L’Antidote - Bijan Chemirani - Redi Hasa - Rami Khalifé – L’Antidote (Ponderosa Music Records, 2025)

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Può la bellezza, tradotta in musica, salvare il mondo? È questa l’ambiziosa domanda che anima L'Antidote, il disco d’esordio di un trio inedito e straordinario, formato dal violoncellista albanese Redi Hasa, dal maestro dello zarb e delle percussioni persiane, l’iraniano Bijan Chemirani, e dal pianista libanese Rami Khalifé. Il loro primo album è un antidoto sonoro ai “veleni” del nostro tempo: un viaggio sensoriale che unisce mondi e culture geograficamente distanti in una sinergia musicale potente e originale. Nato da un incontro avvenuto poco prima che la pandemia fermasse il mondo, e registrato nell’autunno del 2024 nella luce di uno studio in Puglia, L’Antidote è un’opera di rara finezza strumentale, costruita sull’ascolto reciproco e sull’improvvisazione. Tre virtuosi — noti per le loro illustri carriere e collaborazioni (da Ludovico Einaudi e Robert Plant per Hasa, a Sting per Chemirani, fino alle più prestigiose orchestre sinfoniche per Khalifé) — mettono da parte ogni egocentrismo per tessere insieme paesaggi sonori che evocano un Oriente plurale, in perfetto equilibrio tra le loro geografie native. Dalle melodie levantine e meditative di brani come “Pomegranate” e “Rosée”, alla trance estatica e danzereccia di “Na Na Na”, l’album attraversa una vasta gamma di emozioni. È un repertorio che invita alla contemplazione, ma anche alla liberazione fisica, dove la tradizione si fonde con una sapiente sperimentazione elettronica. 
Per approfondire la scaturigine, le storie e l’anima di questo progetto, abbiamo parlato direttamente con uno dei suoi protagonisti, Redi Hasa.

Redi, come nasce l'incontro tra te, Bijan Chemirani e Rami Khalifé? Cosa vi ha spinti a dar vita a questo progetto comune?
Questo incontro nasce da un’idea di Titti Santini. Un giorno, mentre eravamo in tour, ha iniziato a parlarmi del suo progetto di unirci. Con Bijan Chemirani avevo già collaborato per il disco "Novilunio", che ho realizzato con Maria Mazzotta; è stato nostro ospite in quell'album e quindi avevo già avuto modo di suonare e condividere musica con lui. Peraltro, lo conoscevo già da prima e sceglierlo è stata una decisione presa insieme a Maria, perché seguivamo da tempo la sua famiglia, il Chemirani Trio, di cui avevamo ascoltato moltissimi lavori. Rami Khalifé, invece, era una novità per me. Titti mi ha parlato di questo fantastico pianista libanese, che dopo aver vissuto a Parigi con la famiglia si è diplomato in America e ora vive a Sydney. L'idea del trio è stata sua, aveva già in mente il suono che avremmo potuto creare. Possiamo dire che questo progetto è un "figlio" di Titti Santini. Da lì, abbiamo deciso di organizzare un primo incontro.

Il titolo L’Antidote è molto evocativo: qual è, secondo te, il “veleno” a cui la musica di questo trio intende opporsi?
Il titolo "L’Antidote" è nato durante il nostro primo incontro a Lari, un meraviglioso piccolo paese vicino a Firenze, in uno studio di registrazione. Lì ci siamo incontrati per la prima volta e abbiamo iniziato a dialogare attraverso la musica. Io non parlo bene l'inglese e Rami non parla italiano, ma è stato il linguaggio della musica a permetterci di comunicare, di raccontarci. Il nome è nato proprio in quei giorni, poco prima che il mondo si fermasse a causa del Covid. Vivevamo una situazione surreale e avevamo fretta: dopo quattro giorni di registrazioni libere e totalmente improvvisate, è scattato il lockdown e siamo rimasti fermi per quasi tre anni, senza avere la possibilità di finalizzare il lavoro. È in quel contesto che ci è venuto in mente il titolo, riferito proprio alla situazione che stavamo vivendo. Pensavamo che la musica, nelle nostre vite, è sempre stata e continua a essere un antidoto contro le sofferenze che le persone subiscono nel mondo. Vediamo la musica come una salvezza, e lo è. Per ognuno di noi, raccontando le nostre vite, la musica è stata di enorme aiuto. E oggi, considerando il "veleno" che la politica e gli eventi attuali ci riservano, siamo ancora più convinti che la musica sia bellezza e speriamo che possa diventare un antidoto per le tante sofferenze del nostro tempo.

Avete registrato il disco in Salento, immersi in un contesto di grande luce e silenzio. Quanto ha influito quel luogo sul vostro modo di suonare e di ascoltarvi?
Abbiamo registrato il disco a Guagnano, presso il Sud Studio, un posto meraviglioso immerso nelle campagne salentine, caratterizzato da una luce particolare e un silenzio molto profondo. Ci siamo ritrovati per concludere il progetto l'estate scorsa, dopo quasi tre anni di stop, e l'appuntamento è stato proprio nel Salento. Siamo partiti riascoltando le registrazioni del nostro primo incontro per selezionare le idee più interessanti, per poi lavorare anche a materiale nuovo, sempre attraverso l'improvvisazione. Questa volta, però, abbiamo cercato di essere più focalizzati, trasformando quelle lunghe suite improvvisate, che potevano durare anche trenta minuti, in brani più strutturati e adatti al formato del disco. Il luogo è stato di grande ispirazione, non solo per la musica, ma anche per l'atmosfera che abbiamo vissuto: le passeggiate tra le vigne di Guagnano, il cibo salentino, i piatti meravigliosi. Tutto questo ha influenzato molto il disco e credo che si senta.

Il disco è un intreccio di culture diverse: Albania, Libano, Iran, Mediterraneo, Europa. Come avete trovato un linguaggio comune senza perdere la vostra identità?
In questo disco si sentono molto le nostre terre: l'Albania per me, il Libano per Rami e l'Iran per Bijan. Non avendo mai suonato insieme prima, la musica è diventata il nostro linguaggio primario per raccontarci e conoscerci. Ognuno di noi proponeva delle idee, che venivano accolte e arricchite con i colori degli altri. Più suonavamo, più ci conoscevamo. Il risultato è un disco in cui la terra si sente, si sente
il Mediterraneo, si sentono le atmosfere dei matrimoni libanesi, le melodie albanesi o le ritmiche iraniane.

Nel tuo violoncello si percepisce un continuo oscillare tra minimalismo, barocco ed esplorazione contemporanea: come hai adattato il tuo stile per dialogare con lo zarb di Bijan e il pianoforte di Rami?
In questo “giardino di suoni” abbiamo iniziato a dialogare e a creare, componendo un puzzle che, pezzo dopo pezzo, ha rivelato la figura che stavamo immaginando. È stato un processo molto istintivo. Siamo entrati in studio e abbiamo messo sul tavolo le nostre idee: uno di noi lanciava uno spunto, che veniva subito raccolto dagli altri, aprendo nuove finestre e mantenendo la musica in costante movimento. All'inizio non sapevamo che direzione avremmo preso. Solo dopo ore di improvvisazione, quando siamo passati in regia e il nostro fonico, Valerio, ha premuto "play", abbiamo iniziato a intravedere il quadro completo del lavoro che avevamo fatto.

L’improvvisazione sembra essere stata una chiave fondamentale. Come si è sviluppata in studio la scrittura dei brani?
Il lavoro improvvisativo è stato fondamentale. Tuttavia, in processi come questo non c'è mai una garanzia di risultato. Molti artisti di grande talento si sono uniti per sessioni di registrazione simili, e a volte ne sono nati capolavori, altre volte nulla. Non c'è sicurezza, non si sa mai cosa ne uscirà alla fine. Noi, dopo aver ascoltato tutto il materiale, ci siamo resi conto che c'erano colori bellissimi e un potenziale enorme da sviluppare. Da quel momento è iniziato il lavoro di focalizzazione e rifinitura sulle parti registrate.

"Pomegranate" è il primo singolo estratto, un brano che porta con sé un messaggio di armonia e unione. Perché avete scelto proprio questo pezzo come manifesto del progetto?
“Pomegranate” è stato il primo brano che abbiamo scelto come singolo e ci è sembrato subito perfetto per aprire il disco. Lo abbiamo percepito come un'apertura naturale, per l'armonia che trasmette. Mentre lo ascoltavamo, vedevo i volti sorridenti e rilassati degli altri: era un brano che viaggiava libero, semplice, non intellettuale. Arrivava dritto all'anima in modo immediato, senza preoccupazioni strutturali o articolazioni complesse. Ci è piaciuto per la sua semplicità. Dopo trent'anni passati a navigare nel mondo della musica, posso dire che la semplicità è la cosa più difficile da trovare. "Pomegranate" ci è sembrato un brano onesto, che ci rappresentava pienamente in quel momento.

C’è un brano che senti più vicino alla tua storia personale o alla tua sensibilità di musicista?
In generale, sento mio ogni brano del disco. Mi divertono tutti: alcuni sono molto ballabili ed esprimono un'energia fortissima, raccontando di matrimoni, amore e gioia. Altri, più introspettivi, toccano corde legate al dolore o a momenti particolari che ognuno di noi ha vissuto e che riflettono ciò che stiamo vivendo anche oggi. Siamo tre musicisti con storie molto simili. Io vengo dall'Albania, da una famiglia di musicisti. Rami viene dal Libano, suo padre è uno dei più grandi cantanti di musica libanese e orientale. Bijan appartiene alla celebre famiglia di musicisti Chemirani, in Iran. Tutti e tre abbiamo lasciato la nostra terra d'origine, spinti da scelte importanti e per fuggire da situazioni difficili, come guerre e conflitti civili. Questa condivisione di esperienze ci ha uniti molto. Oggi, che riusciamo a comunicare meglio, scambiamo pensieri sulla nostra vita e sulla situazione politica attuale, come il disastro che sta accadendo in Palestina. In questi brani, credo si senta tutta questa storia.

In "Na Na Na" emerge la gioia del ritmo e della danza: quanto è importante, per voi, la dimensione fisica ed estatica della musica?
Per me la musica deve avere una dimensione estetica e fisica, ma soprattutto deve nascere dal cuore e avere qualcosa da raccontare. Lo ripeto sempre: se non hai più nulla da dire, è inutile fare un disco o continuare a suonare. Non si può fare musica solo perché sono passati due anni dall'ultimo album e bisogna mantenere una certa produttività. Vedo la musica in un modo più umano, non come un business. Deve avere estetica, fisicità, ma soprattutto un'anima e una storia. "Na Na Na", per esempio, è un brano con un'energia particolare, molto danzereccia. Ci siamo divertiti tantissimo a registrarlo. A un certo punto, mentre Bijan suonava le percussioni, ha iniziato a cantare "na na na na" in uno stile che ricorda quello indiano, spostando gli accenti ritmici. L'idea mi è sembrata meravigliosa. Lui mi ha spiegato questa tecnica vocale e io gli ho fatto notare che, qui nel Salento, "nananà" significa "prendilo ora, in questo momento". Abbiamo iniziato a scherzare su questo doppio senso. È un brano con un'energia potente, che arriva dritto al cuore e fa venire subito voglia di ballare.

Avete realizzato anche dei remix con DJ di fama internazionale. Com’è stato vedere i vostri brani riletti in chiave elettronica?
Sì, sono usciti quattro o cinque remix realizzati da amici DJ tra cui Mercan Dede. A breve ne uscirà uno nuovo, e lo dico in anteprima, di Carmine Tundo dei La Municipal. Sono stato molto felice di invitarlo. È bellissimo vedere questi brani finire nelle mani di altri artisti, che li smontano e trovano al loro interno una nuova idea, un nuovo pezzo. Assistere alla trasformazione totale di un brano, che pur mantenendo le sue cellule originali diventa qualcos'altro, mi affascina. Mi piace ascoltare cosa un altro musicista riesce a
esprimere partendo dalla nostra musica. Questa trasformazione aggiunge nuovi colori oltre ai nostri.

Dopo le prime date tra Parigi e Milano, a novembre parte un tour che vi porterà in Italia e in Europa. Come pensate di trasportare sul palco l’atmosfera così intima e meditativa del disco?
Abbiamo già iniziato a suonare dal vivo con L'Antidote e a novembre avremo date a Parigi, Milano e in Belgio, per poi tornare in Italia a Roma e Venezia. Il risultato finora è stato bellissimo. Credo che dal vivo la nostra musica acquisti una forza particolare. Consiglio sempre, se un disco piace, di andarlo ad ascoltare live, perché emergono strutture e momenti che vengono suonati in modo diverso. Improvvisiamo molto, c'è un interplay notevole e non abbiamo voluto strutturare troppo i brani per lasciare a tutti e tre libertà di espressione. Per questo motivo, i pezzi cambiano spesso: i temi principali restano, ma si aprono mondi in cui entriamo attraverso il suono e l'improvvisazione. Questa è la bellezza del concerto: tutto si trasforma. Ogni serata è diversa dalla precedente, mai statica. Preferisco di gran lunga un concerto dal vivo all'ascolto di un disco. L'album è un biglietto da visita importante, ma dal vivo puoi sentire cose che non ci sono, perché nascono in quel preciso istante.

Il disco sembra voler rispondere a una domanda antica: può la bellezza salvare il mondo? Tu cosa ne pensi oggi, dopo aver lavorato a L’Antidote?
Credo fermamente che la bellezza salverà il mondo. Ma non solo la bellezza: anche e soprattutto la coscienza e l'azione concreta. Ognuno di noi, anche nel suo piccolo, deve fare qualcosa per cambiare le cose, a partire dal mondo in cui vive. Se ciascuno di noi si impegnasse a fare ciò che è giusto, il mondo senza dubbio cambierebbe. È una questione di coscienza collettiva. Dobbiamo capire veramente dove vogliamo andare, come vogliamo vivere e, soprattutto, cosa lasceremo alle generazioni future. Questo è l'aspetto più importante.


Salvatore Esposito


L’Antidote - Bijan Chemirani - Redi Hasa - Rami Khalifé – L’Antidote (Ponderosa Music Records, 2025)
L'antidoto è l’ascolto. Tutti e nove i brani dell’album cominciano con uno solo dei tre strumenti in gioco, a volte il violoncello di Redi Hasa, altre il piano di Rami Khalifé. Proprio come in una conversazione fra amici capaci di intimità. Capaci di accompagnare, di sostenere, di indicare una strada inesplorata. E capaci di sorprese. Il suono che apre l’album in “Pomegranate”, così come quello che veleggia sull’iniziale bordone di violoncello in “Rosee”, viene da un violoncello che si trasforma in oud, nel suono, come nel fraseggio e nell’incedere ritmico: irresistibile invito ad allargare lo spettro ritmico-armonico raccolto da una varietà di timbri proposti da Bijan Chemirani e dal piano. Poche battute e Khalifé sta già offrendo un diverso timbro, utilizzando il palmo della mano a mo’ di sordina sulle corde del piano, alternandolo abilmente a escursioni melodiche e basi armoniche mentre l’arco fa cantare il violoncello. Melodia e riff ritmici convergono mirabilmente nella parte finale portando a compimento in meno di cinque minuti un brano che per idee e sviluppo compositivo sembra tracciare un percorso molto più ampio. A questo proposito, merita ascoltare (e confrontare con quella pubblicata nell’album) la versione “estesa” che rivela alcune dinamiche dell’improvvisazione collettiva e posiziona la lente d’ingrandimento sui gesti e le felici scelte timbriche che costituiscono l’humus del brano, in particolare l’ampia paletta sonora messa in gioco da Bijan Chemirani.
(https://www.youtube.com/watch?v=iD9DEQ1zUFk)
A Stereofox Rami Khalifé ha confidato: “È sempre molto piacevole ed emozionante incontrare persone che, in qualche modo, ti assomigliano, che condividono la tua stessa visione, la tua stessa libertà di espressione, i tuoi stessi limiti illimitati alla creatività”.
“The Orchard” è il secondo brano e anche il secondo singolo scelto dal trio per annunciare l’album una danza che lega percussioni, pianoforte e violoncello: ognuno va ad incontrare i compagni di viaggio lasciando loro spazio, respiro, permettendo alle voci sia di fondersi sia di manifestarsi distinte, emergendo ognuna con le proprie diverse declinazioni timbriche e con la propria luce. “È proprio questo il punto.” prosegue Rami Khalifé “Si tratta di energia, si tratta del momento e, se posso dirlo, si tratta di superare i limiti. Questo approccio ci permette di partire davvero dall'improvvisazione, che poi diventa una sorta di linguaggio comune, nonostante proveniamo da contesti diversi e parliamo lingue diverse. Essere in grado di viaggiare attraverso una tale varietà di emozioni e avventure musicali è davvero ciò che cerco. Suonare in questo trio è una grande fonte di ispirazione e spero che potremo condividere questo sogno con il pubblico nel prossimo futuro". Il momento si avvicina perché saranno sui palchi italiani a novembre. Fra i nove brani spicca “Dates, Figs and Nuts” danza che muove i primi passi sospinta dal dialogo fra riff di piano e accenti percussivi, sospesa fra una dabke levantina e un kolo albanese. Ancora una volta la tecnica pianistica di Rami Khalifé ricorre all’uso di una mano come “sordina” per evidenziare il senso di staccato, ad incrementare i ritmi offerti da Chemirani, mentre l’archetto di Hasa fa letteralmente volare il brano come se seguisse e incitasse il volteggiare di chi balla. A noi non resta che unirci alla danza. I due brani finali, dopo l’energetico crescendo di “Na Na Na”, sanno raccontare anche l’ombra con i nove meditativi e toccanti minuti di “Shadows of Flowers on My Wall” e con “L’Ombre Qui Passe”, in grado di veicolare, letteralmente, la sensazione di esser attraversati da un movimento che rimane sospeso e inafferrabile. 


Alessio Surian

Foto di Gabriele Surdo

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