L’epopea di Makám Együttes: storia di una longevità musicale – III Parte

Il 2011 porta il dono di una registrazione di notevole portata artistica ed emotiva: 30. ovvero la celebrazione del trascorso trentennale da quel lontano incontro musicale tra Makám e Kolinda. Quella che il 22 dicembre 2010 sale sul palco del centralissimo Teatro Millenáris di Budapest è una formazione che riemerge dal passato con Péter Dabasi, Zoltán Krulik, Szabolcs Szőke, Endré Juhász e Péter Szalai raggiunti dai più giovani Szirtes Edina Mókus (violino, voce), Gábor Főldes (basso elettrico) e Csaba Gyulai (percussioni). Partecipano anche Szilvia Bognár e Zoltán Miszei provenienti da trascorse formazioni Makám e Dóra Kováts da Kolinda, mentre non compare alcun membro appartenente al gruppo in quel momento, attuale. Il repertorio pesca da entrambi gli együttes e quando vengono intonati i brani degli esordi, il tempo pare immobilizzarsi, al ricomporsi degli assoli di oboe, lontanissime melodie oramai sedimentate, per una sera riemergono dalle brume e la magia di voci e suoni, corrono all’impazzata su fili di intensità e commozione, inducendo alle lacrime ben più d’un presente. In questo periodo Krulik decide di pubblicare anche alcuni progetti solistici. Innanzitutto, un volumetto di poesie in cui affronta i propri ricordi d’infanzia, “Legolcsóbb Mozi” (2011) a cui viene allegato un precedente cd Makám (di volta in volta variabile) e composto da ventisette liriche e tre corte prose. Dichiara pubblicamente di essersi sempre considerato un paroliere e di aver lungamente esitato all’inizio degli anni ‘70, su cosa diventare, in quanto ai suoi occhi parole e musiche risultavano di pare valore. L’anno dopo esce sul mercato il cd “Robinzon Kruzo” ma fin dalle prime battute si capisce perfettamente che, nonostante la copertina rechi la dicitura Makám, si tratta di un progetto solista di Krulik, che canta in tutti i brani. Gli arrangiamenti musicali sono distanti da quelli abituali del gruppo e non vi figurano strumenti etnici tipici, bensì quelli di una formazione tipicamente rock. Contiene diverse canzoni autobiografiche più una composizione, Café Bábel, che ha lo stesso titolo da un lontano disco di quindici anni prima, in omaggio alla Berlino del tempo che fu. Zoltán aveva musicato in gioventù pure un sonetto di Petri György, giornalista e in quegli anni risultava figura di spicco dell'opposizione democratica ungherese. Quando gli aveva sottoposto le
proprie poesie il poeta ne elogiò solamente tre e così Krulik ne dedusse che era meglio concentrarsi unicamente sui suoni (le tre liriche risultano proprio quelle da poco pubblicate nel volume Legolcsóbb Mozi). E a musicare diciannove testi di Petri György selezionati dai sette libri da lui pubblicati tra gli anni ‘70 e ‘80, si dedicherà nel suo secondo progetto solista “Petri-Dalok” (2014). Lo farà da cantautore acustico, ancora senza elementi musicali folk e senza Makám, il cui nome questa volta, non compare neppure in copertina. Gli unici altri contributi musicali sono di Endre Juhász (sassofono, duduk) oltre all’occasionale chitarra elettrica di János Horvát “amici miei, il canto è finito, il cielo sia con voi...avrei potuto essere più diligente, più bravo ma questo è… non sono insoddisfatto, ho avuto una vita bella, piena di godimento, come smeraldi e diaspri sul velluto le pietre preziose dei mesi brillano...spolpo i miei ultimi giorni fino all'osso”. Dopo pochi mesi vede la luce la raccolta “Napének” che prosegue i festeggiamenti per i trent’anni della band e contiene un solo brano inedito, a cui seguirà “Holdfényt Vetettem” (2015) in omaggio alla poesia di Sándor Weöres, disco che in brevi composizioni, mantiene sonorità rarefatte e incisive anche quando accompagnano le liriche più consapevoli: “Quando ancora ero un ragazzino, cantavo contorcendomi in una gabbia, non avrei mai voluto uscirne, sembravo spaventato dal futuro, non tornerei mai indietro, non sono tentato dalla gabbia dorata…” Le parole di Weöres sono state sovente musicate in Ungheria, anche un gigante della rinascita folk magiara come Ferenc Sebő ha dedicato un intero disco a Rongyszőnyeg (Tappeto Di Stracci), definendolo ciclo di raccolta di brevi “canzoni, epigrammi, prove, schizzi, frammenti”. Da molto queste poesie figurano nel repertorio concertistico di Makám, tre anni prima era già stato registrato un album che le conteneva ma un errore in sede di post-produzione, l’aveva erroneamente cancellato. Zoltán aveva preso bene l’inconveniente, reagendo come aveva fatto in precedenza Leonard Cohen in un’analoga situazione, ovvero intravedendo in ciò il segno del destino che evidentemente il momento per quelle canzoni, non era ancora arrivato. Il materiale musicale ha così potuto “maturare” prima di trovare posto in questa “Semina Al Chiaro Di Luna”. Anche le poesie interpretate da Makám provengono tutte dal libro Rongyszőnyeg: “Vedi un segno irradiarsi sulla mia fronte? Sei tu che lo disegni, fai attenzione ai giochi di luce e di ombra
poiché luce e ombra si irradiano verso di te...” La lirica che dona il titolo al cd era stata precedentemente incisa in Almanach per la voce di Szilvia Bognár, ora toccava alla giovane cantante solista Klára Korzenszky. Il breve Én Is Világot Hódítani Jöttem recita: “Anch'io sono venuto per conquistare il mondo e non riesco a conquistare me stesso, posso solo assediarlo con pesanti pietre, ingannarlo e ingannarlo ancora. Una volta anch'io volevo essere un maestro, oh, potessi almeno essere un buon servitore. Ahimè, il servitore è soltanto Dio e l'infinito brulica invece di padroni”. Un’esile coppia di amorevoli papaveri annuncia nel 2016, “Szerelem”, intriso di sonorità tradizionali ungheresi miste a rock con asimmetrici riferimenti balcanici e assoli africaneggianti di sassofono jazz. La traccia Szabad Élet (Vita Libera) era stata interpretata in passato da Márta Sebestyén/Muzsikás In Nem Arról Hajnallik, Amerről Hajnallott…/The Prisoner's Song (1986), sotto il differente titolo Hidegen Fújnak A Szelek (Freddi venti stanno soffiando) “Freddi venti stanno soffiano, non significano niente di buono, vita libera, uccello libero, che bello è chi può muoversi liberamente, andrei anch’io se potessi, se fossi libero ma libero non sono, le mie mani e le mie gambe sono sotto chiave e lucchetto”. Il disco inizia con una conturbante melodia bulgara dedicata al falcone, tradizionalmente intonata all’inizio della prima notte di nozze, su un testo originale di László Nagy che invita a… piantare peperoni! Non mancano, come spesso nella musica magiara, ripetuti riferimenti alle musiche tradizionali Csángós, gruppi etnici minoritari di religione cattolica e lingua ungherese, che abitano dal XIII secolo un centinaio di villaggi sparsi della Moldavia rumena, lungo il fiume Siret e nei pressi delle cittadine di Bacău e Iaşi. In questo caso, si tratta dell’accattivante melodia di Gyere Ki Te, amata anche da Kolinda che la inserì nel disco d’esordio. In Ungheria è stata spesso ripresa in molte vesti: da Kormoran nel 1984, per quei suoi possibili sviluppi rock, oppure in ambito funky-jazz nel secondo disco di Barbaro (1990) con ospite Nikola Parov. In una immacolata versione al termine dell’hungarian
free-folk di Meotis (2000) a nome Kati Szvorák És A Kőfaragók (Ferenc Kiss/Béla Ágoston/Zsigmond Lázár), in quella impreziosita dal suono del ney persiano di Besh o droM (idioma zingaro per “vai per la tua strada”) in Ha Megfogom Az Ördögöt… (2005) così come, fuori dall’ambito folk revival, dove la si può ascoltare in versione soft-jazz ballad, dalla voce di Veronika Sára Szász. Ma gli stessi Makám l’avevano precedentemente posta nel 1999 in apertura a Skanzen e non è mancata nel concerto celebrativo del trentennale: “Vieni fuori, mughetto, perché la luna è sorta, all'alba uscirò, con un lungo cappello a tesa larga, la mia porta è aperta, puoi entrare, la panca è vuota, puoi sederti, il letto è fatto, puoi sdraiarti, la mia porta è aperta, puoi uscire”. Il popolo Csángó è un organismo vivo a cui ho precedentemente accennato su queste pagine, minoranza etnica ungherese estrema, ubicata ai piedi dei Carpazi e di fatto, forzatamente rimossa dalla geografia della terra magiara. Proprio per questo hanno conservato intatti sia un linguaggio arcaico che delle melodie originali, nonostante non venga loro consentito di parlare la madrelingua neppure all’interno delle chiese. I Csángós moldavi (e questo vale anche per i Gyimes) sono detentori di una eredità culturale europeo-medioevale straordinariamente unica e preziosa. Conservano strumenti sonori e motivi balcanici propri, una cinquantina di danze e reminiscenze musicali del tutto estinte altrove da moltissimo tempo e non udibili in qualsiasi altro luogo geografico dell’est Europa. Il pezzo di chiusura Rabének, di questo cd di Makám, rende omaggio invece al sessantesimo anniversario della rivoluzione ungherese dell’autunno 1956. Si tratta di una canzone che Krulik aveva scritto una decina di anni prima ma che finora era rimasta inedita e dove l’autore percorrendo i propri ricordi di bambino di cinque anni, vede per la prima volta, i carri armati dell’Armata Rossa attraversare Tatabánya. L’antisovietica e libertaria “Primavera di Budapest” durò diciannove giorni e costò la vita a 2.700 persone, grazie all’intervento criminale dell’artiglieria pesante sovietica. Era cominciata come pacifica manifestazione studentesca e operaia ma divenne ben presto rivolta armata contro la dittatura e la presenza sovietica nel Paese. Oltre 500 furono le condanne a morte eseguite, decine di migliaia le persone rinchiuse in campi di internamento o prigioni, in 200.000 lasciarono il Paese. I primi segni di ripresa del dissenso in Ungheria ricompariranno solamente verso la metà degli anni ‘70. Alcune liriche della canzone recitano: “Mi colpiscono, mi colpiscono, vengono di notte, servi dei diavoli, mi scuoiano, lanciano dadi sul mio cranio, giocano a carte sul mio cuore, mi puniscono giorno e notte. Ci portano nei vagoni bui della prigione...il Golem Rosso mi sorride, la mia camicia è coperta da un lenzuolo, il cielo è una lampada eterna, la morte oscura siede sulle mie spalle. Chiodi arrugginiti tra le nostre braccia, ferite brucianti, dove sono le nostre unghie. Corpi refrigerati in un bagno acido... il cielo si squarcia come un arazzo, un boia sbadiglia su una forca, le mosche morte sono ovunque, per chi stai costruendo una corda oggi?” 
Flavio Poltronieri

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