Miles Davis appartiene indiscutibilmente al Pantheon della storia del jazz. Chiunque imbracci una tromba, in un modo o nell’altro, si trova inevitabilmente a fare i conti con il suo lascito: un universo artistico vasto e rivoluzionario, ancora oggi inesauribile fonte di scoperta e ispirazione. Se molti, nel tentativo di omaggiarlo, hanno finito per ricalcarne nostalgicamente le orme, altri hanno saputo trasformare la sua eredità in terreno fertile per un personale percorso di ricerca e sperimentazione. Tra questi, un esempio luminoso è Paolo Fresu, che con il suo nuovo doppio album “Kind of Miles” rende omaggio all’opera del genio americano, costruendo però un lavoro complesso e stratificato, concepito come spettacolo teatrale prima ancora che come progetto discografico. Prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano per la regia di Andrea Bernard, l’opera è stata scritta, composta e interpretata dal trombettista sardo e ricostruisce in modo sorprendente la vicenda umana e artistica di Miles Davis – il “Prince of Darkness”, scomparso nel 1991 – intrecciandola a spaccati autobiografici in cui racconta il suo apprendistato jazzistico tra gli anni Settanta e Ottanta. “Kind of Miles” chiude idealmente la trilogia teatrale che ha visto Fresu protagonista anche di “Tempo di Chet” e “Tango Macondo”: “Chet Baker e Miles Davis sono stati i miei artisti di riferimento, due figure che ho molto amato e alle quali mi sono sentito profondamente vicino”, sottolinea Fresu, “Miles ci ha insegnato ad andare sempre avanti. Credo che in questo momento storico, al di là dell’estetica, ci sia un bisogno impellente di vedere oltre le cose. Forse saranno proprio la visionarietà, la poesia e il coraggio a darci la possibilità di salvare il pianeta”. Il disco racchiude la musica dello spettacolo ed evoca in modo sorprendente le due anime del trombettista americano, due facce della stessa medaglia complementari e speculari: nel primo disco, “Shadows”, emerge il Davis acustico, lirico e notturno, capace di ridefinire i canoni dell’eleganza melodica nel jazz; nel secondo, “Light”, si manifesta invece c’è l’anima elettrica e visionaria, quella che lo ha portato a sconquassare i confini del jazz, aprendosi al dialogo con le sonorità degli anni Ottanta. In parallelo emerge anche la visione della musica di Paolo Fresu e la sua idea di jazz come linguaggio in continua evoluzione. Il risultato è un un viaggio a doppio binario: un atto d’amore verso un maestro e, insieme, un manifesto di libertà creativa. “Shadow”, il primo cd, si caratterizza per la sua atmosfera notturna da jazz club degli anni Cinquanta, e vede il trombettista sardo affiancato da un supergruppo composto da Dino Rubino (pianoforte), Marco Bardoscia (contrabbasso) e Stefano Bagnoli (batteria). Il quartetto si muove lungo coordinate ben precise, animato da un interplay impeccabile guidato dal timbro inconfondibile del flicorno di Fresu che dialoga con l’opera di Miles Davis con la confidenza di chi non solo ne ha imparato la lezione, ma ne ha rubato i segreti dell’arte e li ha fatti propri, fino a raggiungere la maturità di un proprio stile. Il pianoforte di Rubino costruisce le architetture armoniche su cui si innestano le melodie di Fresu, mentre Bardoscia e Bagnoli creano una tensione ritmica costante. Ad aprire il disco è la struggente "It Never Entered My Mind" a cui segue una sontuosa “Autumn Leaves [Take One]” e una altrettanto fascinosa “Diane” la cui linea melodica è riportata alla sua essenza più pura. Una brillante “I Thought About You” ci introduce alla bella sequenza di composizioni originali con “Rue Saint Denis” di Dino Rubino e la sontuosa “Back In” di Fresu in cui il quartetto si evolve in sestetto con l’innesto di Bebo Ferra alla chitarra e Filippo Vignato al trombone ad ampliare la gamma sonora e ad anticipare le atmosfere elettriche di “Light”. “Selim” di Marco Bardoscia ci introduce al finale con “’Round Midnight” di Thelonius Monk, “Summertime” in cui fa capolino una citazione di “So What” e la gustosa rilettura di "Bess, You Is My Woman Now" che rimanda alla collaborazione tra Miles Davis e Gil Evans.
evoca la collaborazione con Gil Evans senza scimmiottarne la grandiosità, trovando una dimensione più intima e raccolta. Se "Shadows" era un condensato di lirismo, "Lights" è un'eruzione sonora. Il paradigma cambia totalmente, abbandonata la penombra acustica, Fresu si tuffa a capofitto nel Miles Davis più sperimentale e la formazione si allarga e diventa a geometrie variabili con Bebo Ferra stabilmente alla chitarra e, ad alternarsi, Filippo Vignato al trombone, Federico Malaman al basso elettrico e Fender Rhodes, e Christian Meyer alla batteria. Fatta eccezione per “Time Aftern Time” di Cindy Lauper, il disco è composto interamente da composizioni originali che evocano lo spirito di Miles, padroneggiandone i metodi, l’abilità nel dialogare con linguaggi musicali “altri”, la sperimentazione e la ricerca senza steccati. È un Miles Davis declinato al futuro, “una specie di Miles” con la chitarra di Ferra che si muove tagliente, il trombone di Vignato che è trasfigurato dall’elettronica e la tromba di Fresu che si muove cambiando continuamente registro nell’utilizzo di un fraseggio più nervoso ed intenso. Si parte con “Call it nothing” che si snoda attraverso continui cambi di ritmo e trama melodica, introducendoci alla magnifica versione di "Time After Time" di Cyndi Lauper, fatta propria da Miles Davis nell’emblematico “You’re Under Arrest” del 1985 e che Fresu rilegge con grande sensibilità trovando il punto di equilibrio tra la melodia pop dell’originale e l’approccio stilistico del gruppo che la colora con grande originalità. Se “Estemporaneo” è una improvvisazione tromba, trombone e contrabbasso si alternano nel dialogo con la batteria, la successiva “Violet” di Vignato parte da territori jazz per toccare il rock con il vorticoso solo di Ferra alla chitarra. Le sonorità urban jazz di “Berlin” e la misteriosa “Call it something” di Fresu aprono la strada al climax di “Orange” che spicca per la sua solare costruzione ritmica e alla vibrante “Tempus”. C’è ancora tempo per le sorprese perché in “MalaMiles” ritroviamo un'altra citazione di “So What” mentre “Venere” è una elegante ballad declinata in chiave elettrica. Le sperimentazioni a tutto campo di “Inventum” chiudono un disco di assoluto pregio, nel quale l’omaggio al genio di Miles Davis procede in parallelo ad una forte dimensione autobiografica. Fresu ci ricorda, ancora una volta, che il jazz è una fiamma viva, da alimentare incessantemente attraverso la curiosità e la ricerca, ma anche con il coraggio di misurarsi con la propria storia — una storia che va riletta, reinventata e rimessa in gioco per continuare a resistere al tempo.
Salvatore Esposito
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