Brigan – Luna, Cera e Vino (Liburia Records, 2025)

#BF-CHOICE 

“Luna, cera e vino” è il nuovo album del trio campano-catalano Brigan, che segue il precedente già ottimo “Liburia Trip”. L’ibridazione sonora dei Brigan si sostanzia nella fusione di strumenti acustici, elettronica, voci e field recordings. Narrare un territorio, creando un modo proprio di vedere il territorio, dichiarano. Fanno riaffiorare dal profondo memorie della cultura materiale, modi contadini, rituali, devozioni popolari, storie eterodosse, come pure commentano ferite aperte che straziano la Terra di Lavoro contemporanea.  Il concept, le musiche e la produzione artistica sono di Francesco Di Cristofaro (voce, bansuri, dvojanka, bouzouki, baglama, punteiro, marranzano, flauto armonico e whistle), che è autore anche della maggioranza dei testi, e di Andrea Laudante (elettronica, chitarra elettrica, synth, cori e field recordings), mentre il nuovo entrato in questa line-up mediterranea è Ramón Rodriguez Gómez (tammorra, pandero cuadrado, pandero de Peñaparda, tamburello, pandereta, falce, campanacci, campanelli, morching e cori), già con Di Cristofaro nel duo Radizi. Poi ci sono gli ospiti: il clarinetto del greco Nikos Angousis e la ghironda dello spagnolo Efrén López Sanz.  Di questo nuovo lavoro di respiro post-folk parliamo con il polistrumentista e autore Francesco Di Cristofaro, che è anche il fondatore di Liburia Records, etichetta
con sede a Sant’Arpino, basso casertano, “Terra Felix” di romana memoria. 

“Luna, Cera e Vino”: tre elementi simbolici di molte culture di tradizione orale: cosa racchiude il titolo?
È forse il nostro lavoro più intimo e intenso, nel quale abbiamo attraversato i temi della notte, delle relazioni e quindi della comunità, del rituale e della morte. È un lavoro che ha a che fare con la notte dell’anima, quel momento in cui si scende in profondità verso l’inconscio personale e collettivo e si esplora il labile confine tra lo stato di sonno e di veglia, la realtà del mondo onirico e di quello materiale. “Luna, cera e vino” ci sembravano i tre elementi principali per questo racconto, con la loro potenza e la loro poesia.

Anche la copertina con il dipinto “Notte sulle colline matesine” ci parla...
Il dipinto in questione ci ha colpiti molto dal primo sguardo. La sedia è per noi un invito al racconto, ma al tempo stesso all’ascolto, al sapersi ascoltare e donarsi il tempo per farlo. In questo periodo storico, in cui tutto viene divorato e consumato senza sosta, pensiamo sia necessario e urgente la pratica dell’ascolto.

Da “Liburia Trip” a questo nuovo lavoro, che cosa è accaduto?
Musicalmente, abbiamo continuato sulla scia di “Liburia Trip”. Per quanto riguarda l’aspetto narrativo, mentre nel disco precedente abbiamo cercato di dare uno sguardo sulle diverse questioni, simboli e personaggi della nostra Terra di Lavoro. In questo nuovo album abbiamo lasciato maggiore spazio alla nostra voce personale, principalmente mia e di Andrea. In alcuni casi attingendo da racconti e storie del territorio, in altri da esperienze personali di vita quotidiana.

Come si costruisce il suono Brigan? L’elettronica è fulcro della costruzione o entra in una fase successiva?
Il suono si costruisce parallelamente alla parte acustica e testuale. Tutto dipende dal brano, ma solitamente partiamo da melodia e testo e cerchiamo di costruire un contesto sonoro che sia rafforzativo delle parole. L’uso dell’elettronica, ed anche dell’elaborazione di suoni acustici, ci permette di non avere confini o barriere, ma di cercare quello che abbiamo in testa. È un lavoro di produzione collettivo, molto stimolante e divertente.

Il clarinetto di Nikos Angousis entra subito in “Si mme perdo”: uno sguardo sonico rivolto alla Grecia.
Tra i nostri grandi riferimenti culturali e musicali, la Grecia ha una grande influenza. Nel primo brano, “Si mme perdo”, abbiamo cercato di re-immaginare il “miroloi”, una sorta di lamentazione funebre rituale in uso in diverse regioni della Grecia. Non a caso, abbiamo scelto di affidare alla rievocazione di quel suono così antico:Nikos Angousis, uno dei maggiori clarinettisti dell’attuale scena musicale greca. Il rito funebre era soprattutto l’incontro e il ritrovo della comunità. La morte era, ed è, un modo per ricordare la vita. La linea del disco si rifà a questo concetto: cercare la propria identità, cercarla soprattutto con gli altri, con le persone che ci circondano.

“Ramo Verde” è uno dei brani significativi nel vostro suono ibrido che fa confluire stilemi di tradizioni diverse, ma anche far incontrare elettronica e timbri acustici...
È un brano a cui siamo molto legati e che proponiamo dal vivo da diversi anni. Abbiamo deciso di inserirlo nel nuovo disco come omaggio al nostro passato di legami con la tradizione iberica. “Ramo verde” è stato anche uno dei primi esperimenti di suono ibrido, tra suoni acustici, elettronica e l’uso dell’autotune come elemento prettamente estetico.

Il testo di “Agata” attinge al giudizio di Agata Basile, palermitana processata per stregoneria nella Capua del XVII secolo. Come nasce?
Agata arrivò da Palermo a Capua, dove fu perseguitata dalla Santa Inquisizione perché accusata di eresia e di aver avuto legami con il demonio. Questo brano vuole sottolineare il forte legame del nostro territorio con la Sicilia (che è anche il tema del lavoro che sto per concludere, legato all’inquisizione a Palermo e alla vicenda di Fra’ Diego La Matina, raccontata in “Morte dell’inquisitore” di Leonardo Sciascia). È un brano di denuncia, l’Inquisizione intesa come censura. Riportare quella storia all’attualità è una sorta di richiamo a tutte le “inquisizioni” che viviamo quotidianamente, a livello politico e sociale.

Con “Frate n’fame” ritornate alla tradizione orale campana...
Un grande classico della nostra tradizione non poteva mancare nel quadro narrativo del disco. In linea con le tematiche affrontate, abbiamo cercato di immaginare questo vero e proprio dramma di tradizione orale, amplificandolo attraverso l’uso estetico dell’autotune: voci di un passato che riemergono dal substrato e che dalla terra dei morti parlano ai vivi.

“Vatt ‘o cannule” riprende ritmiche iberiche e lavora sulla memoria della lavorazione della canapa ed è il brano a cui partecipa il secondo ospite, Efrén López Sanz. Com’è si è sviluppato questo incontro?
La canapa, coltivata fino agli anni ‘70 nel nostro territorio, è una tematica che abbiamo toccato in diverse modalità narrative e sonore ed è a noi molto cara e presente nei nostri lavori già dal 2018 con il disco “Rua San Giacomo”. Il nostro percorso e legame artistico con la Spagna è ormai lungo un decennio: avevamo già collaborato con Efrén López nel 2018 nel brano “A Carolina” ed è per noi un privilegio averlo come ospite alla ghironda e rappresentante della tradizione iberica anche in questo nuovo lavoro.

“Dint ‘a terra ‘nfosa” è uno spoken word di forte tensione civica. 
Il recitativo prende spunto da un piccolo frammento del testo “Per amore del mio popolo”, in cui don Peppe Diana – vittima della criminalità e grande figura di spicco nella lotta alla camorra – ci dice che il Profeta ricorda il passato e se ne serve per guardare al nuovo. Il testo scritto da me è una sorta di sogno confuso, in cui la riflessione su quello che siamo, su come reagiamo ai soprusi e alle vittime si alterna al richiamo, come una sirena, della nostra terra, che nonostante tutto ci tiene stretti e ci invoca ad avere
speranza nel futuro.

“Sale”, il singolo, mette al centro la questione, la ferita della Terra dei Fuochi. Dalla tua esperienza, come vedi questa ingiustizia sociale, questa certezza di vita sottratta quotidianamente alle comunità? Come si dovrebbe agire?
“Sale” è un occhio che osserva quella che è definita Terra dei Fuochi, dove attualmente viviamo: un territorio che è conosciuto per questioni legate alla criminalità, ma anche per i continui focolai e roghi tossici con i conseguenti effetti sulla salute. Oltre al senso civico e alla continua sensibilizzazione sul tema, soprattutto nelle nuove generazioni, è sicuramente fondamentale il contributo e lo sforzo della politica locale e nazionale per cercare, nei limiti del possibile, di trovare una soluzione a questa questione così complessa.

E “Sale” cosa esprime? Protesta? Rassegnazione? Speranza?
È un modo per raccontarci anche sotto quest’altra prospettiva: non è un grido di protesta, è un’osservazione che oscilla tra un’invocazione di speranza e la rassegnazione di quello che viviamo tutti i giorni. Un dramma collettivo e individuale che purtroppo ci vede protagonisti da decenni.

Brigan superale barriere dell’ovvio folk revivalistico del sud Italia. Pur privilegiando la narrazione, non perseguite la canzone come bene rifugio. 
Nelle ultime due produzioni ci siamo allontanati molto dalla forma canzone, intesa come struttura rassicurante e leggibile. Cerchiamo di spingerci in maniera del tutto naturale a forme più aperte, in cui i suoni possano dialogare con il testo senza formule convenzionali e prestabilite. Per noi questa modalità non fa altro che rafforzare il senso della parola, il peso di ogni singola parola.

Ci sono modelli di riferimento musicali che alimentano la vostra ricerca?
Non ci sono riferimenti precisi, ognuno di noi è un vero e proprio ascoltatore selvaggio, ed inevitabilmente tutto quello che assorbiamo finisce nei nostri linguaggi musicali. Sicuramente l’incontro tra me e Andrea Laudante, provenienti da esperienze musicali differenti, ha allargato ulteriormente questa lunga fascia di possibilità sonore. Sicuramente in questo disco, l’influenza ed il legame verso alcuni dischi dei C.S.I. è uscita fuori, sia per quanto riguarda l’aspetto narrativo che per quello prettamente vocale. Senza dubbio anche le ultime produzioni degli irlandesi Lankum hanno influenzato in parte alcune questioni legate alla visione del passato e un nuovo modo di re-immaginare la tradizione.

Ci sono ritmi di danza, ma si avverte una forte tensione; è un lavoro scuro, a tratti onirico: una mia sensazione?
Sensazione giustissima! Abbiamo pensato al disco come unico percorso in cui i brani sono legati tra loro in un unico flusso narrativo e sonoro. Un cerchio in cui abbiamo cercato di lavorare molto sulla sensazione di tensione e risoluzione. Attraversare l’oscurità è un modo per vivere meglio la luce, con maggiore consapevolezza. Attraverso il sogno cerchiamo un modo quasi esorcistico per liberarci dalle oscurità di questa epoca e ritrovarci con noi stessi e con la speranza di un futuro che parta dalla consapevolezza del passato e che guardi al futuro, al nuovo giorno, con grande speranza.

Da dove proviene il testo di “Povero figlio mio”, che si muove tra ritmo di danza una tammurriata e un andamento processionale?
Il testo in questione, raccolto nel casertano nel 1950, proviene dal “Canzoniere italiano” di Pier Paolo Pasolini: è la storia di un suicidio per amore. Un’altra tematica che ritorna nell'intero disco: il conflitto fra amore e morte che si rispecchia anche con quello che proviamo per la nostra terra, per la quale nutriamo un legame profondo.

Il finale è affidato a “Mbriaco ‘e stelle”.
L’ultimo brano è la chiusura del cerchio. Il ritrovarsi seduti su quella sedia vicino al camino raffigurata in copertina. Ci si abbandona, tutto finisce e ci si affida con la preghiera al cielo con l’invocazione finale. “Luna, Cera e Vino” è un lavoro molto intimo, legato al perdersi e al ritrovarsi come individui e come comunità.

“Voci di Mare e di Vento” è il progetto iperboreo realizzato in Norvegia con il musicista Sámi Torger Vassvik: che esperienza è stata. Cosa ci aspetta?
È stata un'esperienza molto densa e complessa, non solo per evidenti questioni climatiche, ma soprattutto per l’enorme differenza culturale tra la nostra e quella artica. È complesso parlarne in poche righe. Sicuramente il prossimo inverno vedrà la luce un EP ed un mini-documentario su tutto il processo creativo e soprattutto umano.

Altri progetti in cantiere da solista? 
Per ora ci concentreremo nel cercare di portare il più possibile live il nuovo disco, soprattutto in Italia. Parallelamente, da solista, continuerò anche quest’anno la collaborazione con Peppe Barra, Flo e Radizi.
Come accennavo prima, è in fase di ultimazione, c'è anche un mio nuovo disco che prende ispirazione dal testo “Morte dell'inquisitore” di Leonardo Sciascia, che ruota intorno alle vicende di Fra’ Diego La Matina nella Palermo del 1600. Ne svelerò tutto dopo l’estate.

L’etichetta che hai fondato, Liburia, cosa ci proporrà nei prossimi mesi?
Di questi mesi è la novità che tutto il catalogo discografico sarà distribuito fisicamente anche in Germania, Austria e Svizzera grazie all’accordo con Galileo Music. In termini di pubblicazioni, nei prossimi mesi sono previste diverse uscite, accomunate dall’idea di proporre tradizioni musicali differenti con nuove prospettive, anche tematiche e narrative. Saranno pubblicati il nuovo disco di Vesevo, con un occhio alla musica dell’area campana; il nuovo lavoro di Samuel Mele con un progetto inedito in lingua grika con la partecipazione di Mattia Manco, Kelly Thoma e Stelios Petrakis, e il disco d’esordio della cantautrice siciliana Luisa Briguglio (Premio Ethnos GenerAzioni, 2024, ndr).

Cosa ci aspetta come live di “Luna, Cera e Vino” rispetto al disco?
Il live è un’estensione del disco, anche con brani del precedente album “Liburia Trip”. Inoltre, è presente l’utilizzo di diverse voci fuori campo, tratte da archivi personali legati al territorio atellano, e, a rafforzare l’aspetto narrativo, la presenza di visual in tempo reale che cercano di amplificare in maniera multidisciplinare proprio il concetto di “Luna, Cera e Vino”.



Brigan – Luna, Cera e Vino (Liburia Records, 2025)
Un lavoro dark, intimo e perturbante, onirico e visionario, che si nutre di tensioni, scavando nel passato per riprendere aspetti della cultura materiale, della ritualità e delle forme devozionali delle comunità, senza perdere di vista la realtà contemporanea di un territorio fortemente antropizzato come la Terra di Lavoro. Tema di fondo è anche il conflitto tra amore e morte, riflesso nel “sentire” la propria terra a cui Di Cristofaro e Laudante sono profondamente legati, pur senza aderire a forme identitarie fisse o revansciste. Con l’innesto del catalano Ramón Rodriguez Gómez, il trio prosegue il proprio percorso incentrato sulla contaminazione di linguaggi, dove l’elettronica non è solo un elemento additivo ma essenza rigeneratrice, che conduce a sorpassare le ovvietà delle estetiche folk revivalistiche del Sud Italia. Ritmi tradizionali, melopee, lingua locale non sono semplicemente riproposti, ma vengono smontati, ricomposti e immersi in densi paesaggi sonori. In più, i Brigan battono altri luoghi e sponde sonore di area mediterranea: la Spagna, da sempre nel cuore della formazione campana e, in questo nuovo lavoro, la Grecia della ritualità più profonda. Il canto privilegia la parola recitata, talvolta declamata, conferendo compattezza a un sound audace e originale, capace di re-immaginare e di alimentare un afflato narrativo unico. Questo spirito è sintetizzato dalla sedia raffigurata sulla copertina dell’album, simbolo di un invito a “venirsi a cercare”, a ritrovarsi e a mettersi all’ascolto. Sette brani inediti e due rivisitazioni di pezzi della tradizione popolare compongono “Luna, Cera e Vino”, disco ideato, lavorato e registrato “quasi sempre in sessioni notturne”, rimarca Di Cristofaro, sotto lo sguardo della luna, l’illuminazione di una candela (la cera) e il vino che scalda il cuore. Tre elementi centrali in molte culture di tradizione orale. Dopo un incedere percussivo, il fraseggio sinuoso di evocazione epirota del clarinetto di Nikos Angousis, etnomusicologo e strumentista, già con Loxandra Ensemble e Rodopi Ensemble, detta il cammino di “Si mme perdo”, composizione che rimanda all’accompagnamento strumentale dei “miroloi”, lamentazioni rituali funebri elleniche. In “Ramo Verde” (originariamente “Dime Ramo Verde”, proveniente dal repertorio del musicista, cantore, ricercatore e folklorista Joaquín Diaz) si distingue la confluenza tra dosi di elettronica e timbri acustici, con il soffio del flauto in chiave prog-folk che si libra conferendo libertà al brano. Di fatto, questo pezzo ci riporta in terra di Castiglia, uno dei luoghi dell’anima dei Brigan fin dai tempi di “Rua San Giacomo”. La vicenda di Agata Basile, originaria di Palermo e processata per stregoneria dal Tribunale del Santo Uffizio di Capua intorno al 1685, si fa denuncia contro le censure contemporanee. Un loop percussivo scandisce la narrazione, che poi acquista propulsione tra tamburi, cori e marranzano fino al gran crescendo finale, in cui si intrecciano tamburi a cornice, tastiere e fiati. La leggenda campana di “Frate ‘nfame”, conosciuta anche come “‘O cunto dell’Auciello Grifone”, nella versione raccolta nel casertano, accoglie nella sua fisionomia sonora le intuizioni del folk scuro dei dublinesi Lankum. “Vatte o’ cànnule” è l’unico strumentale del disco, dove suona la ghironda Efrėn López, uno dei maestri della scuola internazionale mediterranea di musica modale Labyrinth. Scritto da Di Cristofaro, il brano è ispirato a ritmiche iberiche come charro e jota, mentre il titolo si riferisce alla coltivazione e alla lavorazione (battitura e sfilettatura) della canapa praticata fino agli anni Settanta del secolo scorso nell’agro atellano, dove il verde e appunto i campi di canapa hanno ceduto spazio e terreno al cemento. Segue “Dint ‘a terra ‘nfosa”, che intreccia uno scritto di don Peppe Diana con liriche di Di Cristofaro, affrontando la quotidianità della propria terra oltraggiata. Questo tema si configura come un prodromo a “Sale”, il brano più “melodico”, una sorta di ballad in cui non si scioglie la tensione; un lucido osservatorio, oscillante tra rassegnazione e speranza, sulla drammatica realtà della cosiddetta Terra dei Fuochi, segnata dai roghi tossici. Avvolgente e coinvolgente nella sua architettura, si muove tra ritmo di tammurriata e un andamento rituale processionale “Povero figlio mio”, la storia di un suicidio per amore, il cui testo è stato raccolto nel casertano ed inserito da Pasolini nella sua raccolta “Canzoniere Italiano”. Il finale lo scrive “Mbriaco e stelle”, sottile melodia flautata agganciata a droni, loop, distorsioni, glitch, ritmi scanditi da attrezzi di lavoro e field recordings, rappresentando, come sottolinea Di Cristofaro nell’intervista, la ciclicità, la chiusura del cerchio narrativo: il ritrovarsi assisi sulla quella sedia vicina al camino, simbolo di memoria condivisa e di senso di comunità, ma anche di ospitalità, affidandosi a una preghiera e a un’invocazione. “Luna, Cera e Vino” è opera che richiede attenzione. Sempre inattese, le trame sonore e i moduli espressivi dei Brigan, che perseguono una profonda decostruzione del folk, offrendo idee e texture elettro-acustiche tutt’altro che ordinarie.


Ciro De Rosa

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