Il filo conduttore di questo lavoro dal sonoro titolo “Grilli” dei corsicani L’Alba è il testo, appunto, “i grilli”, composto di 3 distici, le cui parti vengono spalmate nei vari brani utilizzati che, mantenendo la loro identità e autonomia, danno vita a sottoinsiemi interconnessi. La finalità è offrire una panoramica della musica popolare della Corsica, tradizionale e rivisitata, il cui slancio creativo è favorito dalla sua posizione geografica e dalla sua storia singolare. Molte delle canzoni si ispirano a cantanti di cabaret emblematici del periodo pre-Riacquistu (movimento culturale apparso in Corsica negli anni ’70 del secolo scorso), quando la musica corsa ha cominciato a evolversi, pur rimanendo profondamente ancorata alle tradizioni musicali dell’isola. A questa categoria appartengono la traccia otto, “Figliola d’inchjurulò”, dal clima autunnale e melanconico; la traccia dieci, “Castighi d’amore”, in cui lo straziante suono della fisarmonica connota il canto disperato per la ferita amorosa; la traccia sedici, “I grilli di ferraghju”, un sereno paesaggio estivo rappresentato in questa song; la traccia diciassette “E più belle matine”, con un tranquillo e cantabile giro di basso su cui si stendono le voci, evoca spazi e silenzi. Ascoltando questo disco ho sentito la familiarità di un ritorno a casa, eppure la Calabria è molto lontana dalla Corsica, anche se geograficamente simile. Molti canti paraliturgici, narrativi e lirici di Mesoraca (il centro in provincia di Crotone dove ho a lungo operato), hanno caratteristiche simili a quelle presenti nell’album. Tra queste emerge il modo di cantare melismatico, diverso dal più conosciuto modo “alla napoletana”, e fatto da brevi guizzi che abbelliscono la melodia.
Anche la presenza larga del modo minore è una peculiarità che accomuna i due luoghi sonori. Certo il denominatore comune è sempre il Mediterraneo, le cui atmosfere si ritrovano nella traccia quattro, “I grilli”, nel tipico stile mediterraneo con intro strumentale e melodia all’unisono con il canto; nella traccia cinque, “Ombrilume”, altro tipico canto solistico con accompagnamento; nella traccia sei”, “A petra di Ghjacintu”, in cui ad accompagnare il canto all’unisono con l’oud è il ritmo della darabukka; nella traccia sette, “I grilli di luglio”, un canto libero con il violino in contrappunto.
Mi torna in mente anche che, mi è stato riferito, una confraternita corsa si è stabilita a Mesoraca nei primi del Novecento: di ciò resterebbe come testimonianza un comune e molto simile canto processionale dal titolo “Perdono mio Dio”. Atmosfere polifoniche paraliturgiche si ritrovano nella traccia tre, “Miserere” dove all’incipit solistico delle strofe risponde un coro maschile nello stile omoritmico accordale. Anche la traccia quindici, “Terzini guagnesi”, è un canto corale a cappella con tipica cadenza a tono intero, e la traccia nove “Paghjella”, che presenta un’interessante polifonia in cui la seconda voce ha una sua indipendenza, piuttosto che creare il falsobordone e poi l’interessantissima e suggestiva performance polifonica a cappella e a volte imitativa dal sapore molto antico della traccia diciotto, “U sognu”.
Negli anni 50 un folto numero di esperti boscaioli, sempre di Mesoraca si spostò verso la Corsica dove c’era un enorme bisogno di manodopera specializzata per una mastodontica opera di disboscamento. Molti di loro, come tanti a Mesoraca, erano anche abili cantori e suonatori. Circolava in quel tempo a Bastia una canzone molto popolare dal titolo “U trenu e Bastia” (ripresa in Toscana, ispirando anche Caterina Bueno). Gli operai mesorachesi riconobbero in questo canto la tematica dell’emarginazione mista alla rabbia di molti canti popolari locali. Impararono a cantarla e la portarono a Mesoraca durante i viaggi di ritorno delle vacanze. Così entrò a pieno titolo con diverse varianti nel repertorio del paese. Era stata scritta alla fine dell’Ottocento da Maria Felice Marchetti, una locandiera non vedente la quale ospitava
carrozze e carretti che spesso facevano tappa presso la sua locanda. Ma da quando fu costruita la ferrovia che passava davanti alla sua locanda, andò in rovina perdendo tutta la clientela e in seguito scrisse questi versi che lanciano anatemi contro il treno. Lo stile musicale è quello della tipica ballata corsa in minore e staccata in due tempi, di cui c’è grande traccia in questo disco. Ad esempio in “I grilli di Machjiu” dopo l’inizio libero, c’è una song monostrofica in minore con intermezzo strumentale. In “Di carne è d’osse” continua l’atmosfera, nel ritornello si aggiunge una seconda voce e nell’intermezzo un’improvvisazione della chitarra. Anche “Chì paese serà?” è una nostalgica ballata cantata da una suadente voce femminile che ricorda il fado. La successiva “Torna una volta” ha una voce maschile contrappuntata da una femminile, evoca tutto lo strazio delle partenze e dei ritorni, storia di ordinaria amministrazione in una terra isolata come la Corsica. “Un chjarasgiu” è un’anaforica ballata in due in uno stile tra il rebetiko e il fado. La traccia undici (solo declamata) riporta il brano “I gridda de luddu”, l’album si chiude con “U grillu”, che riporta il verso dell’insetto protagonista del disco al naturale.
Un lavoro di ricerca tra tradizione e innovazione di questa fantastica band corsa.
Francesco Stumpo
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