Considerato una delle figure che maggiormente ha contribuito allo sviluppo tecnico e stilistico della chitarra acustica flat-picking, Beppe Gambetta ha alle spalle una ormai lunga ed articolata carriera difficile da sintetizzare in poche righe, ma basta sfogliare le pagine del suo volume autobiografico “Dichiarazioni d’amore”, edito nel 2022 dai tipi de Il Piviere per rendersene conto. Quel viaggio intrapreso ormai diversi anni fa, lo ha condotto a dividersi costantemente tra Italia e Stati Uniti, mettendo in fila tour, concerti, dischi e stage didattici, ma soprattutto a collaborare con artisti come Doc Watson, Tony Trischka, Gene Parsons, Norman Blake e David Grisman e Béla Fleck. Parallelamente ha dato vita a quella fortunata esperienza che è Acoustic Night, momento prezioso di incontro per tutti gli amanti della chitarra acustica, documentata dal disco dal vivo celebrativo del decennale “Live At The Teatro Della Corte – The First 10 Years”. È difficile, così, tratteggiare in poche righe il suo profilo perché si corre il rischio di dimenticare qualche passaggio fondamentale, ma vale la pena sottolineare come nell’ultimo decennio ci abbia consegnato album di grande pregio come “Round Trip” con Tony McManus del 2015 e “Short Stories” del 2018 e il più recente “Where The Wind Blows/ Dove Tia O Vento” che lo vedeva, per la prima volta, nelle vesti del cantautore, un nuovo punto di partenza, arrivato doppo anni di intense ricerche sulla tradizione musicale americana come su quella italiana e di intersezioni con la canzone
d’autore. A distanza di quattro anni da quest’ultimo lo ritroviamo con “Terra Madre”, quindicesimo album in carriera, nel quale ha raccolto otto brani, che nel loro insieme intrecciano racconti, ricordi e suggestioni legati alle terre madri e al grido di aiuto che da esse ci giunge, ma è anche la rivendicazione del diritto al sogno come fuga da una realtà quotidiana sempre più dura. Abbiamo raggiunto il chitarrista genovese, attualmente negli Stati Uniti per un lungo tour, per farci raccontare questo nuovo lavoro.
“Where The Wind Blows/Dove Tia O Vento” che ti vedeva per la prima volta anche nei panni di autore. Come si è evoluto in questi anni il tuo approccio alla composizione?
L'evoluzione del mio modo di comporre è frutto delle esperienze vissute e di ciò che negli anni ho studiato e ricercato, deriva da quello che ho nel cuore e voglio esprimere e raccontare. Un tempo lo facevo solo con la musica, oggi lo faccio scrivendo anche canzoni. La pratica del comporre per me è complicata, a differenza di alcuni grandi compositori che riescono ad aprire il rubinetto dell'ispirazione “a comando”. Paul Simon, ad esempio, era solito recarsi nel suo ufficio a Manhattan, componeva e scriveva testi per otto ore, per poi smettere e rientrare a casa! Nel mio processo compositivo, le idee migliori arrivano inaspettate, devo saperle raccogliere e curare come una piantina fragile che bisogna aiutare a crescere.
Qualche idea arriva mentre sto guidando verso il prossimo concerto, altre nel dormiveglia, costringendomi a brancolare nel buio per trovare carta e penna (sono un uomo all'antica...), altre sono scritte su tovaglioli di carta perché arrivate al ristorante. Mi ritrovo spesso con un mare di piccoli appunti da riordinare e mettere in relazione, ma so che ci sono artisti illustri che lavorano nel mio stesso modo: Woody Allen sparge sul letto appunti e promemoria di ogni tipo prima di iniziare ogni sua produzione, almeno da questo punto di vista sono in buona compagnia.
Ci puoi raccontare com’è nato “Terra Madre”?
I motori principali nella nascita di un nuovo lavoro discografico sono la grande passione per la creazione artistica, il piacere di condividere la produzione con mia moglie Federica (musicista e principale critica del mio lavoro) e l'affetto per il pubblico che continua ormai da molti anni ad appassionarsi alla mia arte aspettando con ansia e curiosità le nuove composizioni. C'è anche sicuramente il motivo pratico dettato dalla mia vita “on the road” che mi chiede di rinnovare costantemente le mie proposte, il mio spettacolo e i temi a cui è legato.
Quali sono le identità e le differenze tra “Terra Madre” e i tuoi dischi precedenti? Come si inserisce questo nuovo album nella tua discografia?
“Terra Madre” è il quindicesimo album della mia carriera e la sua identità cambia rispetto ai 14 lavori precedenti: non più canzoni autobiografiche (come in Where The Wind Blows), ma tante folksongs in lingue diverse che esprimono il grido di dolore che da diverse terre madri si leva e fa sperare e sognare un mondo diverso da quello attuale. La differenza fondamentale tra “Terra Madre” e i lavori precedenti è che per motivi diversi (primo fra tutti il cambio di proprietà della mia casa discografica canadese) abbiamo deciso (io e Federica) di gestire in maniera autonoma e indipendente questo nuovo lavoro, chiudendo il cerchio con l'inizio della mia carriera, ai tempi del mio primo LP "Dialogs", che fu completamente autoprodotto (1989). Autoproduzione significa che ti viene a mancare il supporto e l'organizzazione della casa discografica su cui hai sempre contato e devi sopperire con più lavoro, più risorse economiche personali e più passione e amore per quello che fai, mettendo in campo ogni piccola risorsa a tua disposizione. L'album è comunque distribuito in Italia e in Europa da Egea Music e si può trovare su tutte le piattaforme di download e di
streaming (con preferenza per Bandcamp che rispetta di più il lavoro degli artisti).
Come si è indirizzato il tuo lavoro in fase di arrangiamento e costruzione musicale dei brani? Quali chitarre hai utilizzato per questo disco?
I brani sono tutti fondamentalmente costruiti usando la forza delle folksongs; quindi, nascono e si reggono su tappeti ritmici e intrecci armonici nati sulla chitarra acustica che hanno forti attinenze con le ritmiche popolari. Sono forme musicali senza tempo da cui è possibile ricavare una creatività sempre rinnovata e rinnovabile: che siano ritmiche dolci o serrate, riffs incalzanti e a volte decontestualizzati, o profili melodici che ne richiamano altri sedimentati nella coscienza collettiva senza esserne copia precisa. Spendo molto tempo nella ricerca della sonorità acustica adatta a sviluppare la canzone, mi ispiro a Joni Mitchell che per ogni nuova idea muoveva l'accordatura e la tonalità finchè non trovava il suono giusto su cui far crescere la canzone. Nel precedente album, ad esempio, per la canzone “Dove Tia O Vento”, ho registrato sette demo con sette accordature e tonalità diverse prima di trovare quella giusta. In “Terra Madre” ho sfruttato al massimo il mio “parco chitarre ”. Oltre alla mia chitarra acustica principale (R Taylor), ho usato la chitarra baritona (Antonello Saccu), la chitarra bouzouki (Heiner Dreizehnter), una chitarra très cubana accordata molto alta, un banjo
chitarra (Deering), la chitarra arpa (Antonello Saccu), una chitarra slide, la chitarra 12 corde (Albert & Mueller) e una chitarra “preparata” ovvero con corde modificate e accordatura preparata per un suono particolare.
Ci sono accorgimenti tecnici particolari che hai utilizzato per “Terra Madre”?
Ogni pezzo è frutto di ricerca e sperimentazione meticolosa, soprattutto con le chitarre “preparate” che mi hanno permesso di creare sonorità speciali e tappeti sonori impossibili da creare con accordature standard. Per la “title track” del disco (che narra della fuga di una coppia di rifugiati) ho dovuto registrare i suoni dei passi dei fuggitivi alle sette del mattino, quando l'erba era ancora ghiacciata e il suono dei passi risultava più pungente nella registrazione. L'accorgimento tecnico più importante è stato quello di “riscaldare” i suoni di tutte le tracce singole attraverso un passaggio su macchinari analogici fatto dal grande tecnico del suono Rob Griffin (Wayne Shorter, Chick Corea, ...) a Panama City.
Dal punto di vista narrativo e poetico quali aspetti hai cercato di esaltare in questi nuovi brani?
Sicuramente la narrazione ha il comune denominatore del “diritto al sogno”, non in senso autoconsolatorio, ma inteso come sprone a cambiare questo mondo oggi sul ciglio del baratro. Ad esempio, il sogno della nuova vita oltre il confine dei due rifugiati in fuga nel brano “Terra Madre” o le parole di Fabrizio De André che si affaccia a guardare il mondo di oggi in “Un Panino”, o il coro dei nativi americani che festeggia il perdono in “Dark Yellow Thread” o la nota di tenerezza del brano finale “Season Of Suspension” dove si sogna e descrive un periodo di riflessione. La poesia spesso viene anche da accostamenti timbrici diversi, come chitarra acustica e corno francese nel brano di pace “Per Poco o Per Niente”, o il duetto tra chitarra e armonica a bocca sempre in “Un Panino”. Io trovo un aspetto poetico anche nell’antica emozione creata dalla successione ragionata di brani, come capitoli successivi e necessari di un libro. Un approccio volutamente in “direzione ostinata e contraria” alla logica dei “singoli” creati per diventare tormentoni radiofonici, far parte di importanti playlist di Spotify o da promuovere solo ed esclusivamente sulle piattaforme, sul web e sui social media.
Dal punto di vista concettuale il titolo del disco rimanda alla tradizione perenne di Gea, la Grande
Quando ho scelto il titolo “Terra Madre“ ho semplicemente pensato alle sofferenze della nostra madre terra e a come poterle descrivere con le mie canzoni. Analizzando il lavoro finito a posteriori la tradizione e la sacralità di Gea, la Grande Madre si adattano perfettamente a quelli che sono i temi trattati nel disco. Sicuramente c'è un senso di sacralità in molte parti dell’album, dove si parla di perdono, preghiera, pentimento, redenzione, solidarietà, incontro, condivisione, gratitudine. In particolare, la canzone “Per Poco o Per Niente” è un mantra di quarantotto verbi in terza persona plurale che mette a fuoco il contrasto tra l'atroce malvagità della guerra contrapposta allo splendore e la luce della pace e ha una dimensione che si avvicina alla preghiera.
La dimensione dell’incontro ha caratterizzato da sempre il tuo percorso artistico e anche in questa nuova avventura non sono mancati ospiti ed amici tra i grandi delle corde americani da Tim O’ Brien a David Grisman, ci puoi raccontare di queste collaborazioni?
Alcune collaborazioni sono di vecchia data e riportano a meravigliosi progetti del passato (ad esempio, con Dan Crary avevo registrato l'album live “Synergia”, con David Grisman avevamo prodotto l'album “Traversata” sui virtuosi italoamericani dei primi del secolo scorso e anche con Tim O'Brien avevamo già lavorato insieme). Con questi artisti è stato bellissimo ritrovarsi dopo tanto tempo e creare. Stimolanti sono anche le collaborazioni che derivano da nuovi incontri e dal desiderio di sperimentare nuove sonorità, ad esempio scrivere le parti per corno francese e lavorare con il cornista Carlo Oneto ha generato un suono per me totalmente inedito. Anche la scelta di lavorare con Travis Book, giovane contrabbassista della jam band The Infamous Stringdusters, ha dato freschezza alla potenza ritmica dell'album. Conoscevo già Joe Bonadio, percussionista progressivo della scena di New York e la sua creatività è stata una garanzia mentre il tocco di classe da grande artista è arrivato con l'armonica di Howard Levy che ho contattato e conosciuto appositamente per poter registrare “Un Panino”.
Da dove è nata la scelta di inserire nel disco “Saint James Hospital”, uno standard ripreso in ambiti musicali differenti dal jazz al folk. Quanto c’è da scoprire musicalmente in questo brano?
“Saint James Hospital” è una canzone folk del repertorio di Doc Watson che viene spesso confusa con “Saint James Infirmary”, uno standard Jazz Blues dal tema simile. Ho scelto di riarrangiare e registrare questa canzone come ulteriore tributo al mio grande mentore Doc Watson per i cento anni della sua nascita. La canzone parla del pentimento e della redenzione di un cowboy morente e ha una storia particolare perché proviene dalle ricerche sul campo di Alan Lomax che nel 1933 ebbe il permesso per la prima volta nella sua attività di registrare la musica dei detenuti di un carcere del Texas. La dolcezza della linea melodica contrasta piacevolmente con la condizione e il contesto in cui fu registrata e Doc se ne rese conto e la adottò (è proprio vero che dai diamanti non nasce niente...).
“Sit And Pick With You” ci porta nei territori del country con la complicità di Tim O’Brien. Com’è nato questo brano sull’amicizia?
Il brano rappresenta una nota di speranza e canta alcune cose belle che nessuno ci può rubare. Durante un recente tour in California ho ricevuto visite inaspettate di alcuni vecchi padri della musica (molti di loro oggi ultraottantenni). Tutti sono saliti ospiti sul mio palco e hanno suonato con il loro stile ancora limpido e impareggiabile. Questo mi ha ispirato la canzone “Sit and Pick With You” in cui ho deciso di cantare il fascino intramontabile della musica dei padri e più in generale la gioia dell'incontro intorno all'arte. Ho scritto la canzone nello stile “vintage country” come fosse un super hit degli anni Trenta e il motivo sembra piacere moltissimo anche ai giorni nostri. La presenza impareggiabile di artisti come Tim O'Brien ai duetti della voce, David Grisman al mandolino, Dan Crary alla chitarra baritona ha aiutato il successo della canzone che attualmente appare ai primi posti in cinque classifiche indipendenti americane (# 1 nelle Folk DJ charts del mese di Giugno!!!) Questo mi rassicura perchè prova che, nonostante i difetti che conosciamo, in America esiste una straordinaria scena indipendente di grandi appassionati di musica che premia la qualità senza parzialità o pregiudizi, dove uno straniero come me, senza etichetta discografica o agganci particolari a un solo mese dall'uscita del CD può essere riconosciuto per la qualità della sua proposta.
Ci puoi raccontare com’è nata “Dark Yellow Thread”, uno dei brani più intensi del disco?
“Dark Yellow Thread” è ambientata nelle Great Plains del Colorado, a sud delle dune di Sand Creek dove, inaspettatamente, la scontata sparatoria riparatrice del tradimento è sostituita dal perdono grazie all'insegnamento di un vecchio saggio nativo americano. Mi sono sempre piaciute le ballate “dark” nello stile di Richard Thompson e in questa canzone mi sono ispirato alla figura di Black Kettle, un capo nativo americano pacifista sfuggito al massacro di Sand Creek e ucciso anni dopo dal Generale Caster durante la battaglia di Washita in Oklahoma. L'dea del prevalere del perdono è la chiave della storia a lieto fine di questa mia prima ballata ispirata al “Vecchio West”.
Ho pensato che, oltre a suonare la musica di De André, sia bene ispirarsi alle sue parole e parlare di lui raccontandolo con nuove canzoni. Ho scritto “Un Panino” nello stile di “Valzer Per un Amore” ma, al posto dell'assolo di tromba, ho scelto l'armonica magica di Howard Levy, uno dei grandi interpreti mondiali dello strumento. Ho immaginato Fabrizio De André che si affaccia dalle nuvole a osservare il mondo di oggi e inorridisce. Far parlare Fabrizio De André è molto difficile, naturalmente! Alla fine, ho immaginato un Fabrizio De André ironico e provocatorio, che non ama l'industria del tributo e allibisce ascoltando la versione della “Canzone di Marinella” del duo Meloni/Salvini!
La figura di De André ritorna anche in “Mis Amour”, antica canzone provenzale che il cantautore genovese aveva inciso coi Troubaires De Coumboscuro…
La scelta di “Mis Amour” rimanda ai temi trattati nelle mie Acoustic Nights, grandi concerti di inediti incontri tra artisti internazionali che da 24 anni organizzo e produco con mia moglie Federica al Teatro Nazionale di Genova. Nel 2023 il tema era: “Lingue Madri”, minoranze linguistiche raccontate da un nativo nordamericano (Aysanabee), un francofono canadese (François-Felix Roy) e un cantante Tabarchino del sud della Sardegna (Matteo Leone). Tra le varie storie di minoranze linguistiche mi è
sembrato importante inserire anche il Franco Provenzale Medioevale di Coumbouscuro (dove pare solo 35 persone continuano a parlare l'antica lingua), con una versione della canzone più rappresentativa: “Mis Amour” appunto. Nel 2025 le Acoustic Nights giungeranno alla venticinquesima edizione (15,16,17 maggio 2025). Stiamo lavorando al tema e al cast e sicuramente sarà una grande festa a cui tutti sono invitati a partecipare.
“Terra Madre” ha già debuttato dal vivo. Com’è stata la risposta del pubblico?
Gli intrecci acustici di “Terra Madre” si sono rivelati molto complessi da “ridurre” all'arrangiamento per una sola chitarra e una voce. Ho lavorato tantissimo in questa direzione e la risposta del pubblico alle prime presentazioni è stata il regalo più bello, in particolar modo le canzoni più lente e intime sono state capite anche da chi non parlasse la lingua in cui sono state scritte. La buona notizia è che il mio pubblico continua a riempire le sale da concerto: sono sicuro che alla fine il mondo verrà salvato dalle persone che escono di casa per stare insieme agli altri e godere della bellezza dell'arte!
L'uscita di un nuovo album impegna moltissimo e prevede almeno un intero anno intenso di lavoro e di concerti. Oltre a ciò, sto seguendo il percorso del mio libro “Dichiarazioni d'Amore”, recentemente tradotto e pubblicato anche in lingua inglese, sto producendo musica per alcuni documentari RAI e per un lavoro teatrale sul Beat Hotel di Parigi. L'unico progetto che sembra non andare in porto è quello di una bella vacanza! Ho la fortuna di non poter andare in pensione e di dover continuare ad essere attivo e produttivo, andrò avanti anche se il mio mestiere sembra in estinzione e anche senza possedere un cellulare (ok, uso sempre quello di mia moglie). L'idea è quella di continuare a ricercare, riportare in vita, insegnare la bellezza che viene dal passato muovendomi verso il futuro con nuova musica e canzoni, cercando di essere mentore per le nuove generazioni. Chi mi segue e vuole sostenermi lo può fare anche attraverso la piattaforma Patreon, dove contraccambio il sostegno con lezioni di chitarra, trascrizioni, reportage di viaggio e altri contributi di ogni tipo https://www.patreon.com/BeppeGambetta
Beppe Gambetta – Terra Madre (AMSC/Egea, 2024)
Quando nel 2020 Beppe Gambetta pubblicò “Where The Wind Blows/Dove Tia O Vento” ci colpì molto la sua originale cifra stilistica che coniugava la sua straordinaria tecnica strumentale ad un songwriting nel quale convergevano la profonda conoscenza della tradizione musicale americana, ma anche le sue radici ben piantate in Italia e, in particolare, nella sua Genova. Un esempio lampante di questa alchimia era proprio la canzone che dava il titolo al disco e quella direzione intrapresa apriva per il futuro nuove strade da percorrere. Non ci sorprende, dunque, ritrovarlo nei panni del cantautore con “Terra Madre”, il suo nuovo album nel quale ha raccolto otto brani, di cui sei originali e due riletture, registrati tra il Red House Studio di Stockton, NJ e lo Sweet Creek Studio di Ottsville, PA. Ad accompagnare Beppe Gambetta (chitarra acustica, chitarra slide, bouzouki, tres, chitarra 12 corde, chitarra baritona, banjo, glockenspiel e voce) in questa nuova avventura discografica sono, in gran parte dei brani, Trevis Bock (contrabbasso) e Joe Bonadio (percussioni), a cui si aggiungono gli ospiti FJ Ventre (basso), Tim O’Brien (voce), David Grisman (mandolino), Howard Levy (armonica e piano) e Carolo Oneto (corno francese). Immergendoci nell’ascolto si scopre come ogni brano sia legato all’altro, come le pagine di un diario, come le tessere di un mosaico, come i capitoli di un libro, componendo una sorta di concept-album, nel quale incrociando stili musicali e lingue differenti, il chitarrista genovese evoca il grido di speranza e di dolore che leva dalla Terra, rivendicando la necessità di sognare non per fuggire dalla realtà, ma per resistere alla tempesta del vivere quotidiano e proseguire il viaggio. Il suono dei passi sulle foglie di un bosco aprono il disco e ci introducono alla title-track, una toccante country ballad, venata di atmosfere dark, dalla duplice lettura in cui Gambetta, nel raccontare di una coppia in fuga verso un futuro migliore, sembra riflettere sull’ineluttabilità della morte, sognando di essere “già al di là, oltre quel muro che ci aspetta, oltre quel muro che cadrà”, ma è buio nella notte e il timore lo assale, ma sente vicina sua madre che pregherà per lui. Si prosegue con la splendida rilettura della dolente “Saint James Hospital” di James Baker dal songbook di Doc Watson, il cui arrangiamento del cantautore genovese rimanda alle atmosfere del border sound di certi dischi di Ry Cooder e Tom Russell. Se la gustosa ballad dedicata all’amicizia “Sit and Pick with You”, primo singolo estratto, vede la partecipazione di Tim O’Brien alla voce e di David Grisman al mandolino, la successiva “Per poco o per niente” è un intima riflessione sulle contraddizioni del mondo, sul bene e sul male che lo pervadono, ma anche sull’importanza delle azioni che rimangono per sempre e che lasciano un segno. La murder ballad “Dark Yellow Thread” è ambientata nelle Grant Plains in Colorado e racconta il desiderio di vendicare un tradimento a cui si oppone il ricordo delle parole sagge di un vecchio capo indiano che lo aiutano a vincere l’odio (“I defeat hatred insted”). Il ricordo di Fabrizio De André di “Un panino”, già pubblicata come singolo qualche anno fa e qui in versione remixata, è una riflessione amara su quanti hanno speculato e speculano sull’eredità del cantautore genovese (“ogni dentista in pensione vuole fare un tributo a De André”), mentre il miglior ricordo sarebbe “fermarsi a comprare un panino al povero Cristo che abbiamo visto in via Prè”. La figura di Faber appare in controluce anche nella superba versione di “Mis Amour”, ballata franco-provenziale in cui si canta di un amore contrastato e che Fabrizio De André incise con Troubaires De Coumboscuro. L’elegante strumentale “Season of Suspension” complete un disco di assoluto fascino e bellezza che non mancherà di appassionare quanti vi dedicheranno un attento ascolto. beppegambetta.bandcamp.com/album/terra-madre
Salvatore Esposito
Foto di Max Valle (3), Giovanna Cavallo (1, 3, 4, 5, 6)