Festeggiare settant’anni non con un’operazione commerciale, ma con un gesto antico: un disco stampato "in maniera artigianale", concepito come regalo per gli amici più cari, quasi un amuleto contro la smaterializzazione della musica liquida. Si intitola "CANIO LOGUERCIO 2025" ed è il punto di partenza della nostra conversazione con Canio Loguercio, musicista, architetto, poeta e instancabile sperimentatore. In questa lunga intervista, Loguercio riavvolge il nastro della sua vita artistica con la sincerità di chi non ha nulla da difendere se non la propria passione. Dal ricordo seminale dei Little Italy e della scena potentina, fino all'approdo in una Napoli degli anni Ottanta elettrica e contraddittoria, dove la new wave guardava a Berlino e New York rifiutando, quasi per un necessario parricidio culturale, la tradizione napoletana e l'ombra imponente di Pino Daniele. Ma è soprattutto il presente a pulsare in queste righe: un presente fatto di collaborazioni trasversali — da Rocco De Rosa alle detenute del carcere di Pozzuoli — e di "impossibili" incroci sonori, come quello con l'icona Jane Birkin. Tra aneddoti inediti e omaggi commoventi (le riletture di "...E cerca 'e me capì?”e “Terra Mia” di Pino Daniele di cui presentiamo in anteprima il videoclip e “La Notte” di Salvatore Adamo), emerge il ritratto di un artista per cui la musica è, citando Vinicius de Moraes, l'arte dell'incontro. Ecco cosa ci ha raccontato.
Partiamo dall’esperienza con i Little Italy…
Rocco Petruzzi è stata la prima persona con cui ho cominciato a suonare e insieme abbiamo fondato i Little Italy negli anni Ottanta. Successivamente lui è diventato l'arrangiatore e il produttore di Mango e ha
lavorato con Pino Daniele fino alla fine, però non ci siamo mai persi di vista. Io sono di Campomaggiore e lì, a partire dalla metà degli anni Ottanta, mettemmo su un piccolo studio di registrazione e un'etichetta. Ci inventammo poi i dischi de Il Manifesto: il primo disco che uscì in edicola era una canzoncina scritta da me, Rocco Petruzzi e Rocco De Rosa, cantata dai bambini palestinesi, con la copertina di Milo Manara. Fu pubblicata come 45 giri per Il Manifesto nel 1989. Pubblicammo poi un altro disco, Trasmigrazioni. Voci di popoli migranti, nato con l'idea di coinvolgere i musicisti emigrati qui in Italia. La mia idea era quella di affidare a tre colleghi – Rocco De Rosa, Daniele Sepe e Paolo Fresu – il compito di cercare musicisti migranti che potessero partecipare a questo disco, portando il loro talento e la loro storia. Coinvolgemmo artisti provenienti da cinquanta paesi diversi. Fu una bella sfida, tant’è che quando poi nacque l'Orchestra di Piazza Vittorio, Mario Tronco e Peppe Servillo ci chiesero aiuto per cercare i musicisti da coinvolgere. Nel frattempo, però, Mango stava avendo sempre più successo: sia Rocco Petruzzi che mio cugino, il bassista Nello Giudice, andarono a suonare con lui e gli sono rimasti accanto fino alla fine. Pino era uno che ci teneva a fare "squadra". Lo studio chiuse dopo la morte di Pasquale Trivigno, il nostro fonico, il più giovane di noi.
Torniamo all’esperienza con i Little Italy. Ad un certo punto arrivate a suonare a “Quelli della Notte” con Renzo Arbore…
La prima uscita la facemmo al Festival Rock di Bologna, vinto dai Litfiba. Noi arrivammo terzi; insieme a noi c’erano i Denovo e anche i Diaframma. In realtà fu un casino. Eravamo una big band con fiati, due bassi e cori, facevamo la nostra musica che aveva una tendenza più mediterranea rispetto agli altri, nonostante facessimo new wave e funk. Red Ronnie ci sfotteva dicendo: "A questi qua ci manca solo una fisarmonica". Subito dopo quel festival capimmo che dovevamo cominciare a lavorare a Napoli. A Potenza non c'era una sala prove, non c'era lo studio di registrazione, non c'era niente. Alcuni di noi vivevano a Napoli – io, per esempio, mi ci ero trasferito da ragazzino e tornavo in Basilicata per suonare con i miei amici. Un po' alla volta il gruppo lucano è venuto da me... gli altri sono andati con Mango e poi è rimasto il nucleo un po' più napoletano. Pensa che due anni fa è uscito un disco per un'etichetta napoletana che fa solo vinili. Sono "guaglioni" strani, io non li ho mai visti, ci ho parlato solo al telefono. Mi hanno detto: "Senti, noi vogliamo fare assolutamente un disco dei Little Italy". Io risposi che non avevo registrazioni, ma loro mi dissero che le avrebbero trovate. Hanno fatto ricerche tra i vari studi, recuperato varie cassette e pubblicato un vinile con cinque o sei pezzi riequalizzati e rimixati. Il ragazzo che ha fondato l’etichetta mi ha detto: "Guarda, io ho un piccolo studio a Napoli, ma dentro non c'è nulla di digitale, è tutto analogico". Hanno messo su un catalogo interessante e distribuiscono solo all'estero.
I Little Italy sono considerati una band seminale di quegli anni e se le cose fossero andate in modo differente avreste fatto concorrenza tranquillamente agli Avion Travel…
Eravamo assai, eravamo una banda troppo numerosa, ci piaceva più suonare e fare canzoni. Credo che gli Avion Travel fossero più compatti, insomma, la loro idea era più quadrata, però avremmo potuto avere il nostro spazio.
Poi c'è stato il tuo sodalizio con Rocco De Rosa, con cui hai realizzato vari progetti…
Rocco entrò nei Little Italy e da quel momento è nata un'amicizia forte, stabile. Nel nostro studio abbiamo prodotto i suoi primi dischi e il primo di Daniele Sepe; eravamo molto attivi anche con alcuni gruppi pugliesi che venivano a registrare da noi a Campomaggiore, perché non c'erano strutture adeguate e noi avevamo uno studio già professionale. Erasmo Treglia venne a registrare da noi il primo disco degli Acquaragia Drom. Mi ricordo che era inverno e stavamo in mezzo alla neve. Abbiamo prodotto il gruppo napoletano di Adnan Hozic e un disco di musiche arbëreshë del Pollino, in cui registrammo un gruppo di donne che erano veramente straordinarie, riuscendo a pubblicarlo con Musique du Monde. Sono nate grandi amicizie in quegli anni. Poi mi sono messo a cantare pure io e con Rocco abbiamo cominciato a lavorare insieme: è un sodalizio durato a lungo.
Avete pubblicato insieme “Amaro Ammore”…
Abbiamo avuto l'idea che io facessi le canzoni e lui curasse un prolungamento strumentale delle stesse, perché facevamo tutto insieme. Successivamente, Rocco ha continuato a fare le cose sue e io mi sono organizzato più per conto mio. All'inizio avevo molto timore e mi affidavo ai miei amici musicisti, ma mi
rendevo conto che c’era qualcosa che non riuscivo ad esprimere. Questo è accaduto anche dopo l’esperienza con Alessandro D’Alessandro, quando mi sono detto: “Devo cercare di far uscire un po' di più quello che sono”.
In retrospettiva l’esperienza con Alessandro D’Alessandro è stata molto importante…
È stata un’esperienza molto bella. Mi ricordo che un giorno mi propose di fare qualcosa insieme e io risposi: “Perché no?". Andai da lui a Coreno Ausonio, a casa sua, per due o tre giorni e ci mettemmo a provare. Ad Alessandro venne l’idea di usare la loop station per fare dei ritmi; mettemmo su un piccolo repertorio, dopodiché abbiamo cominciato a suonare e a fare delle serate. La cosa ha funzionato subito bene, ci divertivamo, e da lì il passo è stato breve per arrivare al disco che abbiamo pubblicato con Squilibri di Mimmo Ferraro. Mimmo lo conosco da quando avevamo lo studio a Campomaggiore, gli davo una mano quando organizzava le rassegne in Sila con l’associazione Altro Sud. In seguito, quando lavoravo al Ministero dell'Ambiente, abbiamo seguito un disco a sostegno di microprogetti in Africa coinvolgendo vari musicisti, perché io mi occupavo di tematiche ambientali internazionali. Insieme è nata anche l'idea di fare dischi dedicati ai vari poeti con cui ho lavorato. Le cose poi sono andate diversamente, ma il lavoro con Alessandro è stato molto importante. Ho sentito l’esigenza di andare avanti da solo perché sono un po' instabile, un po' eclettico. Tra l'altro, siccome con questa attività non faccio soldi, non ho qualcosa da difendere e faccio musica solo perché mi piace. Da architetto amo progettare, creare e inventare cose nuove. Mi diverto di più quando non devo fare cose che mi
Poi è arrivato “A fil 'e voce (dal vivo al Casale di Cristiana)”…
Durante la pandemia ho pubblicato una rilettura de “La Compagnia” di Lucio Battisti, coinvolgendo tanti amici. È un brano che mi è sempre piaciuto (ne ha fatto una versione anche Vasco Rossi, che però non amo particolarmente). Da lì è nata l’idea di pubblicare un disco con il mio quartetto acustico, con cui ogni tanto capita ancora di fare delle serate, anche se sempre meno. Ci siamo ritrovati un giorno in un casale e, a fil 'e voce, abbiamo registrato questi brani. Devo dire che loro sono stati carinissimi con me, soprattutto Giovanna Famulari, con la quale poi ho continuato a collaborare e che ho voluto anche nel nuovo disco.
Veniamo al nuovo album…
Il disco doveva intitolarsi “55-25”, un po’ per sintetizzare la mia vita: è uscito il giorno in cui ho compiuto settant’anni. Ho organizzato una piccola festa all'Officina Pasolini a fine settembre e, dopo il concerto, ci siamo ritrovati in un bar lì vicino dove ho offerto qualcosa agli ospiti. Alla fine, ho voluto fare io un regalo a loro, donando una copia del disco. Ne ho fatte stampare cento copie numerate. È un lavoro un po’ particolare perché ho fatto quasi tutto da solo, curando i suoni, ma ci sono tanti ospiti tra cui amici storici come Rocco Petruzzi. Di nuovo in realtà non c'è tantissimo, perché via via avevo pubblicato dei singoli.
La genesi dei vari brani è abbastanza articolata…
Ci sono alcune canzoni che ho scritto e poi chiuso con l'aiuto del mixaggio e della produzione di Luciano Zanoni, che lavora con Riccardo Cocciante e Laura Pausini. Una sera in cui Giovanna Famulari non poteva venire a suonare, la sostituì la compagna di Luciano. Facemmo un bel concerto in una chiesa a Piazza Mercato a Napoli e a lei piacquero molto le mie canzoni, tanto che mi disse: "Belle le tue cose, le faccio sentire a Luciano". Così lui mi ha chiamato dicendo: "Vogliamo registrare le tue cose?” e mi ha proposto di raggiungerlo nel suo studio a San Giovanni. Il mixaggio conclusivo l'ha fatto Fabio
Martellana, un fonico che lavora molto con artisti napoletani, oltre a curare i suoni de “L’Asino che vola”; ha una grande sensibilità musicale.
I primi quattro brani sono completamente inediti…
Gli inediti sono appunto il primo "Dormo", poi "Non serve a niente", "Caffè sospeso" e “Nu suonno busciardo”. Alcuni li ho realizzati con le detenute del carcere di Pozzuoli. Andavo in treno da Roma a Napoli e poi con i mezzi arrivavo a Pozzuoli. Il carcere non è un luogo facile, ma è nato un affetto, quasi un'amicizia con molte di loro. Abbiamo realizzato il video pochi giorni prima che evacuassero la struttura per il bradisismo. Ho coinvolto insieme a loro tre amiche cantanti: Eduarda Iscaro (che suona anche la fisarmonica), Unaderosa dei Renanera e Filomena D'Andrea dei Makardìa. C'è poi “Caffè Sospeso”, che ha sempre a che fare con il carcere di Pozzuoli e in cui è ospite Simona Boo, che canta anche in “Terra Mia”. “Caffè Sospeso” è stata utilizzata per uno spot con Marisa Laurito e Lino Musella per il "Caffè delle Lazzarelle". Le Lazzarelle sono una cooperativa nata nel carcere che gestisce una torrefazione e, tra l'altro, sono state premiate dal Presidente della Repubblica.
Veniamo alle tue versioni de “La Notte” di Salvatore Adamo e “Un anno d’amore” di Nino Ferrer, due classici della canzone d’autore internazionale…
Questa è un’altra passione mia. C’erano questi due brani che avevo in animo di incidere da lungo tempo e
finalmente l’ho fatto. Per "Un anno d'amore" ho ripreso il brano originale in francese “C’est irréparable” che Nino Ferrer scrisse per Dalida nel 1963. Pensavo di cantarla con una cantante francese e infatti ne ho inciso una versione con Jane Birkin, prima che morisse. Abbiamo fatto anche un video al quale ha partecipato Malika Ayane, ma alla fine non l’abbiamo più pubblicata. Per questo disco ho deciso di rifarla partendo dal provino che feci per Jane Birkin, con il fraseggio di pianoforte di Rocco De Rosa a cui ho aggiunto un'altra parte di piano mia. “La Notte” di Salvatore Adamo è un altro di quei pezzi che ho dentro da sempre. È un brano iconico che hanno rifatto in tanti, dagli Avion Travel a Morgan, ma anche in questo caso la mia idea era di cantarla in due lingue e Patricia Thibault ha fatto un ottimo lavoro. Ai controcanti partecipano due mie amiche, la vignettista Chiara Rapaccini e Giulia Merlino. È venuta fuori una cosa molto notturna, molto anni Ottanta.
In questo senso, il disco ha un sound caratterizzato dall’uso dell’elettronica…
È il mio sound, che ha radici negli anni Ottanta.
C’è poi il doppio omaggio a Pino Daniele…
L’omaggio a Pino Daniele nasce dal fatto che un giorno mi chiamò Antonio Tricomi: dovevano fare un libro di Repubblica per ricordare Pino quest’anno. “Se ti va di scrivere una cosa, di fare qualcosa... stiamo
chiedendo a vari musicisti”. Io ci pensai un po’... Poi lui mi disse: “Guarda, secondo me Cerchiamo di capire potrebbe essere nelle tue corde”. Io risposi: “Ma no…”. Alla fine, mi sono sentito con Marco Gesualdi e gli ho proposto: “Vogliamo provare a fare una versione voce e chitarra di "...E cerca 'e me capì?”. L’abbiamo arricchita con la figlia di Marco, che è molto brava, e un’altra cantante della sua scuola di musica. È una cosa acustica, molto semplice, un omaggio intimo. “Terra Mia”, invece, nasce nel corso di un laboratorio teatrale fatto da un gruppo di ragazze, soprattutto nigeriane, con il Teatro Roberta Dante: lavoravano proprio sul concetto di “terra mia”. Per me, oggi, “Terra Mia” non poteva essere solo Napoli: è la terra di tutti. In quella canzone Pino mette le sue origini, un certo fastidio, ma anche un senso di appartenenza molto complesso. In Pino c’è sempre un dubbio, una complessità. “Terra Mia” per lui non era affatto un inno agiografico, era un sentimento complicato. E oggi, forse, dobbiamo raccontare una terra che è anche accoglienza, una terra che appartiene a tutti. Così ho coinvolto queste ragazze. Il 19 marzo abbiamo fatto un flash mob in Piazza Municipio. Ho chiamato alcuni amici e ho pensato: “A questo punto facciamo una versione più ricca”. Fabrizio Bosso abita non lontano dallo studio qui a San Giovanni, dove lavora con Luciano Zanoni. Poi c’è Elisabetta Serio, con la quale ci eravamo ripromessi di fare qualcosa insieme. “Terra Mia” è una canzone breve, inizia e finisce in fretta, però mi piaceva darle un rilancio finale e chiuderla con un coro. Ho cambiato tonalità usando la tromba che sale completamente e diventa un’altra cosa. C’è Geremia Tierno, storico batterista dei Little Italy. Giovanna Famulari ovviamente; mentre nella prima parte c’è Maria Pia De Vito, nella seconda c’è Simona Boo che interpreta “Terra Mia” a modo suo, per
poi chiudere con i Vocalia, il coro polifonico in cui canta Gabriella Pascale. L’ho incontrata al Parco Maddalena insieme a Nini Pascale e le ho chiesto di preparare questo intervento. Ed è venuto fuori questo finale.
Nella tua indole artistica c’è quella dell’incontro…
A me piace creare incontri, avere a che fare con le persone, mi arricchiscono. Credo molto in quello che diceva Vinicius de Moraes: "La vita, amico, è l'arte dell'incontro". A volte si fa molta fatica, però devo dire che è questo che ci resta della vita.
In questi anni non ti è mai venuto l'istinto di fare un disco, un lavoro, un progetto legato alla tua terra, la Lucania? Magari in dialetto...
Quest'estate proprio con Giovanna Famulari siamo stati ospiti di una rassegna di poesia e musica a Fasano, in Puglia. Loro mi hanno espressamente chiesto di fare uno spettacolo, un excursus in cui venisse messo in primo piano il mio rapporto con la poesia e gli artisti lucani, perché è un festival concepito in questo modo. Io non ho radici nel folk, ma nella new wave degli anni Ottanta, dove all’inizio nessuno cantava in napoletano. Si cantava in inglese, qualcuno in italiano, ma nessuno in dialetto. C'era proprio una presa di distanza forte, sia dalla tradizione che da Pino Daniele; per noi era un riferimento importante, ma musicalmente seguivamo altri percorsi. Quando Pino ci chiamò per il film “Blues Metropolitano” e andammo a suonare, lui lo fece con l'idea di portare in scena il "nuovo”. Il napoletano, la riscoperta del dialetto, è venuta qualche anno dopo, anche se all'epoca c'erano drammaturghi che continuavano a
lavorare in lingua, come Enzo Moscato o De Simone. I nostri riferimenti erano New York, Berlino. Non erano i canti del Vesuvio, forse perché il peso e l'importanza di questa lingua erano tali che sentivamo di dovercene liberare; per noi rappresentava un macigno. Figurati, ho vinto una Targa Tenco con canzoni scritte in napoletano. Dico questo per arrivare alla mia consapevolezza attuale: ci ho messo qualche anno per dire "Ma noi siamo stati proprio scemi totali". Cioè, non rendersi conto che avevamo un patrimonio, una ricchezza, una modernità. La maggior parte dei miei pezzi li ho scritti in Basilicata, me ne andavo da solo in mezzo a queste colline, a queste montagne tra il silenzio e il gelo, ma non mi è mai venuto in mente di mettermi a tavolino e scrivere in lucano. Certo, in qualche canzone che ho scritto ci saranno dei termini che non sono napoletani, che sono più lucani o mischiati…
Canio Loguercio – CANIO LOGUERCIO 2025 (Autoprodotto, 2025)
A ogni capitolo della storia musicale di Canio Loguercio sembra di trovarsi difronte a una serie di immagini inevitabili e imperdibili. È talmente forte la narrativa che sprigiona dai suoi album che ci si deve fermare, assumere l’assetto più ricettivo e assorbire, con il tempo e la concentrazione necessari, l’insieme di orizzonti che scorrono e, allo stesso tempo, si condensano. Come ci dice nell’intervista, questo nuovo album ha forse una densità ancora diversa, che si trattiene in un quadro di rimandi che si specchiano e si evitano con la stessa intensità: lo sguardo a un’epica delle origini e la condensa di un’esperienza profonda e lunga, così come l’epica di una costruzione musicale che interagisce con un’idea netta di spazio e di tempo, lunghi, piani, profondi, inarrivabili ma tangibili. Poi c’è la modernità (epica anch’essa) di un discorso musicale in cui le immagini vanno diritte per la loro strada, trovando il tempo giusto per svolgere l’idea che ne determina la forma, affrontando gli spigoli di un crocevia continuo, in cui tutto si intreccia e tutto – di nuovo – si evita, si deforma e si riforma. Ecco, questo andamento misto, nel quale si fronteggia e si sfugge, ricopre un significato che appare, già al primo ascolto dell’album, imprescindibile. Perché è da questa metamorfosi continua delle forme che “2025” cattura un arco di sensazioni e immagini indispensabili. Che hanno a che fare con la storia e il presente, con la prospettiva dell’incontro, la riflessione sulle traiettorie di una vita interpretata musicalmente, una narrativa perentoriamente dialettica e dialettale, onomatopeica, uno sguardo protratto verso la dimensione corale e, allo stesso tempo e con la stessa efficacia, alla dimensione di una sintesi che si trova soltanto nel pensiero personale, fino all’estensione necessariamente sociale di una produzione musicale caratteriale, unica, inimitabile. La tensione tra l’essenza univoca dell’assorbimento e l’abbraccio dell’altro assume nell’album la forma di un percorso sempre sorprendente. Sia quando Canio riporta nella sua voce l’elegia arcaica e intatta di grandi autori (si citano anche nell’intervista Pino Daniele, Salvatore Amado e Nino Ferrer), sia quando si volge verso spazi rarefatti che, a modo loro, trasudano musica, pensieri, parole, visioni, caratteri mai opachi ma sempre irresistibilmente contradditori. In questa catarsi che si allunga attraverso tredici brani stupendi e ineluttabili, Loguercio incrina ogni nostra certezza (e mono male) con “E cerca e me capi” e “Terra mia”. È vero che lui stesso ci parla del contesto in cui sono maturate le versioni di questi capolavori, ma ascoltarli in questo album e dentro l’idea generale che lo ispira è un’esperienza cui nessuno deve sottrarsi. Niente di ciò che vi si può carpire si può immaginare prima di percorrerle, insieme, nei pochi minuti che le attraversano in una scaletta indeterminata e potenzialmente infinita, in cui sono accoppiate in uno spazio indelebile, in cui si guardano, si scrutano e si allontanano a vicenda, richiamandosi e spingendosi, opponendo a chi ascolta le soluzioni meno ovvie e, forse, più lontane dalla voce più propria di Canio. Voce che ritorna subito – come a rinfrancare un disorientamento insopportabile – con “A libertà (‘o respiro d’e pprete)”, che alterna la franchezza limpida della polivocalità femminile, dentro l’onda melodica di un inno, con la parabola sorda del canto stretto, perfetto, narrativo del cantautore lucano. La scaletta culmina con uno dei brani forse più tesi e divergenti selezionati per questo “2025”. Siamo difronte a “Miserere”, un epilogo perfettamente incastrato nella forza del canto e del ritmo di Canio, in una versione rivisitata dell’originale di venti anni fa: un capolavoro, una spugna assoluta, capace di assorbire il carattere frastagliato di un album complesso e liberamente completo – “Si ’sta voce te scete int’ ’a nuttata….”
In conclusione vi presentiamo in anteprima per Blogfoolk il video di "Terra Mia"
Daniele Cestellini










