Bert van den Bergh – A lullaby for suffering (Inbetweens Records, 2023)

“Le due spade rappresentano la battaglia che dobbiamo combattere contro noi stessi o gli uni contro gli altri, la battaglia tra generazioni ma naturalmente anche quella in amore. Questi sono temi ricorrenti nelle liriche di Leonard Cohen, come lo è Dio, qualsiasi dio.” 
Bert van den Bergh 
Giunge dall’Olanda questo intimo omaggio musicale a Leonard Cohen, da parte di Bert van den Bergh, il cantautore che la prima volta che si esibì pubblicamente, decise di farlo interpretando Suzanne. In passato ha cantato Bertold Brecht e ha tradotto in dialetto limburghese Jacques Brel, ora giunge al suo secondo tributo a Cohen dopo quello dell’anno scorso e sempre con i medesimi musicisti: Tessa Kersten (voce), Ton Clout (chitarre) e Hanz Martenz (pianoforte e tastiere). Le registrazioni sono state effettuate dal vivo (tranne una), nel febbraio di quest’anno presso gli studi Trypoul Recording di Neerkant, nella regione storica del Brabante settentrionale olandese. 
La stratosferica statura delle canzoni di Leonard Cohen impone oramai come primo metro di valutazione di un tributo, la scelta dei pezzi da parte dell’interprete. Quella di Bert van den Bergh è un po’ spiazzante; infatti, in questa sua “ninnananna per chi soffre” compie tre soli, ma assai estesi, balzi nel tempo. Quasi si trattasse di riassumere la durata di una vita in una sola giornata, passa dall’alba degli esordi di fine anni Sessanta del secolo scorso, al mezzogiorno di metà anni ottanta per chiudere col tramonto delle ultime incisioni. Leonard Cohen cresciuto con gli infantili insegnamenti chassidici del nonno rabbino, ha sentito infinite volte la voce del cantore ebraico (chazan) risuonare in sinagoga ma forse l’avere vissuto anche nell’isola di Hydra ha contribuito un po’ alla sua tardiva e sofferta decisione di trasformarsi da scrittore in cantautore. Nella cultura greca il concetto di poesia incorporava anche quello di musica, la citarodia è stata per molti secoli l’arte poetico-musicale più diffusa nel Mediterraneo e i citaredi con la loro cetra erano cantori, compositori e autori diversi secoli prima di trovatori e menestrelli. Attraevano sia donne che uomini mantenendo sovente inalterata una ambiguità di fondo poiché la lingua greca antica non ammetteva una forma che distinguesse in termini precisi il maschile dal femminile. Di solito, inoltre, riservavano grande cura estetica al proprio abbigliamento. Cetra a parte, queste caratteristiche sono tutte ben presenti anche nella forma e nella sostanza dell’opera di Leonard Cohen, molto più di quelle che caratterizzano le moderne rock star. È indubbio che la sua immacolata e acustica parte musicale col tempo abbia un po’ smarrito l’iniziale innocenza e purezza di suoni ma certo questo non vale per le profondità di dialogo nei testi. Cohen, poeta per indole e novello citaredo per scelta, ha goduto della fortuna che favorisce una mente preparata quando è in possesso di una cultura incisa nell’anima. Ahimè, ora che lui non c’è più, ci si può solamente immergere nella scia che ne è rimasta e nelle continue simbologie che si celano tra le righe delle sue preziose liriche. In “A lullaby for suffering” le singole donne di Cohen hanno grande rappresentanza, da Suzanne a Marianne a Nancy. La prima immortalata presso la suggestiva “Notre Dame De Bonne Secours” in quella che oggi è la Old Montréal, di fronte al fiume San Lorenzo. La chiesetta risalente al 1655 con all’interno le miniature di barche sospese e “Our Lady of the Harbour”, Madonna coperta d’oro che riflette l’incrocio con i raggi del sole ed è statua che posta proprio in direzione del mare, sembra accogliere i marinai a braccia spalancate. La bella e giovane Suzanne Verdal, giovane, imprendibile e derelitta appare al poeta come garanzia di un ordine pacifico del mondo, all’interno di una canzone che annuncia l’impenetrabilità del maschile con il femminile. Unita a lei è l’immagine di questo Gesù-marinaio, la divinità che, agli occhi di Cohen, cerca di divenire un tramite tra gli amanti. E poi troviamo Nancy Challies, l’amica ventunenne di Montréal suicida nel 1961 a causa del dispiacere per un bambino avuto da una relazione occasionale e dato in adozione dalla sua bigotta famiglia onde evitare scandali. La storia vera della povera ragazza con la “pietra semi-preziosa” del suo fragile stato psichico in preda a sofferenza da bipolarismo, chiusa nella “casa del mistero” di una mente depressa e incapace di comunicare. La religiosità stratificata sempre presente nei testi di Cohen prosegue con “Coming Back To You” che si rivolge a un dio che ha le sembianze della propria madre, riprendendo passi dei Vangeli di Matteo e Luca. Quindi con “Heart With No Companion” che possiede la compassione buddista nei confronti di chi vive nelle sabbie mobili argillose dove, nonostante gli sforzi, né argento né vetro potranno proteggerlo dal perdersi. La canzone “Dance Me To The End Of Love” è invece un sortilegio vestito di ritmo klezmer che descrive l’orrore delle agghiaccianti esecuzioni musicali da parte di un’orchestrina di ebrei internati, costretti a suonare per accompagnare i loro compagni introdotti nei forni crematori. Quella musica classica, nell’intenzione folle dei carnefici nazisti, aveva lo scopo di rappresentare la bellezza della fine della loro vita. Le parole mettono in scena la colomba, simbolo di salvezza raggiunta per l’Arca di Noè e le tende che rimandano alla tradizione ebraica che vuole i matrimoni celebrati sotto un baldacchino di stoffa, simbolo della casa “nomade” che gli sposi costruiranno assieme. Per Cohen la fine dell’amore ha il significato di conclusione della vita e la canzone incoraggia a portare avanti l’amore fino all’estremo sacrificio, la vita finisce solo quando termina il sentimento di umanità come avvenne nell’Olocausto. Al contrario, la parola stessa “danzami” inverte l’azione a opera dell’oggetto verso il soggetto, sconvolgendo la grammatica. L’improprio transitivo al posto del corretto intransitivo rafforza il significato assoluto di danzare fino all’interno di corpo e intimità dell’anima, affinché il ballo fonda i due esseri in uno solo. La celebre “Hallelujah” inizia descrivendo la musica, l’esperienza che più si avvicina al mistero della brama umana, più delle singole parole che non sono ciò che rappresentano, non potendo esprimere l’inesprimibile. Termini come “pane” o “vino” non sono mangiabili o bevibili. Nella musica invece, come nella poesia, forma e contenuto sono pressoché la medesima cosa e valgono esattamente ciò che significano. Re David-Leonard è il protagonista di questa canzone, l’artista prediletto dal Signore, che grazie alle proprie qualità è capace di suscitare amore nei cuori altrui e di ascendere a vette maestose. Ma è un re profondamente perplesso perché nonostante sia il prescelto dal Divino non è riuscito a fare a meno di seguire la propria umana bramosia. Seppur nella devozione questa canzone è la preghiera umana di chi conosce la bellezza quanto l’inganno, il fondale melmoso che sta dietro l’apparenza: l’alleluia è quello sacro ma ugualmente quello spezzato. E’ cosa normale nel mondo ebraico localizzare la presenza divina in altri simboli in grado di conferire sensazioni estatiche facilmente individuabili, come accadeva d’altronde anche in alcune regioni dell’antica Grecia. Infine “You Want It Darker” da cui viene estrapolato il titolo di questa raccolta di van den Bergh (“...c’è una ninna nanna per chi soffre e un paradosso a cui dare la colpa...”). La resa assoluta, fiduciosa ma profondamente irrisolta di chi come Giobbe, non ha compreso affatto il senso della sofferenza o della nuvola scura da dietro la quale la voce parlò a Mosè nell’Esodo 19. E a porre la domanda sul perché è nuovamente la voce del milione di anime sacrificate alla follia nazista. Siamo al cospetto della reale inutilità di qualsiasi tattica umana, dell’assoluta mancanza di potere decisionale, della capitolazione totale come unica possibilità di scelta. La canzone di Cohen recita, con consapevolezza disarmante, le parole che decretano e accettano che oramai per lui non esistono più condizioni di scambio o di fuga. Come la natura, della quale è parte e copia fedele, anche l'animo umano possiede silenzi e voci dalle forze nascoste, fatte di luci, musiche, ombre e nebbie vaghe. Tocca anche alle illusorie canzoni abbellire il paesaggio, quelle di Cohen lo hanno fatto senz’altro contenendo in più leggi eterne e sogni mistici di una intimità abbacinate. Il loro misticismo giunge direttamente dalla profondità della Torah. La natura del canto ebraico è sempre stata scritta e intonata in forma di preghiera, almeno fino alla distruzione del Secondo Tempio e all’inizio della prima Diaspora Ebraica, quando venne interdetto suonare musica durante le funzioni religiose. Ma pure le Sacre Scritture contengono in sé la più grande canzone d’amore che sia mai stata pensata, il “Cantico dei Cantici” biblico, anche se la religione l’ha voluto intendere come duetto d’amore secolare tra Dio e la Sua sposa, ovvero il Popolo Eletto d’Israele. Leonard Cohen quando si sedeva e affrontava il linguaggio intimo che compone la sua poetica, non dimenticava mai la tensione morale religiosa dell’ebraismo e che lo nutrì sin da bambino e questo ha senz’altro affascinato molti cuori.


Flavio Poltronieri

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