Davide Van De Sfroos – Manõglia (BMG/MyNina, 2023)

Negli ultimi anni, Davide Van De Sfroos ha indirizzato il suo percorso artistico verso la ricerca continua di nuovi territori da esplorare sia in studio con album come “Goga e Magoga” e “Maader Folk”, sul palco con la significativa esperienza di “Synfuniia” con l’orchestra sinfonica, e le diverse alchimie strumentali dei live “Quanti Nocc. Tour De Nocc/Van Tour” e “Live 2022”. Sarebbe stato molto semplice innestare il pilota automatico e continuare a ricalcare classici come “La balèra”, “La curiera” e “Pulènta e galèna frègia”, invece ha scelto di guardare oltre, rilanciare, magari rischiando, ma senza mai essere uguale a sé stesso. Parallelamente alle canzoni pubblicate nei dischi, tante altre sono rimaste nel cassetto perché troppo personali o introspettive o ancora legate all’ambito familiare, canzoni da cantare agli amici, ma che, ad un certo punto, hanno preso il volo. È nato, così, “Manõglia” (“magnolia” in dialetto laghée), album che raccoglie undici brani inediti che, nel loro insieme, rappresentano i rami di un grande albero, dalle radici ben salde, sotto il quale sedersi e lasciarsi avvolgere dalla poesia dei “tormenti autunnali” del cantautore laghée, incorniciata da sonorità minimali che rimandano ora alla world music, ora al folk psichedelico di fine anni Sessanta, ora ancora alla amata roots music. Abbiamo raggiunto Davide Van De Sfroos, durante una passeggiata in una mattina di un caldo inizio di ottobre, e con lui abbiamo parlato di questo lavoro che ci svela un lato nuovo della sua poetica.
 
“Manõglia” arriva dopo un lungo tour che è stato documentato dal disco dal vivo “Live 2022” e raccoglie brani che avevi nel cassetto da un po’….
Sto camminando, proprio sotto la Magnolia e, quindi, sono anche contestualizzato, diciamo. Questo nuovo disco è stato una sorpresa anche per noi perché, come si può ben capire, è spuntato in un momento dove in realtà nessuno se lo aspettava e nessuno aveva nemmeno spinto perché uscisse. È stato come una sorta di fungo che, da un giorno all’altro, ha fatto partire le sue spore, facendo nascere l’idea di raccogliere queste undici canzoni in un Lp per pubblicarlo, poi, nel mese di ottobre. “Manõglia”, però, non nasce d’istinto, né rapidamente, perché è legato ad appunti, scritti intimi, canzoni personali che avevo in archivio.  

Sotto il profilo musicale, il disco si caratterizza per arrangiamenti minimali, quasi in chiaroscuro…
Per queste canzoni abbiamo scelto la carta, dilatata poi in tutte le canzoni, del minimalismo con arrangiamenti essenzialmente acustici per lo meno dal punto di vista delle ritmiche e la totale assenza di chitarre elettriche, batteria e via dicendo. C’era il desiderio di usare delle corde, dei suoni anche di altrove, cioè di andare a obbedire ai sogni e alle visioni esotiche di certi testi e di certi brani che erano lì pronti soltanto per prendere il volo. A parte un paio di ballate legate al nostro genere tradizionale che rimandano al folk americano come “La ballata del mascheraio” e “Zia Nora”, troviamo subito anche una sterzata verso il gipsy jazz con “Forsi” dove la chitarra manouche e clarino sembrano rimandare ad un film in bianco e nero alla Buster Keaton o di Charlie Chaplin, o alla Woody Allen. Ci si trova, poi, in mondi occupati interamente da pianoforti, per saltare addirittura nella world music con “Shandeme” che è stata suonata con tre strumenti tradizionali turchi e come una sorta di mantra sembra venire da altri luoghi come il Tajikistan o l'Azerbaijan. Poi abbiamo canzoni molto minimali come “Ankainkoo” o la conclusiva “Foglie al vento” che è il sequel de “La preghiera delle quattro foglie” che era presente in “Akuaduulza”. C’è anche un momento ambient come la stessa fine del disco dove ci sono corde, suoni, suggestioni, voci, fantasmi, quasi dei mantra. L’album è fatto di una pasta unica che però si appoggia in modo diverso sulle
latitudini delle emotività di ciascun brano. 

Come si è indirizzato il lavoro in studio?
Sono partito da una scelta ben precisa: entrare in studio con le canzoni, chiudermi dentro e registrare i brani per sole chitarra e voce con questo gigantesco e fantastico microfono che avevamo a disposizione. Dopodiché, tutti insieme, ascoltando i brani, abbiamo cominciato a mettergli i colori giusti, aggiungendo, togliendo, o addirittura trasformandoli radicalmente, se necessario. Alcune volte ho scelto di aggiungere il pianoforte e togliere la mia chitarra, in altri casi sono rimaste le strutture originarie dei brani. Abbiamo lavorato sullo scheletro delle canzoni e intorno ci abbiamo costruito tutto quello che ci sembrava essere importante, interessante, quello che ci facesse vibrare. Ad un certo punto si può eliminare qualcosa, variarne la struttura o ricalcarla ma, di fatto, è un disco fatto per conto mio, nel modo più live possibile per essere arricchito con gli altri strumenti. “El giuvanonn (il becco del merlo)”, per esempio, è stata arrangiata da Taketo Gohara che l’ha portata in un mondo molto più country, mentre la canzone gemella “Crisalide (Le ali del falco)” rappresenta un altro mondo più etereo e volatile. Alessandro Gioia che aveva già arrangiato i miei dischi del passato, si è occupato di “Foglie al vento” e “Manõglia” ed è stato lui a dare quel finale incredibile che sembra non finire mai. 

Al disco hanno collaborato diversi strumentisti. Quanto è stato importante il loro contributo?
I miei vari compagni di viaggio hanno proposto conoscenza, amici, persone che potevano intervenire nel momento in cui cercavamo un determinato suono. C’è Francesco Piu dalla Sardegna, poi Lorenzo Bonfanti, ultimamente visto ad X-Factor, e alcuni amici hanno fatto i cori. Abbiamo avuto la possibilità di ricreare il sound di New Orleans, abbiamo inserito il clarinetto e la chitarra manouche, suonata da un esegeta. Questo è stato il disco della libertà, un lavoro nato e costruito in studio con i brani che prendevano man mano forma e li registravamo. Era da molto tempo che volevo fare questa cosa e questo era il momento giusto per togliermi questo capriccio. 

Rispetto ai tuoi lavori precedenti, questo nuovo disco ha un taglio più poetico, introspettivo. Insomma, è un po’ il tuo “Anothers Side” …
Questo mi fa molto piacere e concordo con quello che dici perché, come dire, è Davide che scende per un attimo dalla baraonda del palco, si siede in veranda e canta dei brani che erano rimasti lì. Cose che canti quando sei tra te e la tua ombra, tra te e alcuni amici. Del resto, già da qualche tempo, qualcuno mi aveva chiesto il perché non incidessi qualcuna di queste canzoni. Rispondevo che erano cose mie, cose da condividere con gli amici. Lo sappiamo bene che una canzone nel momento in cui la canti non può essere solo tua. Scatta subito il desiderio di spostarsi e di andare verso dove deve, cioè verso chiunque la voglia ascoltare.

In questo album c’è più di un addentellato con i tuoi libri…
Nelle mie canzoni c’è sempre stata una connessione con i miei libri. In particolare, questo pugno deriva dai luoghi, dai tempi, dai climi, dalle caratteristiche anche naturali degli scenari, che sono nei libri e anche in altre canzoni. “Manõglia” è, come si usa dire adesso, uno spin-off collaterale a tanti percorsi già battuti dal punto di vista sia della scrittura, che dei dischi precedenti. Non mi stupisce il fatto che possa ricordare i pantheon dei vari luoghi o personaggi che popolano il mio immaginario perché è da lì che derivano tutte le mie storie. Per di più in questo disco ci sono anche due personaggi di famiglia “Zia Nora” e “El Giuvanonn”. Ho parlato sempre di personaggi, ma non sono stato poi così aperto nel raccontare storie legate alla mia famiglia. Non c’è niente di male nel farlo perché gli ridai una seconda esistenza e questo, seppur a livello immaginario, ci fa stare bene, solo che deve arrivare il momento giusto per fare questa cosa e quel momento è arrivato quest’anno quando abbiamo deciso di pubblicare questo disco. 

“El Mekanik” ha una costruzione particolare….
"El Mekanik" è forse il brano più anomalo rispetto a tutto il resto del disco perché si muove su tre strutture e non nasconde una certa psichedelia acustica, delicata, quasi impercettibile che rimanda alle sonorità
degli anni Settanta e, per citare un nome ingombrante, mi viene in mente, per esempio, Tim Buckley quando usava quei suoni scampanellanti, quei vibrati. Io me lo sono ritrovato qua dentro ed è stato uno sforzo non esagerare, cadendo poi in qualcosa del periodo dell’LSD perché sarebbe diventato un po’ troppo visionario.

Come si è evoluto il tuo songwriting negli ultimi anni, in relazione ai tuoi ascolti e alle tue letture…
Ci sono delle persone che hanno dilapidato il patrimonio giocando d’azzardo, comprando droga o andando a donne. Io l’ho fatto con i dischi, i libri, i film e i taccuini. Non ho mai fatto distinzione tra generi, o meglio l'ho fatta, ma non ho mai evitato, quasi nessun genere. Sono un po' allergico al reggaeton e, diciamo, al trenino del samba di Capodanno, ma per il resto la musica brasiliana è bellissima. Ovviamente, essendo onnivoro, ho sempre mescolato Mozart, Clash, Sex Pistols, Bob Dylan, John Coltrane, la musica elettronica tedesca, quella ambient o quella del deserto della California. Così, mi sono ritrovato sempre di fronte ad un priapismo, chiamiamolo così, ad una esigenza quasi di libertà di composizione, pur rimanendo in quell’ambito che era il mio folk rock. Quante volte ci siamo misurati con jazzisti, con bluesmen, con la musica classica e persino con quella sinfonica. Gli ascolti contano tantissimo, perché sono quelli che ti danno la percezione di quante tinte musicali puoi avere a disposizione poi, però, c'è un altro ascolto che è l'ascolto, ancora oggi per me molto importante, dei miei amici dell'osteria che hanno ottantadue, ottantatré, ma anche novantadue, novantacinque anni, gente che ha più anni di mia madre e con i quali ancora canto le canzoni di una volta e con cui mi devo confrontare per non perdere il contatto con quello che era molto presente quando sono nato. I mie due ascolti principali sono, insomma, quelli della musica e quelli della gente che ha voglia veramente di raccontare. 

Quale sarà la risposta da parte del tuo pubblico a questo disco?
Questa è una cosa che non mi turba più di tanto. Sono stato per primo io a dire che questo album non
vuole sgomitare per arrivare a lottare con coloro che stanno occupando in questo momento le classifiche, perché non è un mio problema. Io so però che le persone che mi seguono, e non sono poche, hanno sempre desiderato avere a che fare con un “Another side of Davide”. Queste canzoni è da tanto tempo che le volevano sentire in questo modo. Coloro che avranno voglia di aprire un po' la finestra, di lasciare entrare queste foglie al vento, secondo me lo ameranno particolarmente.
Quelli che non sono portati per un ascolto di questo tipo non fanno la differenza: va bene così. Non mi interessa che uno debba ascoltare per farmi un favore. Mi piacerebbe sapere che qualcuno lo ascolta e si emoziona perché il suo compito doveva essere questo, la sua alchimia, il suo modo, la sua struttura doveva servire proprio per questo. Del resto, poi alla fine dei conti, sappiamo benissimo oggi come oggi il disco serve più come biglietto da visita per fare i concerti, piuttosto che come prodotto da vendere o roba del genere. So che andrò in giro per tutto il mese, per tutta Italia, in negozi di dischi, negli ultimi barricaderi store che si ostinano ancora a vendere i vinili e sarò lì felicemente a presentarlo. Credo che a qualcuno riuscirò ad arrivare.

Come saranno i concerti con cui presenterei “Manõglia”?
Ci sarà un tour teatrale che partirà dal Teatro Arcimboldi di Milano il 29 febbraio, una data molto instabile, molto magica. Da lì sarà bello farlo pulsare, mescolandolo a brani del passato come “40 Pass” che potrebbe benissimo stare insieme a questi nuovi brani. Saranno dei concerti dove la farà da padrona una dinamica un po’ più acustica e raccolta.


Davide Van De Sfroos – Manõglia (BMG/MyNina, 2023)
L’idea di realizzare un disco dalle atmosfere acustiche Davide Van De Sfroos la accarezzava da tempo, sollecitato anche dai giornalisti e dal suo pubblico che immaginava una antologia con i brani riarrangiati in stile “Nebraska” di Bruce Springsteen. Nel cassetto, intanto, si accumulavano appunti, bozzetti, canzoni, scritte più per se stesso che per essere ascoltate dal pubblico, canzoni introspettive in cui riflessioni personali sulla vita e sul mondo e ricordi lontani si intrecciano a storie e ritratti familiari. Quelle canzoni “in penombra”, però, chiedevano di vedere la luce e quest’anno il cantautore laghèe ha sentito che era il momento giusto per riprenderle in mano e, lavorandoci in studio, hanno cominciato a prendere forma e sostanza, grazie anche al contributo di diversi strumentisti che si sono alternati al suo fianco. 
Ha preso vita, così, “Manõglia”, album che raccoglie undici canzoni in chiaroscuro, vibranti di lirismo e dal tratto più intimo che, rispetto ai precedenti, si muovono su coordinate poetiche e sonore differenti, lontano sia dal turbo folk degli inizi sia ai suoni di matrice americana degli ultimi anni. L’albero di magnolia del titolo in laghèe racchiude un forte simbolismo legato all’esigenza di rinascita e dal bisogno di ripartire guardando il mondo con occhi diversi. Ogni brano affonda le proprie radici in ispirazioni e mondo sonori differenti, ma ascoltate nel loro insieme compongono un'unica grande suite in cui tutto fluisce in modo spontaneo, con quella libertà dettata dalla necessità comunicativa della poesia. Ad aprire il disco è “La ballata del mascheraio”, ispirata al lavoro dei maestri mascherai di Schignano, e metafora di una riflessione sui vari volti della vita, la cui melodia giocata sul dialogo tra il banjo di Francesco Piu e le chitarre di Paolo Cazzaniga ci riporta alla mente le pagine migliori dei dischi di John Prine. Si prosegue con il gipsy jazz in bianco e nero dell’ironica “Forsi” in cui Van De Sfroos gioca sulle indecisioni della nostra epoca, e nella quale spicca l’elegante tessitura sonora con la chitarra manouche di Denis Alessio che dialoga con il clarinetto di Arturo Garra e il violino di Angapiemage Galiano Persico. Se nella toccante ballata “Crisalide (Le ali del falco)”, dominata dal crescendo del pianoforte di Maurizio Fasoli e delle corde di Angapiemage Galiano Persico, si canta il desiderio di librarsi in volo per guardare il mondo dall’alto e riflettere sulla condizione umana, nella title track, una vecchia magnolia diventa l’occasione per tornare ai ricordi del passato e riflettere ancora sulla vita e sul tempo che passa. “La canzone che non c’è” ci porta nei territori dell’alternative-country desertico, raccontandoci della ricerca dell’ispirazione e di quella canzone ancora da scrivere, regalandoci l’interplay serrato tra le chitarre di Paolo Cazzaniga, la fisarmonica e il marranzano di Andrea Cusmano e il banjo di Francesco Piu. La preghiera sciamanica alla Madre Terra “Shandemé” vede protagonista Andrea Cusmano (flauti dolci, chitarra classica, duduk, ney, bağlama, cura, oud, oboe languedoc e cori) e Silvio Centamore (darabukka, semi percussivi, effetto tuono) che costruiscono un landscape sonoro di rara suggestione in cui si libra intensa la voce di Davide Van De Sfroos. Il tenero ritratto familiare di “Zia Nora” con il suo ritmo zydeco fa e la pianistica “Ankainkoo” in cui il cantautore laghèe ci racconta di chi come un eroe affronta la vita giorno dopo giorno. Ancora i ricordi di famiglia affiorano ne “El giuvanonn (il becco del merlo)”, una ballata acustica per archi, pianoforte e corde che ci conduce verso il finale con il folk psichedelico di “El mekanik” dedicata a chi a fronte di una vita non facile alle spalle aiuta gli altri a rendere migliore la propria esistenza e la splendida elegia poetica in musica di “Foglie al vento” che con l’evocativo finale ambient chiude un album di rara intensità che rappresenta certamente uno dei vertici della discografia di Davide Van De Sfroos. Da ascoltare con attenzione dalla prima all’ultima traccia, magari servendosi di ottime cuffie per coglierne ogni sfumatura e ogni dettaglio sonoro. 
Il disco è non disponibile in streaming, ma solo in cd e in Lp.


Salvatore Esposito

Foto di Alessio Pizzicanella (1, 2, 3) e Fabrizio Cestari (4, 5, 6, 7)

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