Richard Thompson, Teatro Corso, Mestre (Ve), 1 settembre 2025

Oggi la sua voce è potente e pastosa: si è
arricchita anche di note basse con l’età, ma è rimasto, quasi come un vezzo, un velo di pudore, che le aggiunge grazia ulteriore e “sprezzatura”. Dopo il Rock’n’Roll, ci immergiamo nella meditazione in forma di canzone con “The Ghost of You Walks” che chiudeva il primo cd (a quell’epoca i vinili erano scomparsi) del doppio album “you? me? us?” (scritto proprio così, con le lettere minuscole) del 1996 che narra di un amore impossibile a viversi, ma al contempo impossibile a concludersi, che ritorna come un fantasma nella notte, che fa rabbrividire di terrore e passione al contempo, attraverso il ricordo di “French kisses in the rain” (baci profondi nella pioggia). “At least we lived” (almeno abbiamo vissuto), conclude Richard. La gioia e il tormento dell’amore (e del sesso) è uno dei temi unificanti delle canzoni del concerto: tema bruciante e trattato senza tanti fronzoli e leziosità, ma in maniera molto esplicita dall’artista. Accanto all’amore, l’altro tema del concerto è la crudeltà del mondo, più specificamente talora della guerra, tema che ritorna nel brano successivo “Johnny’s Far Away”. La canzone è tratta da un album del 2007, che era tutto percorso da questa tematica, a partire dal titolo: “Sweet Warrior” (Dolce Guerriero): recava in copertina un bambino vestito da soldato con elmetto, baffi e barba disegnati sul suo viso e sul retrocopertina una foto di Richard che impugna la sua chitarra come se fosse un fucile. “Johnny Far Away” strutturalmente è una sorta di sea-shanty”, come spiega Richard introducendolo, un “Canto marinaresco di lavoro”, tipico anche della pirateria, in cui un ritmo insistente e
un ritornello cantato da tutti in coro ritmava il lavoro dei marinai sui velieri. Richard spinge tutti noi a fare il “coro dei marinai” nel ritornello e canta questa canzone in cui l’amore, il sesso e la guerra, spiritosamente ma amaramente, si uniscono. Johnny, il protagonista, ha lasciato la sua casa, è lontano a bordo di una nave, è come se fosse partito per la guerra, ma in realtà è un musicista di una band assunta per suonare per gli ospiti di una crociera. Quando si trova “far away on the rolling sea” (lontano fra le onde del mare) Johnny cede agli impulsi della carne, come anche sua moglie a casa. Conclusa la crociera, torna a casa e in qualche modo faticosamente ricuce il suo sdrucito rapporto di coppia. Dopo una deliziosa chicca per chitarra solista, tratta dal dimenticato “Strict Tempo!” del 1981 (si tratta di “Banish Misfortune”, bando alla sfortuna, una delle più note e storiche gighe della tradizione celtica, eseguita da Thompson con purezza apollinea), si ritorna ai tormenti esistenziali con “If I Could Live My Life Again” (se potessi rivivere la mia vita), sorta di lamento di una persona finita in prigione che ha sbagliato tutto con tutti nella vita, che non ha amato le persone che lo amavano (ancora l’amore…) e vorrebbe rivivere la propria esistenza da capo per non sbagliare più. Quando la canzone venne pubblicata sull’EP “Bloody Noses” nel luglio 2020 il titolo “If I Could Live My Life Again” ebbe anche un’altra risonanza, quando tutti desideravamo poter rivivere la nostra vita di prima e ci sembrava impossibile… Gli animi vengono risollevati dalle due canzoni che concludono la prima parte del set. Dapprima viene proposta la ritmata e coinvolgente “Walking the Long Miles Home” (lunghe miglia di cammino verso casa), tratta da “Mock Tudor” (1999), introdotta da un
divertente preambolo in cui Thompson racconta della sua gioventù quando andava ad ascoltare i grandi gruppi degli anni sessanta (cita “The Who”, “The Rolling Stones”, “The Yardbirds”) nei locali del centro di Londra e doveva poi tornare a casa sua nella periferia della città percorrendo miglia e miglia a piedi (la metropolitana di Londra, come è noto, chiude presto…). Ma in realtà la canzone parla d’altro, parla ancora d’amore, in questo caso prova efficacemente a definire quel senso dolceamaro di dolore e liberazione che si prova quando si esce da un rapporto amoroso troppo impegnativo e si torna liberi a casa propria. L’ultima canzone della prima parte è un monumento alla tecnica fingerpicking di Richard Thompson. Si tratta di “1952 Vincent Black Lightning”, che deve il suo titolo ad una specifica motocicletta, molto inglese, del 1952. Attorno alla motocicletta, ruota la storia d’amore (ancora l’amore!) tra un ladro di nome James e una donna chiamata Red Molly. La canzone è tra le più famose di Richard ed è stata interpretata da tanti, tra cui anche il grande Bob Dylan: è tratta da “Rumor and Sigh” (forse si può tradurre “chiacchiera e sospiro”, o almeno a me piace così, del 1992). “Qui in Italia si può parlare di sesso?” Con queste parole Thompson apre la seconda parte del concerto, presentando “Hockey Pockey”, canzone il cui titolo allude ad un gelato economico, a una formula magica (“Hocus Pocus”), ma in ultima istanza è una canzone ricca di doppi sensi. Apriva il secondo album a nome Richard & Linda Thompson del 1975. Questa sera Richard la esegue con Zara Phillips, sua moglie (e musa ispiratrice) dal 2021. Zara ha una vocalità molto diversa da Linda, è meno protagonista e il registro vocale è più grave. In questa e nelle
canzoni che seguiranno svolge sempre il ruolo di seconda voce. Finalmente poi giunge un brano dell’ultimo ottimo album dell’artista “Ship to Shore” (Nave a riva”, 2024) ed è una delle più belle canzoni che abbiamo potuto ascoltare lo scorso anno: “Singapore Sadie” (La piccola Sara di Singapore), una canzone ancora sullo sconvolgimento che arreca l’amore quando giunge improvviso come un fulmine a ciel sereno e brucia e acceca con la sua verità (“It comes like a bolt from the blue / Burning and blinding and true”). È una canzone in cui Richard crede molto: fu il primo singolo da “Ship to Shore”; nella versione dell’album, accanto alla seconda voce di Zara possiamo ascoltare lo splendido e illustre fiddle di David Mansfield. Zara e Richard propongono poi anche una canzone ancora inedita, o almeno a me così risulta, e così pare anche dall’introduzione di Thompson che allude al fatto che la devono ancora studiare bene: è “Pipe Dreams” (Sogni irrealizzabili). La canzone funge da introduzione ad un’altra cruda composizione sulle sofferenze d’amore, tratta dall’album “Across a Crowded Room” (Attraversando una stanza affollata) del 1985. Il titolo ci dice già tutto: “She twists the knife again” (Lei gira di nuovo il coltello nella piaga). Su un “ostinato” di chitarra (cioè una serie di accordi ripetuta senza pietà) viene raccontata l’impossibilità di sottrarsi ad un amore che è solo dolore e sottomissione. Segue la tristissima “Withered and Died” (Appassiti e morti) dal primo album con Linda “I want to see the bright lights tonight” (“Questa notte voglio vedere le luci della città”) del 1974. Ad essere appassiti e morti sono i sogni del protagonista del brano, un essere umano le cui speranze sono annichilite dalla violenta crudeltà
del mondo. Il dolore si fa canzone, la linea melodica del cantato strappa il cuore: è triste come sa essere triste la periferia delle città inglesi. Sembra di respirare l’umidità dei muri, dei mattoni con cui sono costruite quelle case violentemente uguali, cupe come prigioni. Richard ci allieta poi con una chicca tratta dal suo album “13 Rivers” (Tredici fiumi) del 2018. L’album conteneva tredici canzoni e ogni canzone era come un fiume in piena, ricca di parole, incontenibile, soprattutto proprio quella che ci esegue “The Rattle Within” (forse potremmo tradurlo come “il tormento interiore”, anche se, nelle curiose traduzioni che Thompson aveva ai suoi piedi nel corso del concerto e leggeva al pubblico - vedi foto - lui sceglie il termine “rantolo interiore”, molto affascinante). La composizione allude a quel tormento, a quel male di vivere, a quell’angoscia che sentiamo sempre dentro di noi, come il suono di un inesorabile sonaglio, che è ancora più difficile da sconfiggere del demonio. La canzone, iterativa e molto ritmica, è un potente FolkRock, eseguito per noi da colui che, come si diceva sessant’anni fa inventò il genere. Il concerto volge verso il suo termine con una delle più profonde canzoni d’amore mai scritte non solo dal nostro artista, ma in generale. Una canzone solenne quasi come “Hallelujah” di Cohen: “If Love Whispers Your Name” (Se l’amore sussurra il tuo nome), tratta dall’album “Dream Attic” del 2010 (“L’attico dei sogni”). Un invito perentorio ad accogliere l’amore quando giunge e sussurra il nostro nome, a essere pronti: per l’amore si può cadere, mendicare e strisciare ("Love is worth every fall / Even to beg / Even to fall"). Ascoltatela, se non la conoscete. Segue “The Old Pack Mule” (Il vecchio mulo da
soma), tratta ancora dall’ultimo album “Ship to shore”, in cui la poetica del blues si coniuga con l’interpretazione di Thompson della musica del compositore italiano Orazio Vecchi (1550-1605), come spiega nell’introduzione proprio a noi italiani. Andate a confrontare l’interpretazione di Thompson di “So ben mi c’ha bon tempo” di Orazio Vecchi con questa sua recente canzone e capirete ciò che ha fatto. La trovate nell’album “1000 Years of Popular Music”. Il concerto si conclude con tre grandi composizioni tratte dagli album con Linda. La prima è “Wall of Death”, dall’ultimo drammatico LP, prodotto quando la coppia stava separandosi: “Shoot Out The Lights” del 1982. Il “muro della morte” è quell’attrazione da fiera in cui un uomo a bordo di una moto o di un qualche veicolo gira dentro un cilindro a suo rischio e pericolo, ma la canzone può avere un significato metaforico e alludere ai rischi dell’amore e del vivere intensamente la vita, tematiche che, abbiamo osservato, hanno caratterizzato il concerto. Lenta e meditativa, si fa avanti “Dimming of the Day” (lo spegnersi del giorno), dall’album “Pour Down Like Silver” del 1975 (mi è sempre piaciuto tradurre questo titolo come “Diluvio d’argento”). L’album, sulla cui copertina Thompson si presentava con un turbante, sanciva la sua conversione al Sufismo ed è una celestiale, mistica meditazione in musica e parole. Tutti l’abbiamo ascoltata in silenzio, appunto, religioso. Il concerto si conclude con il singolo più noto dell’artista, la canzone che dava il titolo al già citato album del 1974 “I want to see the bright lights tonight” ed è un invito a vivere la vita con sfrenata e gioiosa pienezza. Permettetemi una nota personale: tra il 2008 e il 2019 ebbi modo di frequentare con una certa
assiduità Richard Thompson e di conoscerlo un po’. Allora lavoravo a stretto contatto con la songwriter statunitense Mary Gauthier, ero al fianco di Mary in ogni suo concerto nel corso di quel periodo. Nel 2008 aprimmo il concerto di Richard alla Royal Festival Hall a Londra; al Vancouver Folk Festival nel 2015 suonammo addirittura assieme (vedi foto); al Kerrville Folk Festival nel 2019 ancora una volta condividemmo lo stesso palco in sequenza. In tutte queste circostanze mi colpì la dedizione di Richard, l’accuratezza con cui preparava ogni concerto e la timida delicatezza del suo animo. Non dava mai nulla per scontato. Una volta, dato che dividevamo il medesimo camerino, mi complimentai con lui per la sua performance nell’attimo in cui scendeva dal palco e lui mi disse: “No, no! Posso fare molto di meglio!”, e si mise subito a capo chino sulla chitarra a eseguire più volte quell’arpeggio, quel piccolo passaggio tra due note che, a detta sua, poteva fare meglio. Questo è stato il suo insegnamento forse più grande e lo porto nel cuore: l’invito a non voltolarsi mai nel porcile del compiacimento di sé stessi. Anche per questo lo stimo profondamente. 


Michele Gazich

Foto 1-3 Archivio Gazich, 4-9 di Salvatore Esposito dal concerto di Roma del 4 settembre 2025

Video di Salvatore Esposito

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