Mulatu Astatke, Farewell Tour, Estragon Club, Bologna, 29 Settembre 2025

Cos’è l’ethio-jazz? Per capirlo basta ascoltare Mulatu Astatke aprire il concerto con lo swing di "Zelesenga Dewel" o introdurre la sinuosa “Delilah”, brano scritto da Victor Young per l’industria cinematografica statunitense (lo registrò con la Paramount Symphony Orchestra) poi lucidato a dovere dalla quintetto di Max Roach e Clifford Brown che lo resero uno standard re-interpretato da solisti come Kenny Burrell, Yusef Lateef, Kenny Dorham: proprio il genere di musica che spinse Mulatu Astatke a rivedere i piani che per lui avevano pensato i suoi famigliari: una laurea in ingegneria da conseguire in Gran Bretagna cui preferì studi musicali al Trinity College of Music a Londra (lavorando con il cantante e percussionista Frank Holder) per poi perfezionarsi al Berklee College of Music di Boston in vibrafono e percussioni (registrando due album dal titolo “Afro-Latin Soul). Dagli anni Settanta, da “Mulatu of Ethiopia” (1972) e “Yekatit Ethio Jazz” (1974), è fra i 
protagonisti dell’ethio-jazz, a fianco di Mahmoud Ahmed o come ospite di Duke Ellington, ma soprattutto con i suoi gruppi, come accade ancora regolarmente all’African Jazz Village, il suo locale al piano terra del Ghion Hotel ad Addis Abeba. Il suo ultimo lavoro è uscito con la Strut a fine settembre e lo vede impegnato a rileggere i brani classici del suo repertorio insieme a un gruppo di musicisti con base a Londra e lo sguardo ben aperto sul mondo: il risultato sono undici notevoli tracce sotto il segno di “Mulatu Plays Mulatu” Fulcro del settetto che lo accompagna sono il pianoforte e le tastiere di Alexander Hawkins, già ascoltato a dare il meglio di sé con un altro gigante della musica improvvisata africana, Louis Moholo. Già vent’anni fa, Hawkins aveva coinvolto nel suo ensemble sia contrabbasso, sia violoncello e con Mulatu Astatke riparte da questa felice e tellurica combinazione, con Neil Charles (o John Edwards) al contrabbasso e Danny
Keane al violoncello. A completare la sezione ritmica sono due fuoriclasse: Ben Brown alla batteria e Richard Olatunde Baker al (vasto) set di percussioni. In primo piano, completano l’organico la tromba e il flicorno di Quentin Collins e il sassofono tenore e flauto traverso di James Arben, in veste sul palco anche di co-direttore del gruppo. Al centro della scena, con i fiati alla sua destra e le percussioni alla sinistra, Mulatu Astatke parte dal vibrafono, ma spazia anche alla tastiera e alle percussioni. Il gruppo sa interpretare a menadito i classici del leader, da “Yèkèrmo Sèw” (La persona saggia) a “Tezeta”, passando per i ritmi incalzanti per le feste di matrimonio e “The Way to Nice”. In quest’ultima hanno ampio spazio Richard Olatunde Baker con uno strabiliante assolo di percussioni e James Arben al flauto. Ma ogni componente del gruppo sa prendersi i propri spazi e sa mettersi al servizio dei colleghi con un magistrale e creativo intersecarsi di soluzioni
armoniche e di poliritmi, evitando gli schemi della forma canzone a favore di sviluppi che permettono un respiro sinfonico e di trattare il volume e lo svolgimento del brano con estrema malleabilità, secondo l’ispirazione e le interazioni fra solisti e il massimo rispetto, in particolare per le dinamiche, quando Mulatu Astatke decide di esplorare a dovere le sonorità del vibrafono o della tastiera, sempre costruendo con calma le sue nicchie sonore, prima di far scaturire la poesia del momento. Menzione speciale per la cura del suono che all’Estragon ha saputo restituire le specifiche voci dei musicisti, molto piene e vicine al “legno” per gli archi, felicemente liriche ed espressive nella sezione fiati, grazie anche al ricorso alla respirazione circolare di Arben. Il pubblico ha risposto da par suo e, dopo gli iconici brani finali “Mulatu” e Yekatit” si è fatto regalare ancora una manciata di bis. 

 

Alessio Surian 

Foto e video di Alessio Surian

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