Cantautore, ricercatore di musica popolare, ma anche saggista, poeta, narratore e insegnante di storia e filosofia, Marco Rovelli è un intellettuale eclettico in grado di muoversi su territori differenti, portando avanti un progetto culturale unico nel suo genere dove alla canzone d’autore si affianca l’attività di saggista con pregevoli volumi di taglio politico e sociale come "Lager italiani" (Rizzoli, 2006), "Servi" (Feltrinelli, 2009), "La parte del fuoco" (Barbès, 2013), "Il contro in testa" (Laterza, 2013), "La guerriera dagli occhi verdi" (Giunti, 2016 e il più recente "Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui" (Minimum fax, 2023), ma anche lo splendido "Siamo noi a far ricca la terra. Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi" (Minimum fax, 2021) nel quale ripercorre le vicende artistiche ed umane del cantautore bolognese. Sotto il profilo musicale, dopo l’esperienza con Les Anarchistes con i quali ha dato alle stampe “Figli di origine oscura” nel 2002 e “La musica nelle strade!” nel 2005, si è dedicato alla carriera solista mettendo in fila una serie di pregevoli lavori discografici, tra cui vale la pena citare l’ottimo “Tutto Inizia Sempre” del 2015, “Bella una serpe con le spoglie d’oro. Omaggio a Caterina Bueno” del 2018, “Portami al confine” del 2020 e il più recente “Concerto d’amore” con Paolo Monti. A un anno di distanza da quest’ultimo, il cantautore massese ha pubblicato “l’attesa”, un’opera che si muove tra più livelli espressivi, con il disco in cui ha raccolto raccolto quindici canzoni legate a un concetto “etico” come Attesa, Amore, Divenir-altro, Metamorfosi, Meraviglia, Creazione, Corpo, Empatia, Cura, Utopia, Resistenza, Diserzione, Liberazione, e a ciascuno di essi è legato il libro a cui ha affidato dodici dialoghi con altrettanti intellettuali tra poeti, romanzieri, teatranti, filosofi, storici, attivisti, psicoanalisti e neuroscienziati. Abbiamo intervistato Marco Rovelli per farci raccontare questo particolare “librodisco”.
“L’attesa”, come scrivi nell’introduzione non è un libro (e nemmeno un disco) ma un librodisco… Come nasce questo progetto?
Quando metti insieme le canzoni che hai scritto negli ultimi anni, anche se le hai scritte a distanza di tempo l'una dall'altra, ti accorgi che c'è un filo che le lega, ed emerge come una costellazione. Mi sono accorto, in questo caso, che ogni canzone aveva a che fare con un “valore” che dà senso al nostro stare al mondo, alla nostra esistenza. Essendo anche uno scrittore, ho cominciato a scrivere qualcosa che avrebbe potuto essere il classico libretto di accompagnamento, ma mi sono accorto che avrei voluto dire molto di più. Così ho pensato di fare incrociare, per la prima volta, la mia attività di musicista con quella di scrittore, e approfondire quei valori/concetti che ogni canzone metteva in forma musicale dialogando con alcune persone che ho incrociato in questi vent'anni “da scrittore”. E ho deciso di farlo, stavolta, autoproducendo totalmente il discolibro (inventando anche un marchio, l'Innominabile editore): ho curato tutto, dall'ideazione alla scrittura, dall'impaginazione alle tipografie, e poi la promozione, l'ufficio stampa - e grazie al fatto che ho presso alcuni addetti ai lavori una qualche forma di riconoscimento sono arrivate molte e belle recensioni - e la spedizione... (a proposito, per acquistarlo, tutte le istruzioni sono sul mio sito www.marcorovelli.it). È stata una faticaccia, ma una volta nella vita è stato bello farlo: se si parla di “canzone d'autore”, qui c'è un'autorialità radicale...
Il libro raccoglie dodici dialoghi con intellettuali di varia estrazione, tra cui filosofi Felice Cimatti, Ubaldo Fadini, Franco «Bifo» Berardi e Silvia Federici, il neuroscienziato Vittorio Gallese, il regista Armando Punzo e il prof. Alessandro Portelli con cui parlate della Resistenza. Insieme si parla di amore, cambiamento, bellezza, empatia, liberazione e ovviamente attesa. Come si interseca il tutto con le canzoni?
Come una costellazione, in cui ogni stella è autonoma, ma entra in connessione con le altre e dà vita a una nuova forma. Ogni canzone è autonoma, i dialoghi del libro non sono “spiegazioni delle canzoni” - altrimenti, significherebbe che la canzone non basterebbe a sé stessa, dunque non sarebbe una buona canzone. Invece, è come se ogni canzone si sporgesse fuori di sé stessa, e da lì si diramassero percorsi, e questi percorsi li ho fatti dialogando con artisti, scrittori, poeti, scienziati, filosofi. Da questa trama di dialoghi si forma una costellazione di senso che potrebbe essere rubricata sotto la voce Relazione. E perché dunque il titolo l'attesa? Per questo: quando l'attesa smette di avere un oggetto da attendere, si dilata all'infinito, cancella passato e futuro, diventa condizione di ascolto, e di attenzione, che significa lasciar essere il mondo, lasciarlo alla sua pura dimensione del divenire, lasciare che le cose, e gli altri, divengano ciò che possono essere, lasciare che la loro essenza, per dirla con Spinoza, sia la loro potenza, che siano ciò che possono; e tu che ascolti con attenzione divieni con loro, ti lasci trasformare da loro. L'attesa, allora, risuona con l'amore, se l'amore – come scrisse Etty Hillesum - è lasciar essere. “E da quel che amo, da quello solo dipenderò”, è un verso della canzone “Noi, Chisciotte”. Il nostro non è un mondo libero, perché è un mondo in cui non si può amare, perché non c'è posto per l'altro. Nella nostra società gli altri sono specchi, che rafforzano la nostra identità fragile, o che rimandano la vergogna. E chi non è specchio, si infranga - che siano i migranti, o ogni altra forma di diversità. Amare significa rovesciare questa società dell'Io, e fare posto all'Altro.
Ci puoi raccontare come sono nate le canzoni? Qual è il punto di connessione con il libro?
Ogni canzone nasce da un'occasione diversa, in tempi diversi. Ma esprime la forma di un valore del nostro stare al mondo, come dicevo, e da lì sono partito per un dialogo. Faccio un esempio concreto. Il disco si apre con una canzone (forse quella più rock di tutte), La finestra, che ho scritto durante il lockdown all'inizio della pandemia, in un momento in cui eravamo totalmente sconnessi. Mi era venuto da scrivere sulla finestra, che era la membrana che in quel periodo più comunemente separava gli umani dal mondo fuori. Del resto, si usa l'espressione “starsene alla finestra” per dire la condizione di esternalità, di non coinvolgimento, la condizione di spettatore. Ma, allo stesso tempo, la immaginavo come condizione di possibilità per un volo: immaginavo che si potesse trasformare l'isolamento in un'opportunità, per pensare nuove forme di vita, perché si trattava non di tornare alla normalità, ma di trasformarla. Divenir-finestra, allora, e divenire le cose, smettendo di guardarle dall'esterno, ma lasciando che siano esse a guardarci, lasciarci guardare dalle cose (e dagli alberi, dagli animali, dagli altri umani...) e così trasformarci: scoprire se stessi nell'infinito divenire del mondo, sperimentando nuove forme di vita, Dopo aver scritto questa canzone ho letto un libro di Felice Cimatti, “Filosofia dell'animalità”, che risuonava profondamente col sentire di quella canzone, a partire proprio dalla finestra: Cimatti reinterpretava uno dei sogni più famosi della psicoanalisi, il sogno ricorrente di un paziente di Freud di essere guardato ogni notte attraverso una finestra da un branco di lupi (e tra i miei versi c'era proprio anche: divenire lupo). Così ho dialogato con lui sull'esporsi allo sguardo dell'altro, sul divenire quello sguardo nel momento in cui si è guardati, sull'importanza di aprire la finestra e liberare lo spazio della reciproca visibilità – ciò che significa che prima dell'io viene il noi – “divenire stormo”, scrive Cimatti; “divenire piazza”, canto io...
Parallelamente alla tua attività come cantautore e a quella di insegnante di filosofia, nel corso degli anni, hai pubblicato diversi saggi e romanzi. Questo librodisco coniuga due delle tue anime. Come si inserisce nel tuo percorso artistico?
È la prima volta che il percorso di scrittore e di musicista si intersecano così strettamente. Certo, mi è capitato spesso di scrivere canzoni su questioni su cui stavo lavorando come scrittore: per esempio, ho scritto alcuni libri sulle questioni delle migrazioni, e questo mio coinvolgimento ha chiamato anche la scrittura di canzoni sui medesimi temi (penso a Servi, che era un libro pubblicato da Feltrinelli, e la canzone omonima che era nel mio album. “Tutto inizia sempre” nel 2015). Ma qui c'è molto di più: ogni canzone ha determinato un percorso di riflessione e di dialogo, si è fatta attrattore per riflessioni condivise... sono due forme diverse, dunque – due riflessioni, come su uno specchio - su ciò che dà valore e senso all'esistenza, dall'amore alla liberazione, dal corpo alla meraviglia, dalla metamorfosi all'utopia: una riflessione con la parola e una con la musica, visto che la vita si dice e si racconta con la parola, ma anche si canta e si danza.
Quali sono le differenze e le identità tra questo lavoro e i tuoi precedenti?
Parlando da un punto di vista musicale, io sono un cantautore, tecnicamente, ma la mia anima più profonda è rock. Perciò volevo dar vita a un album che, per dirla con un'etichetta, fosse songwriting rock. Negli ultimi anni ho lavorato e suonato moltissimo con Paolo Monti, chitarrista che ha con me molte affinità di affetti musicali, e che sa dare alle canzoni un corpo elettrico potente: a volte agisce come uno scultore dello spazio col suono, altre volte lo riempie con quantità di energia psicosonora... Questo è un disco elettrico, e le canzoni le ho composte e concepite pensando a un'orchestra rock, o postrock se vogliamo.
Come si è indirizzato il lavoro sugli arrangiamenti con Paolo Monti?
Abbiamo lavorato in maniera molto naturale, proprio per quella affinità di affetti di cui sopra. Io gli dicevo l'idea che avevo sul sound di ogni canzone, conoscendo il tipo di suono che usa, e lui la realizzava con massima libertà, proprio perché c'è questa consonanza forte alle spalle. Poi ci si tornava sopra, magari gli chiedevo modifiche, ma nella massima complicità e scorrevolezza. E credo che questo si senta, nel risultato finale, la presenza di “due voci” in dialogo, una musica elettrica, inquieta, tecnicamente postrock diciamo, o alt rock, e un canto che vuole anche raccontare, sia pure per immagini e non per storie. La Relazione è il tema del disco non solo come concetto, ma anche come pratica.
Quanto è stato importante il contributo degli altri strumentisti coinvolti nelle registrazioni?
È stato molto importante. Anzitutto, per numero di contributi, la batteria di Massimiliano Furia, che dà quella marcatura ritmica potente necessaria al disco, conservando quella raffinatezza inventiva di batterista
dedito all'improvvisazione qual è. Poi c'è il violoncello di Lara Vecoli, con cui negli anni precedenti ho suonato moltissimo: in questo disco è meno presente, ma in alcuni pezzi il suo apporto è strutturalmente decisivo. Federico Gerini è un pianista (che tra le altre cose lavora anche sull'improvvisazione con Massimiliano) che ha dato una marca intensa e specialissima a Il canto degli alberi che ho scritto con Antonio Moresco. Nicola Alesini ha dato un contributo a due canzoni col suo sax contralto, quello che suonava con Claudio Lolli (e uno dei due è proprio in Il cantiere, che nasce da una rivisitazione di un testo inedito di Claudio. Quando scrissi “Siamo noi a far ricca la terra”, il libro-romanzo sulla sua vita, la sua famiglia si mise a disposizione, e tra le altre cose mi lasciò scartabellare in uno scatolone dov'erano fogli sparsi e diari giovanili di Claudio. Tra quei fogli trovai un testo che poteva essere un abbozzo di poesia, o di canzone, chissà: dalla sua poetica, poteva essere collocabile nel periodo delle canzoni di “Extranei”, dunque alla fine degli anni Settanta). Infine, Teho Teardo, col quale avevo riscritto una mia vecchia canzone sui partigiani, “Sbandati”, in occasione dell'album collettivo sulla Resistenza che avevo ideato due anni fa, “Nella notte ci guidano le stelle”, che poi aveva vinto la targa Tenco come miglior album a progetto: canzone che non poteva mancare ne “l’attesa”, dato il passo lieve e silenzioso col quale Teho aveva restituito il passo partigiano sul crinale dei monti.
Nel disco sono presenti anche le riletture/riscritture di "Sympathy For The Devil" dei Rolling Stones che tu rendi come "Lo Specchio Del Diavolo", "Hurt" dei Nine Inch Nails che diventa "Ferita" e "Fino All’Ultimo Minuto" di Piero Ciampi. Come mai hai scelto queste canzoni?
“Fino all'ultimo minuto” è una canzone meravigliosa di Piero Ciampi che avevamo suonato per un'edizione del premio, ci era piaciuto suonarla, e io ho col premio Ciampi ho un legame forte, da quando vinsi la targa come miglior esordio con Les Anarchistes. Questo brano mi ha dato la grande gioia di un'altra targa Ciampi, come miglior interpretazione di un suo brano, ma che suona un po' come un premio alla carriera, per me: “uomo del Rinascimento e artista ciampiano”, mi hanno scritto nella motivazione, e questo me lo tengo ben stretto! Quanto agli altri due brani, avendo come dicevo un'anima rock, “Sympathy for the devil” è sempre stata per me la canzone rock per eccellenza, e la canto ininterrottamente dalla mia teenage (avendola imparata ad amare, in origine, nella versione dei Jane's Addiction...). “Hurt” è una canzone il cui testo lo avevo usato come esergo di un mio romanzo, “La parte del fuoco”. Insomma, essendo due canzoni così per me importanti, e direi incarnate in me, mi è davvero venuto naturale osare volgerle in italiano...
Venendo ai brani originali, mi ha colpito molto la title-track, una riflessione importante sulla condizione umana...
Ho scritto la canzone “l'attesa”, una domenica che eravamo andati, io e la mia compagna, alla Zisa di Palermo. Aspettavamo un autobus che non passava mai, e lì, in quell'attesa esausta, scrissi i versi di questa canzone, che prese corpo narrativo in una città che, come poche altre, è uno luogo di tempi e di sensi sedimentati. “l'attesa” è una condizione esistenziale. Sicuramente è la mia, fatta di inquietudine e ricerca, ma credo che sia, a un livello più generale, quella della condizione umana. E però, come dicevo anche prima, quando quest'attesa si dilata, e smette di avere un oggetto, quando “non c'è nulla che manca”, diventa attenzione. Attenzione all'altro che è. Una condizione difficile, impossibile forse, ma necessaria. Specialmente oggi, quando la nostra volontà di dominio – sul pianeta, sugli altri, sulle differenze, sull'immaginario, sulla stessa impossibilità (“nothing is impossible”, dice la Nike, come comandamento della nostra società della performance) – è così straripante, e ci ha portato sull'orlo della catastrofe. Da cui bisogna disertare, per evocare un altro valore, la diserzione, di cui ho dialogato nel libro, con Bifo.
Altro brano attualissimo mi sembra "Angelica". Cosa ti ha ispirato questo brano?
E' l'Angelica che Ariosto canta nell'Orlando furioso, che in questa canzone diventa segno di Liberazione: ma non è una sovrapposizione che faccio io, è la verità di quella storia. La Liberazione di Angelica consiste nel sottrarsi alle proiezioni degli uomini su di lei, di quella sua fantasmizzazione maschilista, del suo innamorarsi di un signor nessuno, Medoro, a fronte della nobiltà di quei cavalieri che la pretendevano
a cominciare da Orlando – che per la sua sottrazione perderà il senno –, del suo dileguare dall'universo del dominio. Angelica diserta da quel mondo, e afferma la propria presenza fuori da quelle catene fantasmatiche, afferma il proprio corpo. E che il corpo sia il soggetto e l'oggetto della liberazione è l'insegnamento principale della teoria e della pratica del movimento femminista.
a cominciare da Orlando – che per la sua sottrazione perderà il senno –, del suo dileguare dall'universo del dominio. Angelica diserta da quel mondo, e afferma la propria presenza fuori da quelle catene fantasmatiche, afferma il proprio corpo. E che il corpo sia il soggetto e l'oggetto della liberazione è l'insegnamento principale della teoria e della pratica del movimento femminista.
Antonio Moresco e Maria Grazia Calandrone sono coautori di “Il canto degli alberi” e “All’inizio del mondo”. Come sono nati questi due brani?
Sono nati da due incontri con due persone che hanno quella capacità di ascolto e di attenzione al mondo di cui si diceva; e che anche per questo sono tra le voci letterarie più belle di questi anni. Ho incontrato Antonio Moresco quando avevo suonato alla festa di Nazione Indiana, rivista letteraria di cui allora facevo parte, e che lui aveva fondato. Lo rividi qualche anno dopo al festival Pordenonelegge, e lì cenammo insieme, ci mettemmo a parlare di molte cose, e venne fuori l'idea di scrivere una canzone insieme. L'occasione ci fu quando lo invitai al festival Mèlosmente, organizzato dalla mia compagna Sonia Cortopassi, quell'anno dedicato alla natura: e lui aveva da poco pubblicato il suo libro Il canto degli alberi. Venne naturale scrivere una canzone a suo margine. Mi mandò alcune idee di testi, che combinai insieme a qualche passo di un suo romanzo precedente da me molto amato, “La lucina”. Ho rubricato questa canzone sotto il concetto di metamorfosi, contiguo a quello di divenir-altro. Qui, rispetto al divenir-altro di “La finestra”, l'accento va sul fatto che occorre smettere di vederci come soggetti (noi umani) di fronte a un oggetto (le cose, la natura), e smettere di vedere l'umano come un'eccezione nella natura, e cominciare a vederci in quanto modi di darsi della natura stessa, sue modificazioni, sottoposti alle medesime leggi. Significa concepirci come onde di un unico oceano. Significa concepirci come nodi di un'unica rete, intessuti di alcuni tra gli infiniti fili che intessono quella rete. Significa concepirci come trame di un unico tessuto. E significa imparare dalla natura la capacità della metamorfosi. Con Maria Grazia Calandrone ci eravamo incrociati molti anni fa, ci siamo rivisti in anni più recenti, e anche qui l'occasione è nata dal festival Mèlosmente, per il quale abbiamo messo in scena un recital musicale, Una docile fibra dell'universo, in cui Maria Grazia legge e commenta poesie e brani letterari sulla natura, e io – con i miei musici Paolo, Lara e Federico – suoniamo canzoni che cantano la natura. Tra queste, “All'inizio del mondo”, che nasce da una poesia di Maria Grazia, smontata e adattata per farne canzone. Una canzone di meraviglia e di amore. Con lei ho dialogato d'amore. Del resto, ha scritto questo distico eloquente:
"Sbandati" è nata dalla collaborazione con Teho Teardo. Ci puoi raccontare questo brano?
Con Teho sono entrato in contatto quando costruivo l'album sulla Resistenza “Nella notte ci guidano le stelle”. Gli avevo chiesto se voleva partecipare, rispose con grande entusiasmo, e poi gli chiesi se avesse voglia di rimettere mano insieme a me a un mio brano di molti anni fa, Sbandati. Lo abbiamo rivisto e rimontato, e il suono lieve di Teho era la restituzione di quel silenzio delle montagne partigiane, un silenzio dilatato ma intensissimo. “Sbandati” – che era nata come poesia, un 25 aprile che ero a suonare con Les Anarchistes a Ca' Malanca, sugli Appennini romagnoli, là dove una casa museo ricorda i partigiani morti nella battaglia di Purocielo - si riferisce al fatto che i partigiani venivano perseguiti dai fascisti come sbandati, ovvero disertori, e in quanto tali sarebbero stati, dicevano i manifesti, fucilati alla schiena. Prima di essere partigiani – di compiere la scelta – si deve disertare, ci si deve sottrarre.
Concludendo. Come si svilupperà il disco in concerto?
Qui si aprirebbe tutto un altro lungo capitolo. Perché negli ultimi anni per quelli come me – fuori dal mainstream, etichettati addirittura come cantautori “impegnati” - i luoghi dove poter suonare si sono molto ridotti. Certo, se vai a vedere il calendario dei miei vari concerti (è sempre aggiornato sul mio sito), ne faccio tanti: questo è anche un valore aggiunto del mio essere anche scrittore, in questi anni molto spesso è capitato che mi si chiedesse di suonare e di presentare il libro in sequenza. Però si deve faticare tantissimo per costruire le date, bisogna far tutto da soli. Finché reggeranno le forze lo si farà, evidentemente... E dunque, si fa di necessità virtù. Perciò è accaduto che un disco rock abbia generato anche un “racconto musicale”, fatto in posti piccoli, in circoli o piccoli teatri, dove vado io con la mia chitarra a raccontare e a suonare le canzoni dell'album, che pure erano state concepite in elettrico. E scopri che funziona bene. Poi, in luoghi più grandi, si va in elettrica: o in duo, con Paolo che va di elettrica, di effetti e di laptop, o in tre, con la batteria di Massimiliano, e questa chiaramente è l'opzione che consente di presentare al meglio il disco nella sua essenza rock.
Marco Rovelli – l’attesa (l’innominabile editore, 2024)
“QUESTO NON È UN LIBRO (e nemmeno un disco) …ma un discolibro, un insieme fatto di due elementi che stanno in relazione reciproca. Sia chiaro, i due elementi possono essere separati e avere vita autonoma: si può leggere il libro in quanto libro e ancora di più ascoltare il disco in quanto disco”. Con questa premessa, Marco Rovelli ci accoglie alla lettura e all’ascolto de “l’attesa”, librodisco che compendia le due anime del cantautore massese, quella del cantautore e quella del saggista e rappresenta l’opera certamente tra le più rappresentative della sua produzione discografica. I dodici dialoghi più uno, raccolti nel libro, si intersecano con le quindici canzoni del disco, componendo una più ampia e profondissima riflessione sull’umano spaziando attraverso temi come amore, divenir-altro, metamorfosi, meraviglia, creazione, corpo, empatia, cura, utopia, resistenza, diserzione, liberazione, attesa, “concetti fondamentali di una vita che voglia dirsi davvero umana”. L’autore intesse, così, dialoghi con Antonio Moresco e Maria Grazia Calandrone, i filosofi Felice Cimatti, Ubaldo Fadini, Franco Berardi Bifo e Silvia Federici, l’antropologo Francesco Remotti, lo psicoanalista Miguel Benasayag, lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, il neuroscienziato Vittorio Gallese, il regista teatrale Armando Punzo, lo storico Alessandro Portelli con il quale discutono della Resistenza, facendone emergere una prospettiva tanto inedita, quanto illuminante. La scelta del dialogo rende il volume scorrevole e coinvolgente nella lettura, ma soprattutto fungendo da introduzione ed approfondimento dei vari brani. L’ascolto ci svela un disco dal sound post-rock con influenze che spaziano dal blues alla psichedelia, passando per il jazz, ad avvolgere il canto denso di pathos emotivo di Marco Rovelli che interpreta ogni brano con grande partecipazione e trasporto. In questo senso, determinante ci sembra il contributo di Paolo Monti (chitarra elettrica, basso, drum programming), così come quello degli altri strumentisti coinvolti: Massimiliano Furia (batteria), Lara Vecoli (violoncello) e Federico Gerini (tastiere, pianoforte), a cui si aggiungono Daniele Onori (basso), Nicola Alesini (sax soprano) e Teho Teardo (produzione, electronics, piano Rhodes). Ad aprire il disco è il post-rock de “La finestra” a cui segue l’introspettiva “Gardenia” per giungere al crescendo folk-rock de “La scelta”, spinto dal violoncello, a cui Rovelli affida una riflessione sui nostri tempi che “precipitano” e che ci chiedono dalla parte di chi stare: “Abito due mondi, vivo sul crinale ho tante identità / ma conosco bene la parte dove stare… Nelle mie scarpe c’è il mondo intero di chi si gioca la vita”. Il vertice del disco arriva, poi, con la title-track, in cui il dialogo tra chitarra elettrica e violoncello, incornicia un testo in cui la descrizione dell’attesa di un autobus a Palermo, diventa l’occasione per riflettere sul senso di smarrimento e di inquietudine che spesso fa capolino nelle nostre vite. Se la toccante “Ferita” è una sorprendente riscrittura in italiano di “Hurt” dei Nine Inch Nails della quale ne viene preservata l’atmosfera, la successiva “Questo corpo” si sviluppa in un climax rock di grande intensità e ruota intorno al tema del rapporto tra corpo e tempo. Il tema dell’amore come atto politico permea l’intensa “Angelica”, mentre “Il cantiere” è una ballad jazz-rock in cui Rovelli riprende un testo di Claudio Lolli, scoperto mentre era al lavoro sul suo libro dedicato al cantautore bolognese. La bella sequenza in cui ascoltiamo “Il canto degli alberi” e “Come se finisse il mondo” ci introduce a quel gioiello che è “Lo specchio del diavolo” riscrittura in italiano di “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones. La ballata “Noi, Chisciotte” in cui prende vita un dialogo immaginario con Don Chisciotte della Mancia, protagonista del romanzo omonimo del romanzo di Miguel de Cervantes. Verso il finale arrivano “All'inizio del mondo” tutta giocata su metafore legate alla natura e la superba rilettura post-rock di “Fino all'ultimo minuto” di Piero Ciampi. Le storie dei partigiani perseguitati dai fascisti come disertori di “Sbandati”, nata dalla collaborazione con Teho Teardo chiude un opera di alto profilo culturale e musicale che rappresenterà, anche per il futuro, una pietra angolare della produzione di Marco Rovelli.
Salvatore Esposito
Foto di Francesco Luongo (2)