specchia nei sogni, nelle ricorrenze ma anche in realtà più intimamente composte di anime distratte, immerse nel loro universo interiore, in attesa di uno sguardo capace di coglierle. È stato sul mescolarsi di religioni e paganesimi che nei secoli ha poggiato la cultura popolare, permettendo alle pratiche rituali di attraversare il tempo e conservarsi più o meno immutate. Svariate feste che oggi crediamo appartenere alla tradizione cristiana trovano origine piuttosto in religioni politeiste d’inizio era, perfino da superstizioni provenienti da arcaiche credenze legate alla stregoneria. Altre, all’apparenza pagane, provengono invece da pratiche religiose divenute desuete e dimenticate che oramai sopravvivono unicamente in costumi e abitudini. Le vite umane sono scandite da riti che fungono da punti di riferimento durante l’anno, legati alle feste del calendario cristiano oppure a tradizioni contadine antichissime. Costumi anche barbari come quello riservato alla povera “Margot”. Il terzo disco di Malicorne, attraverso delle istantanee sembra lasciare un filo per afferrare la canzone seguente, rinnovando così la Storia dell’Anno e del Tempo, intrecciando più fili tra loro e intessendone altri ancora. Fino a giungere a formare così il Grande Almanacco narrativo, dove ogni cosa appare definita con straordinaria molteplicità d’immagini, chiare ed eloquenti. La Vita arriva dal tempo vissuto, dai patimenti, dalle esclusioni, da rabbia e desolazione e, dal filo più sottile e imprendibile di tutti, che ancor oggi chiamiamo “speranza”. Sul retro della copertina del disco appare una scritta misteriosa sull'onda di quelle di magia cerimoniale presenti nella Chiave (o Clavicola) di Salomone, il testo tardo-medievale (o rinascimentale) derivante con tutta probabilità da un manoscritto rinvenuto nel sepolcro di Re Salomone e che riprende la tradizione cabalistica ebraica e quella alchimistica araba. Gabriel affermò di avere personalmente disegnato quelle rune attribuendo loro unicamente il significato di buon auspicio per il gruppo. Sfortunatamente a questo punto del cammino, metà Malicorne compie un passo indietro: Hughes de Courson rinuncia a suonare ancora dal vivo e Laurent Vercambre preferisce addirittura abbandonare il gruppo. Per le esibizioni pubbliche recluteranno il bassista Olivier Zdralik, il chitarrista Claude Alvarez-Pereyre e il vecchio amico e violinista del gruppo stivelliano, René Werneer. Ottimi musicisti senza dubbio ma decisamente incompatibili caratterialmente e dopo soli otto mesi di malintesi vari, Yacoub prenderà la decisione che se
non fossero tornati de Courson e Vercambre, il gruppo si sarebbe sciolto definitivamente. Per fortuna di ogni ascoltatore passato, presente e futuro, ciò non accadrà e i due transfughi riprenderanno i propri posti. Una variazione significativa però avviene, in quanto Zdralik rimarrà al basso elettrico per permettere a Hughes de Courson di concentrarsi maggiormente, pro bono, sul proprio talento multi-strumentista (tastiere, percussioni e fiati). Nel 1977, sulla strada del precedente, viene annunciato il quarto disco, dal forte impatto emotivo di un cielo stellato che compone la figura mitica del Malicorno, ad opera di Laurent Leserre, autore anche dell’illustrazione della copertina di Almanach (oltre che di altri dischi folk tra cui La Bamboche e Kolinda). La sorpresa che coglie “Il vecchio e il bambino” (di gucciniana memoria) raffigurati nell’immagine, suggestivamente sembra fare il paio con quella del contemporaneo retro-copertina della Albion Band di The Prospect Before Us. D’ora in avanti, anche se non è segnata su nessuna cartina geografica, l’intima mappa emotiva di molti ascoltatori folk, recherà per sempre una via che dal Medioevo giunge a una ancestrale località elettro-acustica che passa obbligatoriamente per Malicorne Town. Un gruppo che resterà un paesaggio sonoro capace di restituire continuamente agli ascoltatori, tutta la luce e tutte le ombre del cammino dell’esistenza. Quella seducente voce nasale di Gabriel Yacoub, unita a una tecnica vocale armonica appresa in gioventù dal grande Mike Waterson (1941 – 2011) porta a dissonanze straordinarie, a errori felici che nessun arrangiatore di cultura classica oserebbe mai prendere neppure in considerazione. Pur se appartenente a pieno titolo alla prima fase folk del gruppo, il disco marca alcuni segni evidenti del desiderio di oltrepassare lo stile finora proposto e l’apparizione di strumenti contemporanei rispetto a quelli della tradizione, ne è la prova. Le voci, come nell’LP d’esordio, non vengono deformate in studio (come accadeva nei due precedenti) mentre le canzoni recano qua e là alcune sontuosità orchestrali. Appaiono l’organo positivo in “Misère”, le polifonie vocali in “Daniel Mon Fils”, i corni da caccia uniti agli effetti elettronici in “La Blanche Biche” che annunciano morte avvolti su note evanescenti. Un ritmo ondivago al pianoforte, accordi di chitarra elettrica e violini imbizzarriti stanno sul fondale de “Le Jardinier Du Convent”. Gli ottoni caratterizzano l’epica “La Fiancée Du Timbalier” (che ha come testo una selezione operata dalle “Odi e Ballate” del poeta romantico-ottocentesco Victor Hugo) e richiamano un po’ alla mente quelli di Atom Heart Mother dei Pink Floyd di sette anni prima. Cinque anni dopo sarà il bretone Serge Kerval a inciderne una versione folk integrale più ortodossa, su musica acustica originale composta assieme a Colette Magny (Serge Kerval chante Victor Hugo, Arion 1982). Numerosi altri dettagli non passano inosservati all’ascolto: il lato ironico che traspare dal vigore forzato che Yacoub imprime nel cantare “Couché Tard, Levé Matin” quando sottolinea come alle fatiche si assommino i doveri imposti al contadino da un parroco che sovente era pure il suo datore di lavoro. Ancora in “Daniel Mon Fils” risalta il contrasto tra le parole pronunciate dal protagonista e la musica cerimoniale su organo da chiesa, senza ignorare quel finale che mescola il sacro latino di “Gloria al Padre e al Figlio com’era in principio” con il
quotidiano popolano “La vecchia Charmois ha fatto un buon dolce e ne avrai una grossa fetta”. Ne “Le Déserteur” la base proviene da un canto di crociata (“Seigneur Sachez Qui Or Ne S’En Ira”) di Thibault Le Chansonnier Comte De Champagne Et De Brie (lo stesso utilizzato dai Tri Yann nella variante del pezzo “Aloida”, incisa nel loro Portraits, 1995). In quegli anni particolarmente sentite risultavano nel mondo musicale, le tematiche contrarie alle guerre, l’anno precedente due altri celebri gruppi folk avevano registrato brani dall’omonimo titolo: La Clacque Galoche su testo raccolto da un bollettino di un movimento antimilitarista su musica proveniente dall’Anatolia e Mélusine su testo proveniente dalla Franca Contea (ex-regione storica e culturale della Francia orientale) e musica originale. Il brano più celebre risulta senz’altro “La Blanche Biche” qui ripresa in una versione canadese ma modificata nelle parole basandosi su versioni provenienti da Poitou e Nivernais. Una leggenda dove elementi fantastici, onirici, magici e sessuali incestuosi, conferiscono alla cruenta narrazione, connotazioni psicanalitiche. L’arrangiamento dimostra tutta la profonda curiosità di Malicorne per le tecniche innovative di registrazione e produzione nell’utilizzo dell’“organo a voce” progettato da Bruno Menny e sviluppato da Nik Kinsey. Si trattava di una sorta di sintetizzatore molto prossimo alla gamma delle voci umane che si ottengono scivolando con le dita sui tasti. Consisteva nel montaggio di minuscoli frammenti di banda magnetica sulla quale ciascuna nota polifonica era interamente costituita da accordi di voce. Le bande ottenute venivano quindi mixate in tempo reale sulla melodia principale di una canzone. Ovviamente stiamo parlando di un’epoca antecedente alla comparsa delle moderne tecniche di campionamento e sequenziamento. Malicorne è sempre stato un gruppo che si è preso svariate “libertà” durante l’intera propria carriera musicale, lo ha fatto unendo testi e melodie di differenti origini, utilizzando “varianti” e componendo nuove musiche quando ne ha valutato l’opportunità. Fortemente convinti che sia del tutto naturale un percorso tradizionale di ri-creazione, adattamento e attualizzazione del repertorio popolare. Questo atteggiamento “esplorativo” è sempre esistito in maniera trasversale nelle arti, nei tempi che hanno preceduto i nostri tempi. I pittori, per esempio, a cavallo del XIX secolo passavano da un movimento a un altro, nutrendosi dell’eccitazione che nasceva dai differenti approcci allo stesso soggetto. E in musica non dimentichiamo che l’energia grezza e le melodie accattivanti delle arie tradizionali hanno affascinato antichi Maestri quali Vivaldi o Bach. Malicorne ha cantato amori, addii, canzoni identitarie, canti di violenza e distruzione, favole sui paradossi dell’esistenza che portano a, come diceva lo scrittore e poeta austro-boemo Rainer Maria Rilke, “conoscere la forza e ammirare la vulnerabilità”. Il gruppo passa nel 1978 dalla pionieristica
etichetta Disques Exagone alla più piccola Ballon Noir creata l’anno prima da Hugh de Courson e, nel seguente disco dal lunghissimo titolo, si avverte fin da subito il desiderio di rompere con le sonorità più tradizionali del passato. Il personaggio raffigurato in copertina si trovava anche all’interno della vetrina di un negozietto di dischi in rue Mouffetard, V arrondissement di Parigi (nel Quartiere Latino), una delle vie più antiche della capitale, costruita nel I secolo dai Romani e oggi purtroppo, zeppa unicamente di ristoranti turistici. Quella bottega di vinili è sparita oramai da decenni e probabilmente anche Gabriel Yacoub la conosceva. Tornando alla copertina: si tratta della foto d’interno di un triste e sobrio vagone dell’Orient-Express (presa al Museo delle Ferrovie Francesi) mentre il manichino di cera (raffigurante Gesù) proveniva dal Museo Grévin, nel cuore del quartiere dell'Opéra e dei Grands Boulevards parigini. La figura vuota, muta e indifferente del fantoccio è inelegante, immobile, solitaria, il suo guardo fisso, i capelli rossicci e sfilacciati, l’abito vetusto, il bastone ornato e simbolico sostiene le mani inanimate. Malicorne si avventura nel secondo concept-album della sua storia, trattando il tema dei “Compagnons Du Devoir” e proponendo la narrazione del viaggio iniziatico di questo tale Adélard Rousseau, personaggio di fantasia inventato da Gabriel. Nel XII secolo, periodo di grandi cantieri per la costruzione delle cattedrali medievali, era sorto il “Compagnonnage” poi, nell’Esagono, rimase a lungo la tradizione di spostarsi geograficamente a seconda delle opportunità di lavoro. All’interno della lussuosa confezione, oltre al disco si trova il dettagliato diario di viaggio del protagonista, le cui pagine narrano le tappe del percorso, dal giorno 24 aprile al 14 febbraio seguente, corredate di episodi, date, disegni, annotazioni, mappe. Afferma di essere originario di Nevers e di seguire le orme del mestiere del padre, di aver conosciuto ed essere divenuto amico a Parigi, di Pierre André (detto “Provençal Esperance”) grazie al quale è entrato a far parte della Congregazione in questione. Il suo apprendistato (conduite) inizia quella primavera, dopo aver accumulato un po’ di risparmi, salutato gli affetti e pregato San Giuseppe di proteggerlo. Parte solo, a piedi verso la prima tappa: Orléans dove giunge il 2 maggio dopo cinque giorni di marcia. Riceve “l’affaire” (sorta di lasciapassare) e trova alloggio presso una locanda convenzionata. Un anziano per strada gli racconterà la storia di una sala da ballo oramai interdetta, che resistette perfino agli esorcismi (vedi “La Danse Des Damnés”). Poi seguendo la Loira fino a Tours in Touraine incontra la malinconica Madeleine, di cui si innamora ma che essendo donna sposata, pur ricambiando il sentimento... (vedi “Le Mari Jaloux”). Adélard arriverà a Nantes per un soggiorno di due settimane, viaggiando in treno dove incontra un gruppo di musicisti ambulanti, poi si recherà a la Rochelle dove per la prima volta in vita sua, vedrà il mare. Incrocia lungo la strada, vagabondi generosi, mercanti e briganti ma anche Cecile che amerà all’istante a Saint Martin il giorno di Sant’Anna. In suo onore comporrà la serenata notturna “Ah! Si
L’Amour Prenait Racine”. Trova quindi lavoro prima per un mese a Bordeaux e poi per tre a Carcassonne presso Monsieur Tourin, nota però con curiosità, che lui e la moglie parlavano stranamente con un certo disprezzo della propria figliola Angèle (vedi “Une Fille Dans Le Désespoir”). La tappa seguente sarà Béziers dove un tagliatore di pietre gli insegna una canzone evocatrice d’ardore durante l’intero e duro viaggio di lavoro: “A Paris La Grande Ville”. La strada per Marsiglia durerà altri dodici giorni e in quella città assisterà alla punizione inflitta dai suoi stessi compagni ad un membro colpevole di furto presso una locanda affiliata, cosa inammissibile con l’appartenenza alla Congregazione. In casi di questo tipo non si ricorreva mai alla giustizia ordinaria. Del soggiorno presso il Signor Boyer conserverà ben triste memoria e l’esperienza gli ispirerà la rancorosa canzone-monito: “Compagnons Qui Roulez En Provence”. Anche forse a causa dei maltrattamenti da poco subiti, a Tolosa, Adélard si ammala e viene ricoverato all’ospedale dove ogni giorno riceve la visita di altri lavoratori come lui. Al termine si recherà in pellegrinaggio di ringraziamento a Sainte-Baume. Dopo più di quattro altri mesi sarà a Valence, nella valle del Rodano che incontrerà un corpulento e gentile tagliaboschi che gli farà ascoltare “La Complainte Du Coureur De Bois”, quindi partirà per un ulteriore soggiorno di cinque mesi nella città di Lione dove presterà i suoi servizi a vari datori di lavoro. Lungo la strada per Vichy si troverà a passare nelle vicinanze della propria casa dove, nonostante la forte nostalgia, non potrà però fermarsi. Dopo ancora due giorni di cammino e due notti gelate, trovatosi in aperta campagna verso sera con la neve che inizia a scendere, scorge un edificio fiorito, luminoso e accogliente e si convince a entrare per riposarsi la notte. E qui una orribile avventura lo sta aspettando, che racconterà in versi nella veritiera “L’Auberge Sanglante” addolcendo solo il finale, poiché la bella Jeanneton non aveva, in realtà, alcuna intenzione di sposarlo e la propria valigia non conteneva soldi. L’ultima tappa del viaggio sarà infine Parigi. Il disco inizia su ritmo di reel con Gabriel alla seconda evocante voce nella “Danse Des Damnés”, prima e unica volta nell’intera storia del gruppo, inebriante anche lo strumentale “La Valse Druze” composto da Hugh e arrangiato da Bruno Coulais che molti anni dopo ospiterà Gabriel (oltre a Robert Wyatt, Nick Cave, A Filetta, Bulgarka Quartet…) nella colonna sonora di “Le Peuple Migrateur” (nello stesso anno questo brano verrà inserito anche in apertura e chiusura di Fonds De Tiroir 1967 di Patrick Modiano/Hugues de Courson). Quest’ultimo compone la musica e interpreta “Racine” sostenuto dalle proprie tastiere e dalla batteria dell’ospite Michel Santangeli che Yacoub aveva precedentemente incontrato in seno al glorioso gruppo di Stivell. La triste “Une Fille Dans Le Désespoir” è interpretata da Marie con voce esile su un teatrale fondo di piano e cori. Dietro al testo de “Le Couleurs”, i rumori di legno segato suggeriscono
lavori in ambienti boschivi dove ogni colore rappresenta una tappa rituale. Proviene da un manoscritto segreto per cui Malicorne riceverà delle noie legali e l’accusa di divulgazione di segreti iniziatici mentre la musica originale è di Gabriel. “A Paris La Grande Ville” possiede tempo rapido con colpi d’archetto taglienti, addirittura un ponte funky, quattro violini, tre alti e due violoncelli (tutti sovraincisi da Vercambre), si aggiungono batteria poliritmica a fondo di fanfara più assolo rock di chitarra. La canzone va a finire pure in un 45 giri (sul retro “La Danse Des Damnés”) ma solamente poche temerarie radio francesi lo trasmetteranno. La bellezza della polifonia risulta in netto contrasto con la durezza del testo ne “La Complainte Du Coureur De Bois” che trae origine dalla melodia di “Navire De Bayonne”. La canzone tratta di un cacciatore di pellicce nel Grande Nord canadese, per lunghi periodi lontano da casa, il gruppo si sbaglia però nell’indicarlo nei crediti come “boscaiolo”. Introduzione al violino, arpeggi delicati di chitarra, voce triste, clima inquieto, corde scricchiolanti, sonagli rotolanti compongono il tragico racconto de “L’Auberge Sanglante” dove nel chorus Hugh soffia sulla parte superiore dell’ancia della sua gaita, la cornamusa galiziana. Non è un virtuoso suonatore di questo difficile strumento, non ha mai esercitato la tecnica del respiro continuo ma possiede un’attrazione innata per una gran moltitudine di strumenti musicali senza essere veramente esperto in nessuno di loro. Vercambre dal canto suo, pur non essendo un solista, entra in uno stato di trance nel suonare questo brano. Le “Départ Des Compagnons” è uno strumentale originale, integrato dal tema de “La Conduite”, nell’occasione Malicorne chiede a Jean-Daniel Mercier (che nel precedente disco si era occupato de “La Fiancée Du Timbalier”) di arrangiarlo in forma di fanfara da villaggio. Il nuovo disco di Malicorne inizia d’impatto ma si scontra ben presto con i primi significativi ed evidenti segni di scadimento d’interesse nei confronti della musica folk. “Nostalgia” è la parola che più frequentemente ha sempre connotato un gruppo che, a dire il vero, talvolta ci mette la sua parte, presentandosi in alcune trasmissioni televisive francesi in play-back e con una strumentazione addirittura differente da quella presente nell’audio. Dal vivo però le cose funzionano ancora benone per Malicorne che alla fine di quel 1978 si esibisce a Le Stadium di Parigi in uno strepitoso concerto dove spicca come ospite Dan Ar Braz. Si tratta di uno spazio solitamente consacrato allo sport e con una acustica poco adatta a valorizzare i suoni ma il successo è assicurato da una scaletta strepitosa in cui rivisita abbondantemente il glorioso passato: “La Semaine/Fa fa fa, Branle, Margot, L’Ecolier Assassin, Le Mariage Anglais, Le Déserteur, Le Prince d’Orange, Dame Lombarde, Pierre De Grenoble, La Conduite, A Paris La Grande Ville, Une Fille Dans Le Désespoir, La Danse Des Damnés, L’Auberge Sanglainte, Voici La St. Jean”. La stagione d’oro della musica folk stava oramai inevitabilmente avviandosi al tramonto anche in terra di Francia.
Flavio Poltronieri
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