A distanza di sette anni da “Goga e Magoga”, Davide Van De Sfroos torna con “Maader Folk”, nuovo album di inediti, nel quale ha raccolto quindici brani che, nel loro insieme, compongono una articolata istantanea del suo immaginario poetico. In questo senso, significativa è la scelta del titolo che rimanda alla “madre folk” consolatrice e benevola apparsa in sonno al cantautore laghée per riportarlo alle origini della sua musica e del suo mondo e, nel contempo, proiettarlo verso il futuro con l’esplorazione di nuovi territori sonori, con la complicità del produttore Taketo Gohara. Van De Sfroos ci invita, dunque, al viaggio fra le pieghe più intime di sé stesso, che si fanno, come in un perfetto incastro narrativo, storie universali, di un uomo per altri uomini. Dal punto di vista compositivo, l’album conferma tutta la potenza evocativa e la bellezza del suo songwriting che si sostanzia in uno stile quasi pittorico in grado di ritrarre con vivido realismo le storie che racconta, il tutto incorniciato da arrangiamenti che incorniciano ed esaltano le liriche in dialetto laghèe. Hanno preso vita, così, brani di grande spessore come latoccante “Agata”, commovente omaggio alle donne sostenuto da uno struggente pianoforte e da una delicata sezione di archi. Uno dei vertici del disco è “Il Mitico Thor” racconto senza retorica della vita di un muratore, impreziosito da un raffinato arrangiamento in cui arpa e tamburo colgono l’essenza tuonante del brano, contrappuntato da un dolce violino e da eleganti fiati dalle intenzioni norrene. Gustose sono, poi, “Reverse” con i suoi fiati quasi mariachi, le nuances blueseggianti di “Fiaada”, la splendida “Tramonto a sud”, vero e proprio atto d’amore verso il Sud Italia, colorato da una fortissima carica evocativa, che sgorga, purissima, già dalla scrittura. E ancora, i colori scuri di “Hemm imparaa”, gioiellino in cui è evidente la mano di Taketo Gohara, produttore del disco, segnato da una profondissima atmosfera country- blues, con le svisature di una chitarra elettrica a squarciare l’incessante pattern ritmico. Che dire di “Oh, Lord, vaarda gio” cantata in duetto con Zucchero la cui voce si sposa perfettamente con quella di Davide Van De Sfroos, ricamando un impasto vocale perfetto, fra graffiati e timbri scuri, ma anche fra dialetto laghèe e dialetto emiliano: un piccolo capolavoro di folk di razza purissima. Si esplorano anche sonorità country-blues declinate in chiave acustica con chitarre e violino in primo piano, sostenute dalle trame intessute da fisarmonica e chitarra. La cosa più affascinante racchiusa da quest’album sono le storie, pervase da una densa tensione poetica. Si pensi, ad esempio, a “Reverse” e al disilluso realismo dei versi: “Palombari dentro bicchieri troppo profondi/Dirottatori di altalene fragili/Tavula imbandida e tuvaja senza memoria/Buca che parla e che cagna anca una nigu” (“Palombari dentro bicchieri troppo profondi/Dirottatori di altalene fragili/Tavola imbandita e tovaglia/senza memoria/ Boccache parla e che morde anche una nuvola”), o alla già citata “Fiaanda” in cui Van De Sfroos canta “Siam bisce in damigiana, g'hemm fàcc in agroduulz/La noia in salamoia, paròll che pàren s'ciàff/Il giorno ha il suo cartello con scritto che fa bello, lo mangeremo tutto col cucchiaio e col coltello/Ferma la tua scarpa sólta foe dell'ascensuur/Vita cerbottana che te spara adòss i uur” (“Siamo bisce in damigiana, abbiamo facce in agrodolce/ La noia in salamoia, parole che sembrano schiaffi/ Il giorno ha il suo cartello con scritto che fa bello,/ lo mangeremo tutto col cucchiaino e col coltello/ Ferma la tua scarpa salta fuori dall'ascensore/ Vita cerbottana che ti spara addosso le ore.”). Il tema del viaggio, presenza costante nella poetica del cantautore comasco, ritorna nel commovente ritratto di un “integralista del viaggio diventato vagabondo” di “El Vagabuund” (“Vagabuund de sempru che pò mai fermàss,/cun't el foech al cüü e cun la prèssa in bràsc,/ pruunt a beev d'un fiaa tüta la distànza,pruunt a tussì per spüdàala foe” - “Vagabondo da sempre che non può mai fermarsi,/con il fuoco al culo e con la fretta in braccio,/pronto a bere d'un fiato tutta la distanza,/pronto a tossire per poi sputarla”), commovente ritratto di un “integralista del viaggio diventato vagabondo”. Brani come “Goccia di onda” (“Una guta de unda scura e una guta de unda ciaara/ Fiada el foemm del falò de ieer e pizza el dumann che se prepara/s'cepa la roesa prema che spuung, roba el prufoemm prema che scapa/ Te cerca el rimorso cun scià la sua fiuunda fass mea vedè che altrimenti te ciapa” - “Una goccia di onda scura e una goccia di onda chiara/Respira il fumo del falò di ieri e accendi il domani che si prepara/ rompi la rosa prima che ti punga, ruba il profumo prima che scappi/Ti cerca il rimorso con la sua fionda non farti vedere che altrimenti ti prende.”) e “Guanto Bianco” (“La lüüs soe la muntàgna l'è una stèla parchegiaa/ dael giàzz in soe la riiva el giüga cui sò spècc/la mülattiera scüüra la parla dei mè pàs/spianeti senza nòmm i henn dree a burlàmm in brasc”- “La luce sulla montagna è una stella parcheggiata/il ghiaccio sulla riva gioca con i suoi specchi/ la mulattiera scura parla dei miei passi/ pianeti senza nome mi stanno per cadere in braccio”) guardano, invece, al rapporto tra uomo e natura, permeate da una concezione quasi panista del mondo che ci circonda. “Maader Folk” è, dunque, il disco più compiuto della produzione di Davide Van De Sfroos, un album forse non immediato come i precedenti ma vibrante di radici, passione e amore. Una enorme storia collettiva, grondante di umanità e pulsante di vita.
Giuseppe Provenzano
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