Fikret Karakaya, il direttore dell’Ensemble Bezmârâ, ha frequentato l'Accademia di Belle Arti e la facoltà di filosofia all'Università a Istanbul coltivando l’arte del kemençe, il piccolo strumento a forma di pera suonato con l’archetto mentre viene tenuto in posizione verticale.
Nel tempo, ha imparato a costruirlo, grazie alla collaborazione con i liutai del quartiere Göztepe. L’idea da cui è scaturito l’Ensemble Bezmârâ nel 1995 è nata quando Fikret Karakaya stava scrivendo un libro sugli strumenti musicali e, con il kemençe, per la stazione radio TRT, avrebbe voluto produrre un album che attingesse alle partiture scritte dal moldavo Dimitrie Cantemir, il figlio del voyvoda (governatore) della Moldavia che era stato inviato a Istanbul come ostaggio per garantire la fedeltà del padre e che lì visse tra il 1687 e il 1710 e dove prese il nome di Kantemiroğlu, divenendo un esperto suonatore di tanbur. Il suo personale sistema di notazione
(basato su lette), gli permise di scrivere una raccolta di 352 pezzi strumentali ottomani – 315 peşrev e 37 semâi – e un trattato teorico di accompagnamento. Patrocinato dall'Istituto francese per studi anatolici di Istanbul, il progetto è andato oltre i repertori trascritti da Cantemir e si è avventurato nella ricostruzione di strumenti perduti e, soprattutto, nel motivare colleghi musicisti a suonarli di nuovo. L’Ensemble Bezmârâ si è dedicato alla ricostruzione di strumenti musicali ormai desueti, basandosi su testimonianze iconografiche. E ha ripreso ad eseguire queste musiche antiche oltre cinque secoli attingendo anche alle trascrizioni di Wojciech Bobowski/‘Ali Ufukî Bey (1610? -1675). Dell’ottimo lavoro di questo ensemble aveva scritto per Blogfoolk Giovanni De Zorzi due anni fa in occasione della pubblicazione dell’album “Saray ve Musiki, Istanbul” (Turuncu, 2021). Il percorso musicale su cui ci guida Fikret Karakaya ci riporta al XVI secolo,
alle guerre ottomano-safavide che generarono contatti più stretti fra la musica persiana con quella ottomana e fecero emergere nel XVII secolo nuovi stili col risultato che vari strumenti, progressivamente, si modificarono o uscirono di scena: dal delicato mıskâl (il flauto di pan suonato da Tugay Başar in formazioni Bezmârâ precedenti) all’arpa çeng. Proprio quest’ultima è stata adottata da Fikret Karakaya che all’isola di San Giorgio a Venezia l’ha suonata in compagnia di İhsan Özer (cetra santūr), Kemal Caba (viella rebab), Serap Çağlayan (cetra kanūn), Furkan Resuloğlu (liuto kopuz), Ahmed Şahin (flauto ney), Kamil Bilgin (tamburo a cornice con sonagli daire) e Bekir Şahin Baloğlu ('ūd); quest’ultimo avrebbe dovuto suonare anche la versione “grave” dell’'ūd, il şahrūd, ma non è stato possibile, complice una corda rotta all’ultimo momento. Con questo ensemble Giovanni De Zorzi ha passato i mesi di maggio e giugno ad Istanbul, durante la preparazione del concerto veneziano che è stato dedicato al repertorio “Ajamlar:”, quello dei compositori persiani (e azeri) alla corte ottomana nel XVII e
XVIII secolo, selezionando dieci usul (cicli ritmici) fra le decine trascritti da Bobowski, Cantemir e, intorno al 1730, dal derviscio mevlevi Nayi Mustafa Kevseri. Ha preso così corpo il secondo appuntamento della serie di concerti “Maqām beyond Nation” (https://www.maqamproject.uk/), il progetto di ricerca condiviso da Ca’ Foscari con la School of Oriental and African Studies (SOAS, University of London). Il pubblico è accorso numeroso e ha risposto entusiasticamente alle esecuzioni di uno stile unico che rimanda a passi di danza, ma anche ai gesti cortesi che ci si aspetta a corte, permettendo un magnifico equilibrio fra corde sollecitate dall’archetto, pizzicate e percosse, flauto e percussioni, mettendo a confronto diversi usul con preferenza per i duyek, kebir e sakil in sintonia (come scrive De Zorzi nel prezioso e dettagliato programma di sala) con l’idea di musica nell’estetica persiana e ottomana: giza-i ruh (nutrimento dello spirito).
Alessio Surian
Foto e video di Alessio Surian
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