A cinque anni dall’uscita di “Tutto si dimentica” torna il cantautore Rocco Rosignoli con un nuovo disco di canzoni proprie. “Giglio tigrato” contiene nove canzoni, nove frammenti di memoria pubblica e privata, personale e politica. A unirle c’è un filo rosso, quello della guerra, del conflitto, così presente e invadente nel tempo che ci troviamo ad attraversare.
In apertura troviamo “Lettera a Staten Island” (“Ce l’avevo col re, e con l’imperatore, col duca, col giovin signore, col Papa e col suo temporale potere e il mio lui l’ha visto, i miei fulmini e i tuoni, le grandini espulse da gravi fusioni di piombo che oppongo al potere divino, ma adesso, confonde il chinino, i miei misti ricordi di vecchio”) che racconta dell’amicizia tra Giuseppe Garibaldi e Antonio Meucci con ritmi tra flamenco e tango, sottolineati dalla chitarra classica e dalla fisarmonica, “Giglio tigrato” (“Ed ora come un’illusione svanita al risveglio che afferri e che va, il giglio tigrato rimane di guardia, al confine tra il mondo di qua e qualcosa, se c’è, al di là”) ha richiami medioevali e tinte Irish con il violino in primo piano. “Carta Minerva” (“La carta minerva va bene per prendere appunti nel nostro ateneo, che è un porto di mare e la gente cammina tra i banchi di questo pireo, le statue neoclassiche lungo gli androni sorridono altere ai dottori, le braccia mozzate che aspettano ancora la calce a lenirne i dolori”) è claustrofobica, sporcata di elettrico, dedicata e vagamente ispirata alla figura di Antonio Gramsci, “Carola” (“Ma oggi è Natale, tu non speri più, oggi il tuo mondo è tradito, ogni tuo gioco è rimasto lassù, non ti sarà restituito. Sei uscito di casa e dal cuore in giù, tutto quanto era fermo nel tempo, una nebbia d’in strada saliva su, seminata in silenzi nel vento”) è cullata dal mandolino, dall'armonium e dagli arpeggi di chitarra classica in un'atmosfera natalizia. “Andati via” (“Ora cerco tra i tuoi canti ma ritrovo solamente quel disagio giovanile corsaresco che ormai sopporto raramente e solamente se a cantarlo son le labbra di quei giovani poeti, morti male, morti presto”) è incalzante, macchiata da un’acida chitarra elettrica, “Trincea” (“Questa trincea di cappotti verdastri, un dormitorio di nidi e disastri, compagni stretti nel sonno a un fucile, strappati al campo, alla stalla, al fienile, strappati al tempo, strappati all’amore, in questo palmo di terra si muore, fammi sentire il tuo seno sul petto, fammi tornare alla vita che aspetto”) è una canzone d’amore anomala e di grande intensità. “Sera di rose” (“L’alba il tuo capo infiora di gocce di rugiada, con la tua bocca, rosa mia, indichi a me la strada, scende la notte e c’è un vento di rose che con la mia voce canta già un canto d’amor per te”) è la traduzione italiana di “Erev shel Shoshanim”, classica canzone in lingua ebraica del 1957, che si ispira direttamente al testo del Cantico dei Cantici, “Giulia” (“Son ore che scivolan calde e protese ad un nuovo paese che parte di qua, si sceglie una sorte, si avanzan pretese, si prova a capire cos’è Libertà”) è un valzerino delicato, parla della nonna Giuliana, che il 18 aprile del 1948 votò per la prima volta in Italia. In chiusura troviamo la cruda “10 e 25” (“Passano i treni, non più di stato, le stragi restano e nel calore di quell'agosto indimenticato che di Bologna ha squarciato il cuore, lavato il sangue da quei binari, resta invisibile il filo nero che lega lo stato coi suoi sicari, che chiama i suoi i crimini col nome “mistero”) dedicata alla strage di Bologna del 2 agosto 1980. Rosignoli da vero artigiano suona tutti gli strumenti presenti nel disco (chitarre, violini, mandolini e mandole, fisarmonica, armonium e tastiere) e canta con voce profonda testi intrisi di passione, di resistenza e anche di cultura. Il suo è un disco da vero compagno, controcorrente, lucido, attuale e militante, a conferma che la vecchia (in questo caso il termine è inteso in maniera nobile) canzone d’autore è viva e lotta insieme a noi.
Marco Sonaglia
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