AGADEZ – Queendoms (Autoprodotto, 2024)

Artista poliedrica in grado di muoversi attraverso ambiti artistici ed espressivi differenti, Giada Colagrande è nota soprattutto per la sua attività di regista e attrice, avendo spaziato dalla videoarte ai documentari per approdare al cinema dirigendo alcuni cortometraggi e quattro film, tra cui il più recente “Padre” con Franco Battiato, Willem Dafoe e Marina Abramović. Parallelamente, si è dedicata anche alla sua passione per la musica dando vita, nel 2018, al progetto The Magic Door, realizzato in trio con Vincenzo Zitello e Arthuan Rebis e che fruttò l’album omonimo incentrato sui significati alchemici e misterici legati alla Porta Magica di Roma, situata sul colle Esquilino, l’attuale Piazza Vittorio. A distanza di cinque anni, giunge al debutto come solista con il moniker AGADEZ, ispirato ad un amuleto dei Tuareg, consegnandoci “Queendoms”, un concept album nel quale ha raccolto dieci brani inediti che compongono un viaggio spazio-tempo alla ri-scoperta dei culti femminini arcaici, seguiti a quello della Dea Madre. Abbiamo raggiunto Giada nel suo studio, per farci raccontare questo nuovo lavoro.

La videointervista


Come nasce AGADEZ, il tuo progetto come solista?
AGADEZ è il nome di una stella tuareg, un amuleto che le donne della tribù nomade del Sahara indossano per non perdersi nel deserto e per ritrovare sempre la strada di casa, ovvero del centro del proprio cuore. A livello di simbologia è chiaramente molto importante e viene da una cultura che mi ha sempre affascinato, sin da bambina. Mi innamorai dei tuareg prima di scoprire che sono una società matriarcale, forse l’unica comunità islamica in cui non sono le donne ad avere l’obbligo di indossare il velo, ma gli uomini. Le donne sono libere di tenere il volto scoperto e questo è significativo. Da qui è nata una fascinazione anche rispetto al nome di Agadez e al potere magico della parola in sé e, così, l’ho scelto per il mio percorso da solista, dopo l’esperienza con The Magic Door con Vincenzo Zitello e Arthuan Rebis.

Come si è evoluta, in questi anni, la tua scrittura a livello musicale e in parallelo anche la tua ricerca in ambito esoterico? 
La mia scrittura musicale si è evoluta in maniera particolare, perché ad un certo punto ho avvertito la necessità di imparare il linguaggio musicale molto meglio di quanto non lo conoscessi. I miei studi di musica, a livello di lettura e scrittura, risalgono a quando avevo undici anni e per decenni non ho più letto e né scritto musica. Le mie prime canzoni le ho composte per voce e chitarra. Ad un certo punto, invece, mi è venuto questo desiderio di approfondire questo aspetto. Ad ispirarmi è stato Franco Battiato che, come sai, per me è stato una persona molto cara, ma soprattutto è stato il mio primo maestro in tante cose, ed in particolare, nel modo di concepire l’essere artista e nel creare qualcosa di artistico, di musicale o di cinematografico. Ricordo sempre di quando raccontava del suo rapporto con Stockhausen il quale, un giorno, gli disse: “tu vuoi fare il compositore, fai il compositore, ma devi assolutamente conoscere il linguaggio musicale, devi poter leggere e scrivere la musica”. Così Franco si mise a studiare e imparò a farlo e questo cambiò la sua vita artistica perché è come imparare una nuova lingua e puoi esprimerti utilizzando molti più strumenti e quindi finisci per creare altro perché hai ampliato il range delle tue possibilità espressive. Così ho cominciato a studiare composizione per tre anni con quello che tuttora è il mio maestro di canto. 

Com’è nata questa nuova avventura come solista?
Mentre lavoravamo al progetto The Magic Door, Vincenzo Zitello e Arthuan Rebis mi hanno stimolata e spinta molto ad intraprendere un percorso come solista, anche perché entrambi hanno le rispettive carriere. Il mio mestiere, da tanti anni, è quello della regista cinematografica e la musica l’ho coltivata sempre come passione. Negli ultimi anni, però, mi era venuto il desiderio di mettere in musica alcune idee. Facendo ascoltare questi miei esperimenti a Vincenzo Zitello, mi disse che secondo lui cominciava ad esserci materiale utile per un disco. Arthuan Rebis, dal canto suo, mi ha insegnato tante cose come, per esempio, usare i software per il computer con cui si monta la musica, si mettono insieme i pezzi. Così, come dicevo prima, ho deciso di rimettermi di studiare la musica e quindi di imparare a scriverla. Da lì ha preso vita “Queendoms”, album nel quale mi hanno accompagnato Vincenzo Zitello, Arthuan Rebis ma anche Giovanna Barbati che è una violoncellista classica e Glen Velez che, naturalmente, suona le sue meravigliose percussioni.

Com’è nato “Queendoms”?
Da molti anni, i miei studi si sono indirizzati verso l’approfondimento del sacro femminile, sullo sciamanesimo femminile e sugli stati di trance. Era inevitabile, quindi, sviluppare le composizioni partendo dal tamburo e indirizzando il sound del disco verso la world music. “Queendoms” è, dunque, il primo frutto di questo percorso e il titolo nasce da una parola inventata e che viene da kingdoms quindi i reami del re, ma in questo caso i reami sono quelli della regina, della Dea. È un concept album concepito come un viaggio attraverso i culti femminili arcaici ed è composto da dieci canzoni che nel titolo richiamano il nome di una dea e ad esse si ispirano. Sono divinità risalenti tutte, più o meno, tra il 4000 e il 3000 a.C. che è quel momento storico in cui vennero, per la prima volta, dati i nomi alle dee, o quantomeno a quelle che ci sono arrivate. Ho fatto una lunga ricerca per rintracciare le loro origini più antiche e gli studi, ad un certo punto, si fermano perché le origini si perdono nel mistero. E' il caso, ad esempio, di Afrodite, Ecate e Iside. In altri casi, come in quello di Dana, la dea ci è arrivata come Madre dei Celti, ma è stata poi frammentata e si è manifestata in diverse divinità del Pantheon celtico, tra cui Brigid. In realtà, chi fosse veramente Dana resta ancora un mistero. È stato un percorso di ricerca e di studio molto interessante perché non solo mi ha portato indietro nel tempo rispetto proprio a fatti storici,
ma mi ha permesso di viaggiare in questi mondi tra la storia e la mitologia, nella dimensione del divino femminino, del sacro femminile. Musicalmente ho cercato una forma che rendesse anche il mistero di questo viaggio. 

Come si è indirizzato il tuo lavoro di ricerca?
Questo è molto interessante, non solo per il lavoro che ho fatto io chiaramente perché, se ci pensi, le dee sono anche degli archetipi del femminile. Qualunque sia la divinità, di qualunque pantheon, di qualunque mitologia. Andando a ritroso per ritrovare le origini più antiche di ognuna di queste dee, si scopre che ognuna era una dea madre, quindi una dea creatrice di tutto e, può equivalere più o meno, al Dio di una religione monoteistica di oggi. Dio ha creato tutti i viventi e tutte le cose, tutti gli esseri, e la stessa cosa vale per una dea madre. Dal momento in cui vengono dati dei nomi a queste dee, gli si attribuiscono identità e personalità. Per cui è chiaro che Iside avrà le caratteristiche della civiltà dell’Antico Egitto. La cosa più interessante è che nascono tutte omnicomprensive, come dee di tutto, della vita e della morte e dell'amore, ma anche della guerra... Spesso sono trine, spessissimo androgene, con un aspetto irato e quindi oscuro, ma anche luminoso, sono psicopompe e quindi viaggiano tra le varie dimensioni e accompagnano nelle varie dimensioni. Originariamente erano tutte molto simili ma poi vengono notevolmente ridotte, differenziandosi, ed è interessante vedere come ci sono arrivate oggi. Se Afrodite ci è arrivata come dea dell’amore, dell’arte e della bellezza, Ecate ci è giunta come dea della morte - per qualche oscura ragione è prevalso un aspetto sull’altro. Nel caso di Afrodite ad esempio, la sua “riduzione” avviene nell’Olimpo greco del V secolo a.C..Ma la Dea 3000 anni prima è giunta da Oriente, passando senz'altro per l'Asia minore quindi per l’Anatolia. Io l’ho raccontata, suonata e cantata in una veste sonora medio-orientale.
Le prime raffigurazioni di Cibele la ritraggono identica a come poi è arrivata anche a Roma in Epoca imperiale, risalgono al 6.000 a.C. Ci sono delle caratteristiche che sono rimaste identiche.

Queste scelte concettuali quali riflessi poi hanno avuto a livello musicale? 
A livello musicale devo dirti la verità io ho iniziato a diciamo comporre a mettere insieme i brani mandandomi in trance da sola col tamburo e poi buttando giù un po' quello che mi arrivava. Nel caso di “Tanit”, ad un certo punto mi arriva “Tanit, Tanayé”, esattamente come nel ritornello che canto. Ovviamente, ero consapevole di scrivere una canzone su Tanit ma Tanayé era una parola che non avevo mai sentito nominare in vita mia. Dopo aver finito, sono andata al computer e ho cercato questa parola su Google e ho scoperto che è tuttora in uso nello Zimbabwe o non ricordo bene in quale altro stato africano. È un nome di donna che significa figlia di madre e ha origini dravidiche quindi, ben prima del sanscrito. Lì c’era una società matriarcale che venerava la dea. Quello fu un segno ed è stata, poi, la prima canzone che ho cominciato ad elaborare in questo modo. Mi sono detta che quello era il modo giusto di procedere…

In "Tanit" c'è la partecipazione di Angelique Kidjo e Loire Cotler…
Angelique Kidjo l'ho conosciuta vent'anni fa tramite Annie Ohayon, una cara amica, una persona mitica nel mondo della musica e che ha lavorato per tantissimi anni con Lou Reed, Laurie Anderson e Angelique Kidjo, oltre che con tanti altri musicisti e artisti straordinari. Angelique e Annie sono come sorelle ed anche per me è una sorella maggiore. Quando ci siamo presentate con Angelique siamo diventate subito amiche. Ho fatto ascoltare la bozza di “Tanit” ad Annie e subito mi disse che per il ritornello dove c’è l’invocazione alla dea era perfetta per la voce di Angelique. Io risposi che sarebbe stato un sogno averla ospite nel brano, ma non avrei osato chiederglielo. Annie mi rispose che non ci sarebbero stati problemi
perché se le fosse piaciuta la canzone lo avrebbe fatto volentieri, diversamente no perché è una persona molto diretta. Per fortuna, le è piaciuta molto e ha partecipato con gioia facendomi un regalo straordinario. La stessa cose è valsa per Loire Cotler. Anche lei ha una voce e una presenza straordinaria. Non so se hai avuto modo di vedere i video dei concerti fatti con Hans Zimmer, dove canta la colonna sonora di “Dune”. Sul palco, Loire è una belva e ha cantato in tre canzoni del disco.

Quanto è stato importante il contributo di Massimiliano Cocciolo?
Massimiliano è entrato nel progetto, dopo la fine del disco, e attualmente stiamo collaborando per i live. Lo trovo straordinario e mi piace molto lavorare insieme a lui perché sono diversi anni che mi sento attratta da quel tipo di musica elettronica. In questo è veramente il perfetto compagno d'avventura nel senso che ci stimiamo a vicenda e abbiamo gusti simili. Insieme abbiamo lavorato alle versioni dal vivo dei brani live. Ho chiesto a Massimiliano di lavorare insieme ad una versione più elettronica e meno acustica di “Queendoms”. Non escludo, infatti, l’ipotesi che un giorno, possa uscire in formato fisico, visto che è uscito solo in digitale. In molti mi dicono che devo pubblicare assolutamente un vinile di questo disco. Sogno, quindi, di farlo e non mi dispiacerebbe l’idea di fare un doppio vinile con l’originale e questa versione più elettronica realizzata in collaborazione con Massimiliano. Ci stiamo già cominciando a pensare…

Parlando del live noi abbiamo avuto modo di vedere l'anteprima di questo disco dal vivo e ci è sembrato che funzionasse molto bene proprio per la presenza elettronica. 
Quali sono i punti di contatto con l’esperienza di The Magic Door? In AGADEZ sei più presente come forza creativa…
Ho scritto tutti brani, le melodie, le armonie, le linee melodiche dei vari strumenti, le linee di canto. In alcuni casi mi ha aiutato Vincenzo Zitello, in altri Arthuan Rebis però la differenza sostanziale è che in “Queendoms” le composizioni sono mie. C’è poi a monte la scelta di un concept album tematico sul sacro femminile che, sin dall’inizio sembrava più specifico. The Magic Door era un progetto che aveva a fare con l'alchimia, l'esoterismo soprattutto occidentale e, a livello musicale, si rifaceva di più alla musica celtica, al dark folk. Vincenzo Zitello, ascoltando i brani che stavamo abbozzando con Arthuan Rebis per il nuovo disco di The Magic Door ha percepito qual era la direzione in cui stavo andando io, più “sciamanica", come l'ha definita, e questo perché stavo cominciando a basare tutto sulle percussioni, sui tamburi a cornice che, poi, sono diventati il mio strumento principale, che per decenni era stata la chitarra. Il tamburo a cornice si porta dietro un mondo. Ad esempio, ti dicevo che per comporre i brani di “Queendoms” mi sono mandata in trance e non è solo una metodologia. La musica che può accompagnare la trance è qualcosa di diverso, al di là del genere, perché ha una funzione ben precisa. Questo disco non è solo un percorso di ricerca, di studio o semplicemente musicale, ma è un percorso spirituale perché ci sono delle pratiche che hanno un impronta fortemente sciamanica. Questa scelta poteva essere limitativa per il gruppo perché lì ognuno mette il suo e non è giusto far prevalere gli interessi di una persona sull’altra. Poi ho capito che, oltre al concept più specifico, erano delineate in maniera diversa le scelte espressive musicali. Il punto di partenza sono state le percussioni e non più chitarra e voce. In tutto il disco non c’è una nota di chitarra e, non solo, al di là del genere, ma il fatto di avere una funzione che non è solo quella di evocare dei mondi. 
Se evoco Iside sto evocando l'Antico Egitto e quel tipo di mistero, quel tipo di magia che rappresenta. Se io invoco Iside, sto usando la musica con una funzione molto precisa, che poi è la funzione della magia. Se usi le parole. In questo disco c'è l'invocazione oltre all'evocazione. Quindi è un po' un tipo di musica diversa proprio perché ha una funzione diversa. Da lì poi è derivato tutto il resto…

Parliamo di conoscenze altre, di esoterismo, alchimia, sono territori in cui tu ti muovi abbastanza agilmente. Quali sono le fascinazioni che hanno per te questi ambiti, dal punto di vista ispirativo? 
Nella musica devo dire che ci sono diverse influenze, sono tante e spaziano tantissimo. Però forse per questo disco e per questo percorso i Dead Can Dance sono stati sicuramente di grande ispirazione. C’è Glen Velez, ma anche Lane Redmond che finché è stata in vita è stata considerata la più grande suonatrice di tamburi a cornice e, tra l’altro, era una sacerdotessa. Faceva un percorso non solo musicale, ma molto simile a quello che ho intrapreso. Devo dirti che anche il prendere come nome AGADEZ mi piaceva perché Agadez è anche una città del Niger che poi è un crocevia in cui i tuareg passano, scambiano e commerciano. Se senti la musica di Beirut che viene da Santa Fè in New Mexico non diresti mai che è la musica di un americano perché prima di mettersi a comporre ha fatto, a diciassette anni, un viaggio lunghissimo nell’Europa dell’Est tra i Gitani e la musica klezmer ed è ritornato con un bagaglio molto vario. La cosa che mi colpisce della sua musica non solo sua. Non so se hai presente anche Rome, che poi lui si chiama Jerome; quindi, il suo primo riferimento era non a Roma la città ma, di fatto, si chiama come una città che non è la sua perché, mi sembra, sia belga. Se senti la sua musica hai la stessa sensazione. Quando senti i Dead Can Dance non riesci a capire la loro provenienza ma neanche l’epoca della musica che stai ascoltando. Questa è una cosa che a me piace moltissimo, perché sono musiche che mi colpiscono perché le trovo molto familiari. È come se ci fosse un cuore comune, un senso di appartenenza comune. Con la mia musica, vorrei trasmettere la stessa cosa in una chiave universale che è la cosa che lega tutti gli esoterismi che c'è un cuore comune di qualunque epoca, di qualunque parte e latitudine di questo pianeta. Quel cuore comune è la cosa che poi io rintraccio chiaramente nella Dea, ma si può rintracciare in qualunque forma. Forse è la cosa che mi stimola di più e soprattutto che mi connette
di più come ascoltatrice ed è quella che poi cerco di esprimere come autrice. 

Il disco ha una ulteriore declinazione espressiva nei video che stai pubblicando…
È appena partita una piccola serie che si chiama “Talking about Queendoms”. Sono dieci video di cui per ora abbiamo pubblicato il primo “Aphrodite”, il 14 febbraio. Ci sono io che parlo, proprio qui esattamente davanti a questa nicchia, dove ho tolto questa statua e ci ho proiettato l'immagine della dea di cui parlo: in questo caso di Afrodite. C'è la testa di Afrodite che incombe sopra la mia mentre io dico alcune cose. Parlo per un minuto, gli altri video verranno pubblicati uno alla settimana sulle diverse canzoni. Ho deciso di farlo perché dei tanti aspetti di ognuna di queste dee, ne ho scelti alcuni da raccontare o che per me erano quelli più importanti da cercare di trasmettere nelle canzoni. Ho pensato di condividere queste poche informazioni perché trovo sempre piacevole come spettatrice, come ascoltatrice in qualunque forma di arte, quando l'artista condivide qualcosa che ti dà un'ulteriore chiave di accesso, oppure ti regala la possibilità di uno sguardo diverso, o anche soltanto ti fa calare per un minuto in un'emozione. Un qualcosa che ha provato lui o lei nel fare quell'opera lì. 


AGADEZ – Queendoms (Autoprodotto, 2024)
Opera prima come solista della regista e cantautrice Giada Colagrande con il moniker AGADEZ, “Queendoms” è un concept album nel quale ha raccolto dieci brani originali, cantati in inglese e in italiano, che, seguendo il filo rosso dei culti arcaici legati alle divinità femminili e seguiti a quello primordiale della Dea Madre, compongono un itinerario sonoro che si dipana tra spazio e tempo, Oriente ed Occidente, umano e divino, Cielo e Terra, alto e basso portandoci alla ri-scoperta di archetipi che affondano le radici nella notte dei tempi, ma in cui si riflette ancora oggi la nostra esistenza. Come ci ha raccontato nell’intervista, l’album è frutto di un lungo ed articolato percorso di ricerca sia concettuale che musicale e ha preso vita come evoluzione della precedente esperienza con il progetto The Magic Door con Vincenzo Zitello (arpa celtica, santur) e Arthuan Rebis (nickelharpa, elettronica) che ritroviamo al suo fianco anche in questa nuova avventura insieme a Glen Velez (percussioni e tamburi a cornice), Giovanna Barbati (violoncello) e Loire Cotler (voce). Durante l’ascolto, brano dopo brano, scopriamo i caratteri, i poteri e le manifestazioni delle diverse divinità femminili, legate a culture e aree geografiche spesso molto distanti, dal deserto del Sahara alla Valle dell’Indio, passando per l’Egitto e la Grecia. Ognuna di esse è invocata nelle onde di forma della parola cantata ed evocata in musica tra ritmi ipnotici, sonorità ora malinconiche, ora evocative, ora ancora più sofferte e introspettive. In questo senso, l’album presenta arrangiamenti diversi e più marcatamente world, rispetto al disco omonimo di The Magic Door, con atmosfere notturne, misteriose nelle quali le sonorità del Mediterraneo e del Nord Africa si intersecano con l’elettronica. Il climax percussivo dei tamburi a cornice che si stagliano attraverso le increspature dell’elettronica della desertica “Tanit” con la voce di AGADEZ che duetta con Angélique Kidjo e Loire Cotler ci introduce al viaggio sulle ali di una melodia sinuosa intessuta dal violoncello e dalla nickelharpa. Si prosegue con la ieratica “Iside” con l’arpa di Vincenzo Zitello e le percussioni ad avvolgere il canto evocativo e intenso di AGADEZ, ma è con l’elegante “Aphrodite” che si tocca uno dei vertici del disco con il violoncello di Giovanna Barbati che fende la struttura ritmica, conducendo attraverso ambientazioni sonore in chiaroscuro. Se “Inanna” si snoda solenne nella sua epicità ad evocare l’omonima dea mesopotamica, la successiva “Dana” ispirata alla dea madre dei Celti che si manifestava in forma di acqua, di nebbia o di nube, vede protagonisti l’arpa di Zitello e il violoncello della Barbati ad avvolgere le voci di AGADEZ e Loire Cotler. L’oscura melodia “Vacuna” ci porta in Italia svelandoci il mistero della divinità del silenzio, custode dell’essenza dell’assenza, delle cavità oscure e delle acque profonde, mentre “Cibele” è avvolta in una atmosfera ancora più dark con il crescendo guidato dalle percussioni, dal violoncello e dai fiati. Verso il finale, si staglia, poi, la figura misterica di “Ecate” la dea della morte, la dea Triplice della mitologia greco-romana, con l’elettronica a sostenere l’incastro melodico tra violoncello e theremin. Si torna ancora in Mesopotamia con “Lilith” che rimanda al lato oscuro di ognuno di noi e che conduce alla luce, prima di approdare in India con la splendida “Tara”, altro brano emblematico del disco, nella quale spicca l’eccellente prova vocale di AGADEZ. Insomma, “Queendoms” è un lavoro di grande fascino, sia sotto il profilo concettuale, sia sotto quello prettamente musicale.


Salvatore Esposito

Foto di Shirin Amini

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