Canio Loguercio – A fil’’e voce. Live al Casale di Cristina (Autoprodotto, 2023)

“A fil’ ‘e voce” racchiude uno scenario pieno di pensieri, intimi, da sussurro. Disposti come un racconto letto a bassa voce. Un racconto serale. O – visto il contesto di produzione: un giorno in una casa di campagna – un racconto ameno, di riflessione e introspezione. La voce di Canio Loguercio ci riporta al tratto premuroso di una storia scanzonata e consolatoria, ricordata e narrata tutta d’un fiato, con l’ausilio di strutture reiterate di filastrocche, di sibili rochi che sprofondano in una contemplazione “orizzontale”: che ci riguarda tutti, che ci riempie di soddisfazione, perché ne riconosciamo gli anfratti, proprio quando si incastrano negli interstizi dei nostri pensieri. L’intero andamento dell’album – composto da dodici brani rantolati, trascinati nel solco di quattro strumenti accarezzati – ci costringe a fermarci, contemplando la dimensione visiva di canzoni dai titoli solenni e intellegibili: “Nuttata senza dio”, “Amaro ammore”, “T’aspetto ‘ccà”, Ma, ancora più, dai tratti narrativi fortemente descrittivi. Il bello sta proprio qua in mezzo, nella tensione ambigua generata dalle venature poetiche che tendono le frasi “parlate” della scrittura di Canio. Nel suo sospiro cantato, Canio non ci fa sconti – come sappiamo – e vola (“vola e se ne va/ ‘st’auciello vola/ e nun se ferma mai”) nel suo orizzonte di storie, spingendoci i menti verso l’alto, a guardare le foglie degli alberi che si muovono in un chiaro di luna: abbagliante come la densità di un cielo scuro, di un inverno infinito: “Io e te/ io e te/ io e te/ io e te” ci dice, si dice, le dice, “‘O saccio ca me siente” e (traducendo) “io non mi muovo, tanto da qui devi passare”. Insomma, una visione musicale raccolta in pochi stralci di racconto, che ci confermano l’assetto musicale di un autore più che unico nel nostro panorama: caparbio, elegante, profondo, convinto. Lo so che chi consce Loguercio sa di cosa parlo: la raffinatezza musicale che abbraccia la raffinatezza della parola, di un canto personale, di un’invocazione costante alla bellezza melodica e alla dolcezza fonetica. Ma “A fil’ ‘e voce” condensa i tratti più originali della sua impostazione musicale, aderendo senza forzature alla semplicità diretta e coraggiosa di un dialogo aperto, chiaro, spogliato di retorica e artifici. Difatti – come si diceva poco sopra – l’album ha assunto i tratti di un dialogo-monologo, di una specie di lunga considerazione ricompresa in una dimensione pre-canora. La sua maggiore efficacia – oltre che nella bellezza complessiva della forma che assume, sul piano del timbro e dell’atmosfera – risiede proprio qui: siamo difronte a un parlatore che si “esibisce” musicando il suo discorrere. Sembra di risentire i cuntastorie siciliani, che impennavano la tonalità e i ritmi dei racconti per tenere alta l’attenzione, ricorrendo, allo stesso tempo, ai nuclei mnemonici della tradizione orale. Certo Canio non reitera il suo stile per questi motivi. Ma la linearità reiterata delle sue strofe assume i tratti (questi sì simili a quelli) di una necessità, prima ancora che di una strategia. Noi – accettando il modello e la scelta originale del cantore – non possiamo opporci ma, al contrario, partecipiamo della potenza del racconto e della grazia del suo stile. Dicevo che l’album potrebbe essere considerato un manuale della visione musicale e della narrativa loguerciana: ce lo conferma la genesi a un passo dall’estemporaneità (dall’happening: un giorno di registrazioni dal vivo nelle campagne di Velletri) e la scelta di una cornice musicale pulita, lineare, lignea. I musicisti qui ascoltano (Giovanna Famulari al violoncello, Ermanno Dodaro al contrabbasso e Massimo Antonietti alla chitarra). E, ascoltando, interpretano e imparano. Proprio come noi: “Tieneme stritto comme se fosse d’ ‘a carna toja”. 


Daniele Cestellini

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