È una luminosa conversazione tra corde: l’Ensemble Chakâm traccia un crocevia di percorsi e sentimenti, combinando il târ dell’iraniana Sogol Mirzaei, il qanûn e la voce della palestinese Christine Zayed e la viola da gamba della francese Marie-Suzanne de Loye, già insieme nel quintetto Atine. Il trio di residenza transalpina, nato nel 2019, ha conquistato il “Prix Des Musiques d’Ici” nel 2023. Dopo un bell’assaggio live a Babel Music XP 2024, sono state il mio coup de cœur nel loro showcase al WOMEX 2024 di Manchester.
Conosciamo meglio le tre musiciste. Sogol Mirzaei ha studiato târ e sétâr fin da piccola; dopo aver frequentato il Conservatorio a Teheran, si è trasferita in Francia per proseguire gli studi di musicologia all’università, sviluppando al contempo la sua carriera concertistica, collaborando tra gli altri con Jordi Savall e con il gruppo Sowal Diabi. Christine Zayed proviene da una famiglia di melomani; cresciuta tra Gerusalemme e Ramallah, è compositrice, virtuosa della cetra pizzicata qanûn e cantante (la sua è una voce-strumento). Nel suo repertorio si fondono la pratica dell’improvvisazione modale araba e la poesia araba, in particolare quella palestinese contemporanea. Ancora, ha composto la colonna sonora del film “Un jeudi pour Darwin” di Mathieu Baillargeon, mentre da solista ha inciso “Kama Kuntu” (2024). A completare questo fascinoso trio è Marie-Suzanne de Loye la quale, diplomata in musicologia, ha iniziato con la musica barocca per poi aprirsi alla musica sperimentale, la canzone francese, le musiche del Vicino Oriente, la musica contemporanea, componendo anche musica per la danza: “Ognuno di questi universi rivela una parte di
me e mi offre uno spazio dove reinventarmi”, dice la gambista in un’intervista. Concertista di musica da camera e orchestrale, è didatta alla Kreiz Breizh Academy in Bretagna.
Il nome che si sono date, “Chakâm”, proviene dal persiano classico con un significato poetico e profondo: è un’antica forma poetica, una strofa lirica, espressione di intensa emotività che richiama il lirismo, la profondità espressiva che nasce dall’intreccio di culture e tradizioni. Parliamo di tre artiste influenzate non soltanto dalla propria formazione ma anche dai rispettivi ascolti. In un’intervista al periodico online “Rhythm Passport”, spiegano: “Ciascuna di noi distilla le proprie influenze (attraverso un accento fuori tempo, una formula ritmica, un accordo inaspettato, uno stile d’esecuzione, un fraseggio…), ed è dall’intreccio di tutto questo che nasce la nostra musica”.
“Les Vents Brûlants” (I Venti Ardenti) è il titolo del loro esordio, in cui suonano composizioni di Zayed, ispirate al maqām e ai mawazeen (modi e cicli ritmici della musica araba) e di Mirzaei, che hanno come riferimento i codici del radif (il corpus sistematizzato del repertorio colto iraniano); le tre strumentiste hanno arrangiato in trio gli otto brani che compongono questo atto artistico sviluppato intorno a una profonda relazione e intesa. “Didâr” (Incontro in persiano) segna l’ingresso trionfale con il suo formidabile incastro di timbri.
La poetica “Niyalak” (Uccello di casa) è una canzone tradizionale
palestinese cantata da Christine, che evoca lo spaesamento e la nostalgia della propria terra. Il pizzicato della viola da gamba accompagna la voce, entra poi il liuto persiano assecondando il canto. Segue “Femme qui rougit comme l’univers” (Donna che arrossisce come l’universo), una composizione di Sogol che affonda nell’universo della musica d’arte iraniana ma a cui le altre due strumentiste apportano il loro contributo solista e d’insieme. Il brano esprime l’idea che essere una musicista è un cimento quotidiano. In altre parole, significa “trarre la forza da ciò che siamo, da ciò che condividiamo e da ciò che generiamo”, commentano. Questo è ciò che l’universo incarna: energia e vigore, ma anche ostacoli e mistero. Qui l’emozione manifestata dall’arrossire della donna esprime forza e vitalità piuttosto che l’imbarazzo o la fretta o la seduzione. “Riverside” è una composizione di Zayed, la cui voce-strumento intreccia le corde in una tensione di elementi colti e popolari in bell’equilibrio generativo, mentre “Tant qu’il y aura des vagues” (Finché si saranno le onde) è un brano di Mirazaei dai superlativi incastri di timbri e scambi di ruoli tra gli strumenti. “Najma” (La Stella), in cui Zayed ha musicato una poesia del siriano Yasser Khanger (“Il mio cuore deve venire a patti con la perdita. L’universo non dovrebbe offuscarsi ogni volta che una stella si
sposta dal suo posto. Il mio cuore avrebbe dovuto cullare la luce della stella, accordarsi con la sua essenza fiammeggiante. Avrei dovuto custodire quella brillantezza. Ora l’oscurità colpisce il mio cuore, ora che la stella non c’è più") si impone per il suo bel profilo melodico e per i cambiamenti delle misure ritmiche. Altra fonte letteraria è il romanzo “L’assenza di Soloutch” dello scrittore iraniano contemporaneo Mahmoud Dowlatabadi, a cui si ispira “Chameau ivre” (Cammello frenetico). “Olive”, composizione di Zayed, simboleggia la casa, gli incontri di famiglia; è la danza dabkeh, è l’albero con le sue radici profonde. L’olivo è la terra e la vita.
Superbe le combinazioni ritmiche e melodiche dei timbri degli strumenti e della voce in questa traccia che chiude “Les Vents Brûlants”.
Nulla è fusione a effetto: è l’incontro di percorsi interiori che si riconoscono in una grammatica comune. Se è vero che da un lato, all’origine, le tre artiste attingono a musiche codificate che pure lasciano spazio all’improvvisazione, d’altra parte elaborano un dialogo vivido, fondato sull’ascolto, sullo spazio dato l’una all’altra, su procedure che infondono emozioni, confluenze, ma esplorano proficuamente anche le divergenze sonore – da tutto ciò si sostanzia un’avvincente espressività condivisa.
Ciro De Rosa
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