Il vero ritorno dei friulani Fale Curte risale a un paio di anni fa, quando pubblicarono l’album “Muiart”, recensito in queste pagine nel quadro di una ricostruzione storica e di un’analisi comparativa del repertorio del quintetto. Dico comparativa perché quell’album era stato preceduto, una ventina d’anni prima, soltanto dall’esordio discografico. E, alla luce di questo, non era sfuggita la direzione, formalmente diversa, che i brani stavano percorrendo: più ponderata, più articolata, più etnojazz. Questo nuovo lavoro è una raccolta di brani – come si evince dal titolo. E, per questo, si configura come un’antologia del percorso della band. Ma rappresenta soprattutto un nuovo corso della sua scrittura e della sua produzione, a partire dalla voce di Lino Straulino (voce e chitarra acustica). Chissà, forse anche un’ulteriore ripartenza, ingenerata da un procedimento che ci sembra di grande efficacia. Perché, come si può leggere qua e là nelle recensioni e nelle note dell’album, Fale Curte ha messo le mani su un repertorio che copre un lungo arco temporale, regolandolo attraverso un lavoro di sistemazione, pulitura, riscrittura. E riconsiderandone non solo la genesi, ma soprattutto la forma, in relazione ai parametri con cui musicisti e musicofili hanno a che fare oggi. Insomma, l’operazione – per nulla nostalgica, direi, e molto sperimentale – ci riconsegna una formazione musicale che ha (e ha avuto) molto da dire: da un lato nella scelta di un assetto strumentale che - visto con gli occhi dell’inizio degli anni Novanta - potrebbe suonare ogni genere, dall’altro perché i brani raccolti hanno tutti un profilo elegante, in cui si riflettono tanti elementi basilari e, allo stesso tempo, innovativi. L’album ricompone, di fatto, una selezione di brani che traspirano l’esperienza e l’immediatezza di un esordio, ma che, allo stesso modo, abbracciano un contesto musicale caleidoscopio. In questo quadro emerge, prima fra tante, la scelta del dialetto. Che si accompagna a un approccio che (per fortuna) ha radici salde e rami floridi, ma che - in un contesto sonoro di sperimentazione - abbraccia una scrittura “emozionata” e un’esecuzione molto diretta. Come ci dice Bruno Cimenti (chitarra elettrica), infatti, i brani originali sono stati registrati in analogico su nastro e pubblicati in cassetta. La nuova veste digitale ne arricchisce probabilmente la brillantezza del suono ma, soprattutto, amplifica quell’immediatezza, quell’urgenza della lingua, quell’approccio corale che somma i blocchi armonici in modo diretto e piacevolmente semplice. Tutto questo sembra avere a che fare con un’urgenza più generale, però, nel quadro della quale il canto dialettale ha sì un ruolo primario, ma ha anche la funzione di mezzo, di codice, di registro. E, per questo, va interpretato in relazione a un contesto più articolato. Si tratta dell’urgenza del racconto, del parlare, rappresentando una posizione organica in uno scenario molto mutevole e (inutile dirlo) spesso omologante. La formazione che imbraga tutto il bagaglio – che ci sembra richiamare molte suggestioni diverse: in generale più cantautoriali e, in più di qualche caso, progressive – ha un assetto sufficientemente tradizionale: basso elettrico (Lorenzo Bianchi Quota), batteria (Franco Stocco), flauto (Gianni Cattaino). E questo basta a immaginare gli echi di qualche soluzione affascinante e riconoscibile (“No si po’ vivi plui”), il legame più esplicito con il patrimonio musicale tradizionale (“Done Marì”), le scelte più energiche e sicure (“L’union dai Pais da mont”), ma anche gli andamenti più dolci e le esecuzioni più profonde (“Cjauans”).
Daniele Cestellini
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Friuli
Complimenti a Lorenzo e ai suoi colleghi
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