C’è un angelo che attraversa una (o forse più di una) delle canzoni di “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”: che rimanda ai film di Wim Wenders. Mentre a metà marzo recensiamo il suo nuovo album, un altro Angelo e altre immagini cinematografiche chiamano Michele Gazich, intento a cercare, nel Primo Cimitero di Atene, la tomba del regista e poeta Theo Angelopoulos. La ricerca dura tutta la mattinata e ha l’esito sperato solo grazie all’incontro fortuito con un nuovo amico, Konstantinos, provvidenziale guida al luogo in cui è sepolto l’autore de “L'eternità e un giorno”, il film del 1998 dedicato ad una vita giunta ad un momento di transizione, al punto di svolta propiziato da un incontro, al viaggio che ricomincia. Sorge spontanea la sensazione che Theo sia uno degli angeli custodi di Michele: da oltre quindici anni scriveva, de-costruiva e limava i brani di questo album progettato come lavoro postumo. Poi ha cambiato idea, forse grazie agli incontri, a un nuovo spostamento, a nuove occasioni per ri-comporre la propria personale ecologia acustica. Un lavoro maiuscolo, scritto (nel libretto che accompagna l’album) tutto in minuscolo, già presentato durante la puntata radiofonica del 3 marzo de “La nota del giorno”, con John Vignola e la regia di Roberta Di Casimirro, dopo la presentazione dell’album dal vico a Roma il primo marzo nella Sala Curci. C’è molto da sapere su questi brani; cominciamo dalla conversazione che Salvatore Esposito ha proposto a Michele Gazich: una bussola per navigare fra questi brani dedicati alle piccole e grandi occasioni di trascendenza. (Alessio Surian)
Partiamo da lontano: ci puoi raccontare come ha preso vita il tuo nuovo album “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”?
Per anni – più o meno a partire dal 2008 – ci ho lavorato in segreto. Nel frattempo, comunque, non stavo con le mani in mano e facevo un sacco di altre cose: tanti album miei, produzioni e collaborazioni. Fino alla pandemia, come tu ben sai, caro Salvatore, vivevo soprattutto negli USA e lavoravo intensamente, in particolare con Mary Gauthier. Eravamo sempre in tour, ma la sera, nella mia camera d'albergo, tornavo sempre a “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”. Quasi ogni notte. Lo facevo per riappropriarmi di una musicalità solo mia e anche per recuperare la mia lingua, l'italiano. Per anni, ho parlato quasi solo in inglese; ero giunto addirittura a fare anche i miei sogni in inglese! “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea” è nato anche come antidoto per contrastare un'eccessiva americanizzazione della mia persona. L'antidoto ha funzionato.
Nella presentazione del disco è precisato che il titolo è scritto con le minuscole per “in un (probabilmente vano) tentativo di porre in equilibrio un mondo in cui troppi tendono a darsi la maiuscola”. Ci puoi spiegare meglio questa scelta stilistica? In che modo è legata alle canzoni del disco?
Il disco è minimalista in ogni senso: ad esempio è il mio primo album senza sezione ritmica da "La via del sale" (2016). Volevo veicolare contenuti per me importanti, ma senza arrangiamenti maiuscoli, arrembanti. Ho assottigliato le linee musicali: il lavoro è stato molto di fino e senza fretta, anche perché pensavo a
questo album come al mio album postumo! Lo tenevo da parte. Contiene canzoni che non so se siano le mie più belle (non ha senso fare queste classifiche; soprattutto non ha senso che le faccia l'autore stesso), ma certamente sono quelle che ho avuto e ho più care, quelle che meglio rappresentano la mia interpretazione molto particolare della canzone d'autore. Mi piaceva lasciare queste canzoni come una sorta di eredità, come un lascito testamentario; ma contemporaneamente crescevano il desiderio (o la debolezza) di farle conoscere. E ho ceduto. Anche Giovanna ed io ci siamo fatti minuscoli, siamo tornati alla stupita meraviglia che avevamo da bambini di fronte alla musica, come raccontano le nostre foto infantili in copertina e retrocopertina.
Alla pubblicazione del disco sei arrivato con una serie di tappe di avvicinamento con concerti tenuti in luoghi particolari. Anche questa non è stata una scelta casuale...
Ho denominato questi concerti “miracoli in viaggio”. Sono stati un percorso di avvicinamento verso il giorno della pubblicazione dell'album. Giovanna ed io volevamo arrivare preparati ai concerti veri e propri di presentazione di “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”. È stato necessario molto studio. Inoltre, come tu ricordavi, i concerti "miracoli in viaggio" (uno al mese a partire dallo scorso settembre) si sono svolti in luoghi evocativi e carichi di senso: l’incantevole Val D'Orcia; gli studi tecnicamente perfetti della Radio della Svizzera Italiana; un paesino nella bergamasca dove vive e opera culturalmente il mio amico poeta Luca Barachetti; la Sala Estense a Ferrara, dove abbiamo ricordato Pino Calautti, grazie al quale Giovanna ed io ci incontrammo. Pino Calautti, tramite la sua associazione “Aspettando Godot” per anni ha curato rassegne dedicate alla canzone d'autore che hanno dato una ribalta a scrittori di canzoni a margine del mainstream, tipo me. A Pino Calautti l'album è dedicato.
Ogni tuo album presenta sonorità differenti, sonorità strettamente legate alle tematiche dei vari brani. Con questo nuovo disco compi un’ulteriore evoluzione nella ricerca sonora, con la rinuncia alle corde del tuo fidato “Maestro dell'Anima”, Marco Lamberti, e il sodalizio con Giovanna Famulari: la canzone d'autore incontra le sonorità classiche. Come si è indirizzato il tuo lavoro sulle strutture musicali e l'arrangiamento dei brani? Quanto è stato importante il contributo di Giovanna?
Colgo l'occasione per dire che il “Maestro dell'anima” non è certo dimenticato! Anche di recente abbiamo suonato insieme, e anzi: sto lavorando, come sempre con molta lentezza, a delle nuove canzoni, in cui le sue corde sono il cuore dell'arrangiamento. Tornando alla tua domanda, ho già pubblicato, in passato, album senza la chitarra: il primo album de La Nave di Folli (il mio primo gruppo, in cui io componevo, ma non cantavo, affidando le parti vocali ad una voce femminile) e “L’Imperdonabile”, il primo album cantato, e in quel caso anche suonato, solo da me. Quei due album si ponevano all'inizio di un percorso, come forse anche questo. Mi preme dire che “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea” non è un “crossover”: sonorità classiche e canzone non vengono banalmente o barbaramente accostate mantenendo la loro specificità, ma si compenetrano come in un amplesso amoroso. Danno vita a qualcosa, spero, di nuovo e di inedito. Gli arrangiamenti si sono sviluppati con un lungo lavoro di scrittura, dapprima solo mentale, poi sperimentata suonando ciò che avevo composto a mente, nel silenzio. Io scrivo a mano su fogli di cartoncino pentagrammato. So che è un approccio arcaico, ma a me pare anche molto concreto. Non è lo scrivere sull'acqua che è lo scrivere al computer. Il contributo di Giovanna è stato fondamentale. La sua storia musicale è, in fondo, simile alla mia: entrambi di formazione classica, entrambi abbiamo concluso il conservatorio (quello serio di una volta, non la triste e poco formativa parodia che è diventato oggi...) e suonato in orchestre in età giovanile. Poi abbiamo preso una strada differente: abbiamo lasciato il posticino di lavoro certo in orchestra a cui eravamo destinati, per lanciarci nel mare aperto di una musica più creativa e ricca di incontri e di collaborazioni, approdando entrambi nei mondi incerti e frastagliati della canzone d'autore e delle musiche per il teatro.
Non era la classica che non amavamo, tuttavia, ma il suo mondo, il suo pubblico, le stanche modalità con cui veniva (e viene) riproposta... Questo album non sarebbe stato fatto senza Giovanna.
Guardando in retrospettiva il tuo percorso dai giorni de La Nave dei Folli, passando per il tuo debutto solista con “L’Imperdonabile” che ti vedeva per la prima volta dar voce alle tue canzoni, per giungere a questo nuovo disco in cui la tua voce emerge in tutta la sua forza evocativa. Come si è evoluto in questi anni il tuo approccio al canto?
Non ho mai amato la mia voce. Non la volevo usare. Ne “La Nave dei Folli”, come ricordavo sopra, componevo ma non cantavo. Solo con “L’Imperdonabile” ho deciso di cantare, ma la mia voce allora era poco più di un sussurro. Con il tempo, con lo studio e con un po’ di consapevolezza in più, il mio sussurro si è irrobustito fino a diventare talora anche un urlo. Comunque, ancor oggi non amo la mia voce. Spero di imparare ad amarla prima o poi.
Nelle tue canzoni racchiudi sempre un pezzetto del tuo immenso universo culturale con addentellati, riferimenti e citazioni che rimandano alla poesia, alla narrativa, al cinema, alla musica. Ancor di più mi ha sempre colpito che tutti i tuoi brani riportano le date e i luoghi dove hanno preso vita. Da dove nasce questa esigenza di dare e darsi sempre dei riferimenti precisi legati ai brani?
L’immaginazione, che poi diventa scrittura di musica e parole, necessita di essere stimolata e nutrita. Visitare luoghi diversi, abbandonare le abitudini quotidiane, cambiare ciò che mi passa davanti agli occhi mi ha sempre giovato in questo senso. Cerco sempre di evitare l'abitudine in ogni gesto e in ogni atto, non solo in quelli creativi. Ho cambiato più volte, e radicalmente, la mia vita per non finire in pantofole, a livello esistenziale e creativo. La radicalità è sempre feconda. Per questo annoto sempre i luoghi dove ho scritto ogni mia composizione: il percorso creativo di quasi ogni mia canzone spesso attraversa molti luoghi in molti anni. Rivedendoli, ricordo e ricostruisco l'occasione che mi ha ispirato.
Come avvenuto nello splendido “Argon” dove rileggevi Lucio Dalla, in questo album proponi una tua personale versione di “Oceano” di Fabrizio De André e Francesco De Gregori. Come si inserisce questo brano all’interno del disco?
Come sai, ho sempre aborrito “fare le cover”, come si suol dire, cioè capitalizzare un grande successo altrui su sé stessi. Mi sono sempre astenuto (a parte un caso molto isolato e atipico: l’album “FolkRock” realizzato con Massimo Priviero nel 2012). Nella mia vita, quando non riuscivo a guadagnare abbastanza per sopravvivere cantando le mie canzoni o suonando con artisti che cantavano le loro proprie canzoni, ho fatto altro (intendo proprio dire un altro lavoro, lontano dalla musica) pur di non “fare le cover”. Non sto certo cominciando a farle ora, in tarda età... Ma mi sono voluto prendere il lusso e il piacere di includere nei miei ultimi due album un “esercizio di ammirazione”, un omaggio ad un artista celebratissimo, attraverso una sua composizione meravigliosa ma poco nota. Nell’album “Argon” era stata “Ulisse coperto di sale” (parole di Roversi, musica di Dalla): è tratta da “Anidride solforosa” (1975) che fa parte
della trilogia di album che Il poeta Roberto Roversi (1923-2012) scrisse con Lucio Dalla (1943-2012) tra il 1973 e il 1976 (gli altri due sono “Il giorno aveva cinque teste”, 1973 e “Automobili”, 1976). Dalla, qualche anno dopo la collaborazione, dichiarò: “Se non avessi incontrato Roversi, adesso farei l’idraulico”. La “Trilogia delle automobili” è, non solo a parer mio, uno dei più radicali esperimenti di dialogo tra poesia e canzone. Naturalmente è nelle mie corde... Se ho sempre aborrito “fare le cover”, ancor più ho aborrito “fare De André”. L'insidia è dietro l'angolo; l'hanno fatto tutti, svuotando di senso le sue potentissime canzoni. Ormai si riconosce anche con i paraorecchie il motivetto de “La Guerra di Piero”, ma di rado ci si ricorda che è una canzone contro la guerra. Ho cercato di andare addentro la grande arte di De André per anni: ho collaborato per un quinquennio con Massimo Bubola dal 2001 al 2006, curando produzioni artistiche, suonando violino, viola e pianoforte e scrivendo con lui anche qualche canzone. Bubola, come i lettori di “Blogfoolk” già sanno, è uno dei maggiori coautori di De André, oltre che un brillante cantautore a proprio nome e mi ha insegnato molto. Ho poi suonato con tanti dei musicisti che avevano contribuito a creare il suono di De André, tra i quali mi piace ricordare il mio amico Giorgio Cordini. Ma io, malgrado i decenni di studio e preparazione, continuavo a non sentirmi pronto ad interpretare De André, fino a quando, di recente, ho avuto l’illuminazione: “Oceano”! La canzone, già nell’originale, aveva uno slancio classicheggiante nell'arrangiamento. E il testo, di De Gregori e De André (ma a me pare soprattutto di De Gregori), aveva in sé uno slancio squisitamente poetico nell'audace accostamento delle immagini, che ben si sposava con la mia scrittura attuale. Inoltre, Cristiano De André racconta che la canzone venne scritte con un montaggio di quelle strane domande che fanno i bambini ai genitori: i “perché?” spesso surreali dei bambini. Nello specifico erano i perché di Cristiano da fanciullo. Mi attraeva la canzone, dunque, anche per la poetica del ritornare bambini che caratterizza questo album... L’arrangiamento mantiene (spero) lo spirito dell'originale e lo evoca, ma, se lo analizzi, ho cambiato tutto: non c'è la chitarra, c'è il piano, il tempo è rallentato, è un duetto, il cantato di entrambi noi è recitato ed evita di imitare le meravigliose
Il brano che apre il disco “perché goethe è partito per l’oriente?” è emblematico e attuale perché riflette sull'incontro/scontro tra Oriente e Occidente.
Sì: mi ha profondamente affascinato che Goethe, uno dei più grandi e rappresentativi poeti dell'Occidente come è noto a tutti, da vecchio scriva il “Divan Occidentale-Orientale”, un canzoniere d’amore nei modi della poesia araba, che, curiosamente, è invece ignoto quasi a tutti. Goethe definiva questo libro "il gioco selvatico della polvere e del vento": infatti la sua struttura è molto poco occidentale, è molto libera, niente tesi, antitesi e sintesi. Goethe cerca di restituire sulla pagina scritta le caratteristiche dell'amore, che non è mai ordinato e organizzato, ma procede improvvisando, sempre inaspettato e imprevedibile, come la polvere e il vento... Dici bene sull’attualità della canzone: canto proprio di questi tempi in cui viviamo, in cui Oriente e Occidente si scontrano ancora. Goethe sogna a soluzione, la dissoluzione di questo dissidio in una dimensione amorosa. Forse avremmo dovuto ascoltarlo quando scriveva e teorizzava in questi termini 200 anni fa, ma – si sa – i poeti non vengono ascoltati...
Scrivi che “questo album [...] è quello in aperto dialogo con il femminile, con la donna, nel profondo e sostanzialmente”, ma questo non è solo per la presenza al tuo fianco di diverse donne che hanno collaborato alla sua realizzazione, su tutte Giovanna Famulari, ma anche dal punto di vista concettuale, come nel caso di “sanguedolce” in cui evochi la figura di Giovanna D'Arco....
Sì, questo album si può tutto leggere come un mio incontro con il femminile. Non solo nella dimensione amorosa (in canzoni come “La Resa” o “Alice nel Paese di Chagall” e in fondo in quasi tutte), ma in ogni senso. Ho avuto al mio fianco come unica musicista presente in sala Giovanna; l'unica mia coautrice è una donna, Sofia Pavan (ma di questo parleremo ancora); il progetto grafico è stato curato da donne eccezionali, Angela Lussig e Manuela Huber; l’ufficio stampa per questo album, Strategie di comunicazione, è diretto da una donna, Daniela Esposito. Infine, è stato tutto un accogliere con misericordia la mia parte femminile, che è quella migliore, quella artistica e creativa.
Questo album è anche uno dei tuoi dischi più personali e autobiografici. Quanto c'è della tua vita, dei tuoi ultimi anni, della tua rinascita a Venezia?
Sì, sono proprio rinato tra Venezia e la sua provincia, operando culturalmente nella mia amata città, ma vivendo soprattutto fuori di essa, nelle campagne, nelle spiagge, al mare: questo album è stato scritto nel silenzio, ascoltando il vento e le onde, in barca e in bicicletta. Sono nato e ho vissuto la prima parte della mia vita in Lombardia, regione mostruosamente antropizzata, come le megalopoli americane dove ho vissuto prevalentemente la mia vita fra il 2000 e il 2020. Qui nel Veneto Orientale c'è pace, silenzio, poca gente, l’attività industriale è pressoché nulla. Qui – lo dico scherzando ma non fino in fondo – siamo “diversamente settentrionali”! L’osteria è ancora il centro del paese e i rapporti sono semplici e schietti. In questa pace mi sono potuto arrendere, ho potuto concepire per me un futuro e finalmente concludere le mie canzoni del ciclo “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”.
Della tua passione per Marc Chagall canti in “alice nel paese di chagall”. Quanto la poetica visionaria di questo pittore ha influenzato il tuo fare canzone?
Almeno una volta all'anno torno al museo Marc Chagall, a Nizza in Francia, il "Museo del messaggio biblico". Lì grandi tele di Chagall legate ai suoi amati temi biblici e realizzata nei suoi ultimi anni di vita, sono appese nella sequenza che voleva lui in un edificio costruito come voleva lui. Il luogo spinge alla preghiera e i colori di Chagall si esaltano nella luce abbacinante della Costa Azzurra. La mia canzone descrive esplicitamente alcune di queste grandi tele. Guardandole, ho sempre sentito sorgere in me musica e parole: mi sono infine deciso a scriverle!
“la resa” l'hai scritta con Sofia Pavan, tua moglie. Com'è nato questo brano?
Sofia ed io ci siamo incontrati nel momento peggiore per avviare una relazione: alla vigilia della pandemia. Allora vivevamo distanti e siamo dovuti stare distanti per lungo tempo. Io, inoltre, ero anche in grave crisi economica, non potendo lavorare. I quasi 100 concerti che avevo in programma negli USA nel 2020 per promuovere l'album “Rifles & Rosary Beads”, a cui avevo lavorato con Mary Gauthier e che aveva ricevuto una nomination ai Grammy Awards, erano stati tutti cancellati. Mi ammalai, fatalmente, anche perché non reggevo al dolore per lo spegnersi del mio precedente matrimonio. Sofia, in tutto ciò, mi attendeva con fiduciosa serenità e mi scriveva, come oggi non si usa quasi più, lettere d'amore. Una di queste lettere conteneva queste parole: “Possa il vento del Nord trattenere il suo respiro”, una preghiera, una supplica perché i freddi venti che spiravano intorno a noi non avessero la meglio e non facessero morire il fiore appena nato del nostro amore. In quei giorni difficili e incerti, mi sono aggrappato a queste parole e me le sono appuntate, con l'idea che, se fossi sopravvissuto, da lì sarei partito per scrivere una canzone che immaginavo come la mia più bella. Sono sopravvissuto e quelle parole sono diventate l’incipit del ritornello de “la resa”, quando la canzone svolta verso la tonalità maggiore e si inaugura un nuovo mondo, fatto di amore, di vita e di speranza.
Come mai hai deciso di inserire nel disco lo strumentale “materiali sonori per una descrizione dell’anima di paolo f”?
“materiali sonori per una descrizione dell’anima di paolo f” è stato il punto di partenza per la mia collaborazione con Giovanna. Doveva stare in questo album. Ho scritto il brano subito dopo la tragica scomparsa del mio amico Paolo Finzi, nel 2020. Finzi è stato per me un maestro. Per decenni ha diretto quella che lui chiamava "la prima rivista in Italia" e poi aggiungeva, con tono più basso, “in ordine alfabetico”. Parlava di “A - Rivista Anarchica”, con la quale ho collaborato anche io. Finzi era una persona apertissima a qualunque stimolo politico o intellettuale, non si occupava solo di anarchia, anche se il pensiero anarchico è stato al centro della sua vita e del suo operare: la sua rivista era un riferimento per tanti. Fu amico intimo di Fabrizio De André e mi raccontò, nel corso del tempo, tante cose su di lui, cose belle, importanti e vere, fuori dall'agiografia deandreana post mortem. Ho registrato “materiali sonori per una descrizione dell’anima di paolo f” in un battistero romanico-bizantino a Concordia Sagittaria, nella città metropolitana di Venezia. Finzi scelse di uscire dalla sua vita, perciò ho pensato di registrare questo brano dedicato a lui in un luogo dove per millenni si è entrati nella vita. Il messaggio voleva essere che anche se lui è morto, il suo messaggio procede e procederà. Tutti gli altri brani sono stati registrati in uno studio di registrazione, ma tenevo che questo brano suonasse diverso, che venisse “interpretato”, oltre che da noi, anche dall’ambiente circolare di quel battistero. Ho girato un video nel corso della registrazione, che si può vedere on line.
Altro brano emblematico è “la torre di hölderlin”. Qual è la tua torre? Il posto in cui ti riconnetti alla natura?
La natura ha scritto molto di questo album. Lo hanno scritto soprattutto le onde del mare, ma questa volta, per la prima volta (di solito scrivevo prevalentemente on the road), ho scritto tanto anche a casa. A casa mia ci sono delle stanze rivolte a est, all'ultimo piano, sotto le travi del tetto. Le chiamo “le stanze dell'anima”. Lì scrivo e suono. Per entrare, si passa sotto ad un angelo appeso all'architrave della porta, un'immagine che invita a togliersi ogni maschera. È un luogo dove mi impongo di essere sincero con me stesso. Ci sono due finestre che guardano verso le montagne, dietro le quali si vede sorgere il sole, che appena sbuca colpisce un grande piatto di rame sulla parete di fronte e le stanze si inondano di luce. Questa è la mia torre: in queste stanze ho scritto “la torre di hölderlin”.
Musicalmente mi ha colpito molto “heiligenstadt” nelle cui trame alludi a “The black Swan” di Bert Jansch, una scelta non casuale visto il riferimento nel testo a “Il testamento di Heiligenstadt” di Ludwig van Beethoven. Ci racconti questo brano?
Ho provato ad unire parole tratte da quel testamento di Beethoven – scritto quando il compositore disperato per la sordità voleva lasciare la vita (ma poi ebbe la forza per sopravvivere per altri vent'anni) – a spunti musicali tratti da un altro testamento: "The Black Swan", l'ultimo disco di Bert Jansch. “heiligenstadt” è tra gli ultimi brani composti per il mio album ed è un brano ricco di contraddizioni, anche dolorose: alterna sezioni in cui letteralmente io urlo la mia ribellione al male di vivere a parti pacificate e pacificanti, governate da un lento motivo di violoncello. Mi piaceva che, giusto prima del brano "risolutivo" e conclusivo dell'album, l'ultimo in scaletta (che è quello che gli dà il titolo “solo i
miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”), ci fosse una "conclusione provvisoria" ricca di incertezze e di contraddizioni: un'ultima caduta, prima dell'ultima e decisiva risalita.
Chiude, appunto, il disco il brano da cui trae il titolo “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”. Lascio a te la parola per parlarci di uno dei vertici della tua carriera artistica...
Grazie per il tuo apprezzamento. Il brano si è sviluppato attraverso una composizione molto tortuosa, ricca di ripensamenti e rifacimenti anche totali, tra il 2016 e il 2024. Più volte lo ho abbandonato, ma poi, con misteriosa fedeltà, lo riprendevo sempre. Negli ultimi anni, inoltre, l'ho anche testato in concerto e aveva sempre una risposta molto particolare: il pubblico spontaneamente si univa a noi, cantando in coro i versi conclusivi: “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”. Da lì è nata l'idea di aggiungere un coro alla fine di questa canzone. Sono dunque intervenuti tanti amici in studio di registrazione (“il coro dei puri di cuore”). È come se, dopo tutto un album registrato in purezza da due soli musicisti, le porte si spalancassero, includendo tutti. Sono solito dire che in questi anni siamo circondati da una realtà veramente incredibile, cioè difficile a credersi, al punto che è più semplice credere ad un miracolo. Tanti sentono questa cosa, questo paradosso e desiderano cantarlo. Mi piace, inoltre, che i versi che danno il titolo all’album appaiano solo alla fine dell'album, che è quasi un percorso iniziatico, tra musiche, parole e tintinnii di rituali “percussioni psicoacustiche”. Segnalo ai più curiosi che la canzone è anche percorsa da immagini e parole che rimandano all'attrice Solveig Dommartin (un’altra donna in questo album che è tutto un omaggio al femminile, come dicevamo sopra...). Nella sua breve vita (1961-2007), Solveig entrò volando in tre film di Wim Wenders: “Il cielo
Hai presentato il disco il 21 febbraio allo storico FolkClub di Torino e il primo marzo presso la sontuosa Sala Curci a Villa Malta a Roma. Com'è andata? Cosa dovrà aspettarsi chi verrà a vedere i tuoi prossimi concerti?
I concerti presentano naturalmente le nuove canzoni di “solo i miracoli hanno un senso stanotte in questa trincea”, ma anche una corposa scelta del mio repertorio passato. Sul palco, come nell'album, solo Giovanna ed io e dunque anche le canzoni “vecchie” sono state totalmente riarrangiate in questa nuova chiave classicheggiante. Il concerto non somiglia a nessun mio concerto precedente. Mi sono preso il rischio e il lusso di cambiare tutto, a 55 anni! Sono concerti di forte intensità emotiva. Questo è il disco che ho sempre voluto fare, quello che mi rappresenta di più: ogni sera mi gioco tutto, è quasi una battaglia tra la vita e la morte. I concerti non saranno tanti, perciò, ma saranno tutti intensissimi e in luoghi molto significativi.
Salvatore Esposito
Recensione di Alessio Surian
Foto di Maurizio Malabruzzi (1, 2 e 3), Andrea Guerzioni (4), Andrea Furlan (5), Andrea Orlandi (6, 7 e 8), Gianni Daverona Ballini (9, 10, 11, 12 e 13) e Daniela Foresto (14)