La penna nera traccia una curva che termina con un movimento ascendente, regalando alla lettera una coda elegante. Poi continua a scrivere, ancora e ancora, in un cerchio sempre più ampio. Le parole, in arabo, sono quattro: Speranza, Giustizia, Gentilezza e Pace, ispirate al tema dell’Edinburgh International Festival di quest’anno: “The Truth We Seek” – La verità che cerchiamo.
La calligrafia è opera di Tazeen Qayyum, accompagnata da due musicisti siriani: Basel Rajoub al sassofono e Feras Charestan al qanun, la cetra tradizionale. Le trame filigranate pizzicate sul qanun rispecchiano le linee intricate della calligrafia, che a seconda dello sguardo può sembrare una corona floreale, un fiore o un labirinto impenetrabile – interpretazioni che oscillano tra ottimismo e pessimismo. Il disegno viene tracciato su carta a terra, ma proiettato su uno schermo dietro il palco. È ipnotico da osservare, anche se l’effetto viene un po’ rovinato dalla sovrapposizione di altre immagini calligrafiche che distraggono l’attenzione.
Questo è uno dei tre spettacoli musicali presentati a Edimburgo dal Aga Khan Music
Programme, che ha portato in scena i suoi musicisti maestri, provenienti in gran parte da quello che definiscono “il Grande Oriente”. Il programma crede che la cultura sia importante quanto sanità, istruzione e infrastrutture – gli altri ambiti in cui è attivo. I concerti si tengono in uno splendido edificio vicino al Castello di Edimburgo, chiamato The Hub. Dall’esterno sembra una chiesa, ma all’interno è arredato come un salotto accogliente, con poltrone, divani e pouf: un ambiente intimo e confortevole, ideale per l’ascolto di performance acustiche.
Tutti i concerti prevedono forme di collaborazione. Uno in particolare vede protagonista Yahya Hussein Abdallah, cantante originario della Tanzania e vincitore degli ultimi Aga Khan Music Awards. Canta poesie sufi in arabo, anche se la sua lingua madre è lo swahili. La sua voce, calda e profonda, è accompagnata dai toni scuri della viola d’amore suonata dal musicista tunisino Jasser Haj Youssef. Ogni poesia – di autori del XIII secolo come Al Busiri e Al Badawi – è introdotta da lunghi passaggi introspettivi della viola, che creano un’atmosfera di raccoglimento e riverenza. La viola mantiene il legame con la terra, mentre la voce di Abdallah si eleva in arcate estatiche. Credenti o no, è
impressionante assistere a un’emozione così intensa suscitata dalla fede.
Un altro aspetto del lavoro dell’AKMP è la creazione di nuova musica, eseguita in questo caso da un ensemble di sei musicisti maestri. Oltre a Rajoub al sassofono soprano e Charestan al qanun, ci sono il suonatore turco di oud Yurdal Tokcan, Wu Man (cinese-americana) al pipa, e i francesi Vincent Segal al violoncello e Vincent Peirani alla fisarmonica. Ogni musicista ha contribuito con almeno un brano, a partire dal vivace “Jul Dance” di Charestan. Wu Man ha eseguito in duo con Peirani un arrangiamento del celebre brano per pipa “Dance of the Yi”, composto da Wang Hurian. Questo ha permesso al pipa – un liuto suonato in verticale sulle ginocchia – di emergere chiaramente, dato che nei pezzi d’ensemble tendeva a essere sommerso. Il brano più memorabile è stato senza dubbio “Mutluluk” (Felicità) di Tokcan: cascate di melodie vorticose, interrotte da accordi incisivi, con un irresistibile slancio in avanti. Diversi brani sono tratti dall’album “Nowruz”, un paio d’anni fa dall’ensemble Aga Khan Master Musicians. Il concerto è stato un tripudio di timbri e textures, con una maestria esecutiva straordinaria. Il pubblico ha risposto con
una standing ovation più che meritata. L’ensemble si esibirà a Londra il 21 novembre.
The Hub ha ospitato anche un altro duo internazionale: l’arpista gallese Catrin Finch e la violinista irlandese Aoife Ní Bhriain. Finch è nota per la sua lunga e fortunata collaborazione con il suonatore di kora Seckou Keita. Questo nuovo progetto – l’album “Double You”, uscito nel 2023 – beneficia del contrasto tra le tessiture dell’arpa pizzicata e del violino (per lo più) ad arco. Ní Bhriain suona sia il violino classico che il violino Hardanger norvegese, con le sue corde di risonanza che aggiungono profondità. Finch può potenziare i bassi, creando un suono quasi orchestrale. Entrambe con formazione classica, ma con grande esperienza nel folk e in altri stili, rendono omaggio sia a Bach che alle api – secondo la leggenda, portate in Irlanda nel VI secolo dal santo gallese Modomnoc. Accanto a momenti di grande impatto drammatico, ci sono passaggi in cui la musica sembra sospesa nell’aria: armonici spettrali sul violino e arpeggi fluenti sull’arpa.
Accanto al Festival Internazionale, si svolge anche l’Edinburgh Fringe, con oltre 3000 spettacoli (prevalentemente di teatro e comicità). Tra gli eventi musicali, mi ha colpito particolarmente lo spettacolo della cantante Agadez e del chitarrista Antonio Forcione. Agadez prende il nome dalla Croce di Agadez,
un simbolo tuareg usato come bussola cosmica e talismano di protezione dalle donne del deserto. Forcione, italiano di origine, vive da anni nel Regno Unito. Lo spettacolo si intitola “Queendoms Unplugged”. Anche se il titolo potrebbe trarre in inganno, non è uno spettacolo queer: è una celebrazione delle divinità femminili in diverse culture dell’Europa e del Mediterraneo. L’album unplugged è in uscita a breve. Da Tanit, dea fenicia della fertilità, e varie dee egizie, passando per Afrodite, dea dell’amore, fino alle divinità celtiche Dana (irlandese) e Beira (scozzese), vengono evocate dieci dee. Il gruppo è composto da sei elementi: Agadez (Giada Colagrande) alla voce e tamburi a cornice, altre due musiciste sempre ai tamburi e violoncello elettrico, Forcione alla chitarra acustica – dal suono vivido e articolato – più basso e percussioni. L’ensemble è vivace, in parte coreografato: Agadez solleva il tamburo sopra la testa nel brano dedicato a Iside, richiamando iconografie dell’antico Egitto. C’è una splendida introduzione con armonici simili a gocce di pioggia sulla chitarra per Tefnut, madre di Nut e dea egizia delle acque in tutte le sue forme. L’unica cosa che ho sentito mancare è una figura più cupa e distruttiva – come la dea indiana Durga – che avrebbe potuto aggiungere un tocco di drammaticità più oscura. L’ultima dea evocata è Ecate, una sciamana con tamburo sciamanico. Agadez la descrive come “ricevente e trasmutatrice”. Lo spettacolo è una potente rappresentazione della capacità delle donne di incarnare molti ruoli, fungendo da ponte tra mondi diversi. Un altro modo per avvicinarsi alla verità che cerchiamo.
Simon Broughton*
Foto di Jess Shurte (1) e Ryan Buchanan (2, 3)
*Simon Broughton è un autorevole giornalista musicale e documentarista britannico. È stato il fondatore della celebre rivista Songlines e autore di numerosi articoli e documentari per BBC e altre testate internazionali, con focus su tradizioni musicali e suoni globali e i loro contesti culturali.
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