Ad un anno dalla pubblicazione dell’eccellente “Goga e Magoga”, Davide Van De Sfroos torna con “Synfuniia”, disco che raccoglie una selezione di brani tratti dal suo repertorio riarrangiati dal Maestro Vito Lo Re ed incisi con la Bulgarian National Radio Simphony Orchestra. Si tratta di un lavoro di grande forza evocativa che esalta la dimensione narrativa e cinematografica dei brani del cantautore laghée, consentendo all’ascoltatore di scoprire tutte le sfumature poetiche dei testi. Abbiamo intervistato Davide Van De Sfroos per farci raccontare come è nato questo progetto, senza dimenticare un approfondimento retrospettivo sul rapporto con la musica tradizionale e l’evoluzione del suo songwriting.
Come nasce “Synfuniia”?
“Synfuniia” più che da una gestazione personale è arrivato come un dono quasi piovuto dal cielo perché non conoscevo il maestro Vito Lo Re prima che lui si presentasse con questa idea. Oltre ad essere un direttore d’orchestra è anche un mio fan e secondo lui diversi brani del mio repertorio si prestavano ad arrangiamenti sinfonici, così mi ha proposto una scaletta di brani e mi ha chiesto se andasse bene. Ho detto subito di si. Poco tempo dopo mi ha fatto ascoltare l’arrangiamento di due brani con un’orchestra per farmi capire come si sarebbe indirizzato il lavoro, e dopo aver provato ad aggiungere la mia voce, ho capito che non sarebbe stata una cosa astrusa. Questo lavoro avrebbe funzionato e poteva essere una bella esperienza. Il maestro Lo Re ha così cominciato a lavorare sui vari brani su cui poi ho aggiunto la mia voce.
Com’è stato registrare con un orchestra sinfonica?
E’ stato molto interessante tanto dal punto di vista emotivo quando da quello musicale perché per la prima volta le canzoni sono state cantate senza chitarre e senza gruppo, ma si reggono sul tappeto sonoro dell’orchestra. Mi sono trasformato quasi in un narratore delle mie canzoni e la musica è diventata quasi una colonna sonora. Questo disco non è dunque una collaborazione tra orchestra e band come nel caso dei Deep Purple o Metallica o tutti gli altri musicisti che hanno fatto questo tipo di esperimento, ma è molto più simile al lavoro fatto da Peter Gabriel, il quale ha usato solo voce e orchestra. Ho dovuto cavalcare questa struttura apparentemente più complessa ma che mi ha dato più possibilità di apertura ed elasticità. Sono riuscito a stare in equilibrio sulla ritmica ed allo stesso tempo mi sono lasciato andare come espressività, quindi da un punto di vista della resa mi sono trovato molto bene.
Come avete scelto i brani?
La scaletta dei brani è stata inizialmente proposta dal maestro Lo Re, e abbiamo ne abbiamo spostato solo un paio, ma sostanzialmente andava bene, perché lui aveva in mente già la visione di ogni brano. Lui mi ha spiegato ogni brano ed io sono riuscito a capire come voleva indirizzare il lavoro, di alcuni avevo una percezione e mi aspettavo quello che poi è arrivato, per altri non ho avuto la possibilità di afferrare subito quello che sarebbe successo ma poi ho compreso tutto quando ho ascoltato gli arrangiamenti e sono stato favorevolmente colpito.
Quanto è stato importante riscoprire la dimensione narrativa e cinematografica dei tuoi brani attraverso gli arrangiamenti dell’orchestra?
Incidendo questo disco, più della dimensione narrativa, ho riscoperto la dimensione cinematografica di questi brani. Non l’avevo però dimenticata perché sono stati sempre una sorta di cortometraggi avendo un inizio ed un epilogo, mentre in altri casi addirittura prevedevano un azione cinematografica. Tutto questo riletto ed arrangiato con la Bulgarian National Radio Symphony Orchestra, specializzata in colonne sonore, mi ha consentito di riscoprire una visionarietà simile a quella di un certo cinema, e questo tanto nei brani movimentati come “Yanez”, “Il Duello” quanto in quelli più lenti, meditativi ed onirici. Questo è stato un grande regalo perché ogni tanto bisogna provare a cambiare scenario per riscoprire quello che magari si era dimenticato.
In “Synfuniia” manca uno dei brani più lirici del tuo repertorio e forse quello che meglio si sarebbe adattato a questa dimensione sinfonica, ovvero “40 Pass”. Come mai?
E’ strano anche che non ci siano anche altre ballads che si sarebbero prestate molto, però ovviamente se cominciavamo a fare il conto degli esclusi, avremmo dovuto pubblicare un disco quadruplo ed è già stato molto costoso e complesso fare questo lavoro. Certo hai ragione ci sarebbe stato molto bene, e non è escluso che in qualche modo forse in acustico con il pianoforte possa essere portato nei due concerti che faremo, perché sappiamo benissimo la valenza di questo brano. La verità è che è strutturato già in modo classico con il pianoforte che aggiungere tutta l’orchestra sarebbe stato forse superfluo, come ne “Il Cavaliere Senza Morte” che è il brano che forse ancor di più ha qualcosa di lirico, ed anche in quel caso forse questo lavoro sarebbe stato inutile. Il maestro Lo Re ha preferito basarsi su brani che nessuno si sarebbe aspettato in questo arrangiamento sinfonico.
Tra i brani più sorprendenti nell’arrangiamento sinfonico c’è senza dubbio “Aquadulza”…
L’arrangiamento di “Aquadulza” ti fa pensare alle onde del lago, quindi ci stà anche quella. Dal punto di vista della sorpresa si ha certamente un capovolgimento di scenario, ma non si resta delusi perché questi arrangiamenti ti fanno vedere il brano sotto un'altra luce. E’ chiaro che questi arrangiamenti non sono nati per fare il paragone con l’originale perché quelli resteranno tali e non saranno cambiati, queste sono versioni diverse, momentanee per fargli fare un giro con un vestito differente.
Oltre ai due concerti in programma, ci sarà anche un tour con l’orchestra sinfonica?
Un tour no perché è un po’ improponibile dal punto di vista logistico e dei costi. Sulla carta l’esperienza finisce qui. Il disco esce quasi a Natale e a questo seguiranno i due concerti. Poi ripartirò in tour in chiave molto folk, nel tentativo di ritornare a casa, alle origini, al roots, a quel genere che mi ha portato fortuna con brani come “La Balera”, “La Ninnannana del Contrabbandiere”, “De Sfroos”, e “La Curiera”, quei brani legati a quello spirito del territorio, alle atmosfere dell’osteria, alle leggende del lago, alle storie raccontate sottovoce tra camini e stanze da letto. Dopo tutti questi viaggi, queste contaminazioni sonore, Davide Van De Sfroos ha l’esigenza di tornare a casa sua, e lo farà con un tour molto folk che si terrà tra l’inverno e la primavera.
Facciamo un passo indietro nel tempo. Qual è il tuo rapporto con la tradizione della tua terra…
Il mio rapporto antropologico con la mia terra è stato veramente assoluto e capillare, basti pensare che ultimamente ho seguito il progetto di una docufiction “Terra e Acqua” durato tre anni e ho girato sul territorio con una piccola equipe cinematografica con un regista e un fonico e abbiamo fatto venti film di un’ora l’uno, e quatto guide cartacee. Ho fatto un percorso che può essere paragonato a quanto fatto da Lomax per il Blues dal punto di vista antropologico. Ho cercato di riscoprire leggende, modi di essere, modi di dire, luoghi di interesse storico, ma anche curiosità gastronomiche legate al territorio. La mia musica è molto legata al territorio perché parla di cose e zone che sono a me vicine, con il mio dialetto, quindi c’è anche un discorso cultural linguistico alla base, tuttavia lo capisce anche un cretino che non è una musica folkloristica che si identifica con il territorio perché qui non abbiamo una radice forte come ci può essere nella tammurriata o nella pizzica. La musica tradizionale del lago di Como non esiste in modo così nitido, ci sono le bande, ci sono dei canti, delle ninne nanne, i suonatori di flauto ma sono legate la folklore tradizionale. Io faccio una musica che è folk perché ci sono tutti gli ingredienti del genere a partire dai testi, però ho sempre spaziato nel rock, nel blues, nel reggae, nelle ballad, nello storytelling e in questo caso anche nella musica sinfonica. Ho fatto un lavoro molto personale dal punto di vista musicale, ovvero quello di trasferire nei miei brani quello che era la mia percezione musicale. E’ stato come una rete che passava e che attraverso gli anni ha trattenuto vari elementi. Ho passato una vita ad ascoltare tantissima musica anche d’oltreoceano, e sono rimaste impigliate in questa rete molte sfumature, ma la mia musica non è mai qualcosa di poggiato sulla sostanza folk.
Parlando del tuo processo creativo come nascono i tuoi brani in laghée?
Nel modo più naturale possibile, senza nessuna contraffazione o esagerazione. Non è che mi sono dovuto sforzare di tradurre in dialetto delle canzoni che avevo pensato in italiano. Le mie canzoni nascono in dialetto perché prendono vita da scenari e da circostanza che avvenivano in laghée. Se mai si può parlare di iperealismo, e non un lavoro cubista perché si va trasformare qualcosa in un altro modo per fare qualcosa di diverso dagli altri. E’ un modo quasi geloso di conservare le cose come sono nate, ed ogni passaggio superfluo sarebbe stato un alterazione.
Certo non c’è l’immediatezza della comprensione come potrebbe accadere con un testo in italiano, ma la mia musica non è un esperimento mainstream o da classifica. In Italia c’è un po’ di preconcetto sul dialetto e se si sente parlare di dialetto spesso si equivoca e si pensa che gli sta per arrivare un disco legato al tempo che fu, se non si ha la pazienza di ascoltare di cosa si tratta. Ho notato però che la gente ha apprezzato molto, e più era lontana dalla Lombardia e più vedeva questo esperimento come qualcosa di esotico, come del resto io mi sono esaltato ascoltando i gruppi della Sicilia, del Salento o ancora Fabrizio De Andrè che cantava in dialetto genovese. Dal punto di vista del risultato dire che sono molto soddisfatto perché tutti hanno capito, ed anche imparato queste canzoni.
Come si è evoluto in questi anni il tuo songwriting?
Per me è stato sempre importante scrivere canzoni che venissero tanto da dentro me quanto anche dall’esterno. La musica era il tappeto su cui camminavano le storie, e serviva che fosse semplice ed immediata. e quindi usavo il country come ne “La Balera”, “La Curiera”, “Nona Lucia” aggiungendovi anche una vena comica, un po’ anche scurrile. Poi però si cambia, si cresce, si invecchia e si comincia a pensare a cose più complesse, si inventano mondi, si percepiscono più cose, ci sono più incastri. Non sarei stato più credibile se avessi ignorato tutto questo, quindi era necessario cantarlo. Arriva anche il momento in cui capisci che dentro di te ci sono dei vulcani in eruzione, puoi avere momenti difficili, di depressione, di dubbio ed è necessario condividere anche questo con la tua chitarra. Diversamente ci sarebbe un tuo lato che stai forzatamente tarpando perché non gli consenti di dire quello che vuole dire.
Nel nome di una lealtà anche con me stesso, ho cercato di inserire anche dei testi che erano anche un po’ più visionari, come erano un po’ quelli del primo Bob Dylan o di quei cantautori dell’epoca che facendo uso anche di sostanze avevano visioni un po’ psichedeliche. Nei dischi “Pica”, “Yanez” e “Goga e Magoga” sono arrivato al massimo del garbuglio generale di quelle cose che mi attraversavano e piano piano sono riuscito a sciogliere il tutto, a farle uscire e a condividerle con l’ascoltatore. In “Goga e Magoga” ci sono dei brani come “Calderon de la stria” o “Mad Max” che sono colmi di simbologie, racchiudono visioni un po’ profetiche, un po’ poetiche e questo era essenziale che emergesse. Adesso che questa esperienza è stata fatta, mi sento più libero anche di fare cose differenti. Era un passaggio necessario, però l’ho fatto.
Un esempio di canzone simbolica è proprio “Il Calderon de la Stria” che hai ripreso anche in “Synfuniia”…
E’ un brano che nasce da un flusso mentale, come quando si fa la meditazione caotica o quando si va dallo psicologo. Ti metti lì e racconti un sogno, tipo “Motopsycho nightmare”, qualcosa che tu accendi e fai venir fuori questa tua visione, e ogni volta che la ascolti cominci a capire cose che nemmeno tu hai colto quando l’hai scritta. La capisci man mano come fossi un analista altro da te. Santa Klaus con in mano un Montenegro e poi c’è il ginecologo che dice non avrei fatto il ginecologo se avessi avuto fantasia, questa è una frase reale detta dal ginecologo che ha fatto nascere i miei figli una notte alle tre… Ci sono immagini taglienti come “la solitudine è un ventaglio complicato che devi saper aprire e chiudere con maestria” perché tutti vogliamo essere un po’ solitari ma non ci piace essere soli. Il limite è molto labile. E poi “hanno fatto naufragare anche le navi in bottiglia e qualcuno ne segue la scia”, perché sono riuscito a farmi perdere anche le cose che sembravano sotto controllo. La canzone “Chi” nasce allo stesso modo e quella frase “il figliol prodigo dell’aritmetica conta i minuti con le pose… questa è una frase rocambolesca ma il figliol prodigo della matematica sono io perché sono discalculico ancora tuttora. Ritorno al calcolo che ho abbandonato come un figliol prodigo per dare riposo al martello pneumatico del tempo che non mi lasciava più spazio. Arrivo anch’io a richiedere indietro i numeri che non ho frequentato o la scienza o la fisica quantistica che mi appasisone perché l’ho lasciata da parte da ragazzino ma ora ho bisogno di loro.
“Goga e Magoga” è un disco molto tuo, molto profondo che amplia la tua ricerca interiore cominciata in brani come “Long John Xanax” e “Donna Luserta”…
Sono due brani molto complessi, coraggiosi, è un outing in cui ho raccontato a cuore aperto i miei problemi. Io sul parlare d’altri, o canzoni sulla mia famiglia, o ancora sui sentimenti non mi piacciono perché metto in ballo gente che non sono me stesso. Non ho mai avuto mai grandi firewall nel parlare di me. Sto cantando e potete tranquillamente sentire come sto, diversamente cantiamo canzoni sulle pene d’amore o sulla casetta in canada. Se devo parlare del me stesso intimo lo faccio senza problemi, quando devo parlare delle relazioni con gli altri sono più protettivo. “Goga e Magoga” nella sua stessa struttura ha la simbologia di uno psicofarmaco perché ha otto brani ansiolitici e otto brani antidepressivi. Otto brani che servono per calmare e otto brani che martellano perché devono scuotere. Questa cosa l’ho capita mentre lo stavo facendo. C’erano dei brani che servivano a controbilanciare gli altri, e che tutti dovevano stare dentro questo disco. E’ un disco bipolare anche nella struttura, è un disco complesso che non tutti hanno capito, soprattutto quelli che si aspettano i brani più danzerecci lo hanno tenuto come una cosa aliena, strana, a tratti anche pericolosa. Non tutti sono riusciti a farsi coinvolgere da questo disco.
Vale la pena saper educare il proprio pubblico…
Non bisogna calar le braghe davanti a tutto perché sappiamo che va bene per tutti, altrimenti non avrei fatto il disco con l’orchestra, o questi ultimi tre dischi. Vale la pena essere onesti e credibili con se stessi e fare le cose che ti esaltano in quel momento, se le fai avrai sempre la voglia di stare sul palco. Se fai qualcosa perché devi farlo presto o tardi questa stanchezza si vedrà.
Spesso hai incontrato le musiche del Sud Italia, sfatando il mito di artista radicato al nord Italia. Cito in questo senso la tua partecipazione alla Notte della Taranta dove hai cantato “Cesarina in medley con Porta Romana” in duetto con Antonio Castrignanò…
La vita artistica, personale, e sociale di una persona conta di più delle tante piccole etichette e presunzioni che specialmente una certa stampa si ostinava a darmi perché la notizia era più interessante se ci fosse qualcosa di politico di mezzo, piuttosto che basarsi semplicemente sulla mia musica. Credo che la politica non mi abbia mai amato particolarmente e non vedo perché io debba aver amato la politica, per cui il mio sottrarmi ad essa è sempre stato dichiarato e non me ne pento. Ci sono persone ed anche dei cantautori che si basano sulla politica e se ne servono. Io ho scelto un modo di approcciare il mio lavoro molto distante da essa, anche se musica e politica spesso vanno a braccetto. Nella mia musica c’è la vita della gente, la loro politica umana non quella partitica, per quella ci sono cantautori molto più preparati di me e molto più fiduciosi in un partito di me. Non avendo una parte spiccatamente politica non ho mai voluto farmi coinvolgere, quindi ho cantato per tutti. C’è voluto del tempo per farlo capire, certo al Sud lo hanno capito molto prima che di tanti altri al Nord, e venendomi a sentire, ascoltando quello che avevo da dire hanno capito bene quello che cantavo, e lo dimostrano le tante collaborazioni in Sardegna, e in Salento. In tantissimi casi mi sono incontrato con Eugenio Bennato il quale mi fa ogni volta la stessa domanda: “ma sei proprio sicuro che nella tua famiglia non c’è qualche meridionale?” A lui sembra strana la facilità con cui riesco ad immedesimarmi nei brani anche in dialetto del sud, dal campano al lucano, al salentino. Allo stesso modo è accaduto anche con altri, quando ho usato non solo il mio dialetto ma anche il loro.
Quando vai in una regione poter portare un po’ della loro lingua è come portarsi a casa i suoi formaggi, le sue specialità o le fotografie che hai fatto. Per me questa cosa di essere uscito dalla Lombardia per raccontare la mia terra è stata la linfa vitale della mia musica, perché se avessi voluto rimanere qui a cantare con chi sapeva quel dialetto sarebbe stato un suicidio artistico, personale e anche umano.
Questo legame con le musiche del sud Italia emerge anche sul palco dei tuoi concerti…
“Santu Paulu” e “Kalinifta” le abbiamo suonate spesso sul palco, a volte anche interfacciate con canzoni che arrivavano da altre regioni.
Concludendo, hai parlato del prossimo tour con cui ritornerai alle origini. Il prossimo disco sarà sulla stessa scia?
Il prossimo disco nascerà con l’intento di riportare tutto a casa, di ritornare a sonorità folk sia esso nella concezione più intima o più movimentata. Vedremo in che modo e in che stile, però siamo ancora lontani perché non ci sono ancora i brani, ma l’intenzione di muoversi in questo senso c’è.
Davide Van De Sfroos – Synfuniia (Batoc67/Universal Music, 2015)
“Quando una canzone viene creata, qualunque sia la sua struttura, comincia ad esistere e a muoversi per conto suo nell’universo di tutti coloro che la ascoltano. Ne resti il padre ma non il padrone assoluto e a quel punto le sue possibilità diventano infinite. Se una canzone nata sul tavolo di un’osteria viene invitata a corte dall’imperatore, può farsi mille problemi, temere di essere stata presa in giro o di non far parte di quel mondo, che così facendo non conoscerà mai. Oppure può godersi il viaggio e ringraziare per l’invito. Il maestro Vito Lo Re ha trasformato queste canzoni in vere e proprie colonne sonore e quindi, proprio ad ognuno di voi auguro di farsi il proprio film, ascoltandole”. Così Davide Van De Sfroos presenta “Synfuniia” progetto speciale realizzato per festeggiare i suoi cinquant’anni e che lo vede rileggere quattordici brani del suo repertorio riarrangiati per l’occasione dal Maestro Vito Lo Re ed incisi tra Roma, Sofia e Cantù con la Bulgarian National Radio Simphony Orchestra. Sebbene a prima vista questo disco potrebbe sembrare un tentativo di inserirsi nel filone della moda dei dischi orchestrali che ha contagiato artisti italiani ed internazionali, già al primo ascolto si ci rende conto come i brani del cantautore lombardo vivano una vita nuova, svelandosi in tutta la loro forza evocativa, e mostrando in piena luce il tessuto narrativo e cinematografico su cui sono nati. Spogliati dagli arrangiamenti folk-rock e rivestiti dagli arrangiamenti orchestrali di Lo Re, le canzoni di Davide Van De Sfroos diventano i movimenti di una affascinante sinfonia per musica e parole che prende vita sulle acque del Lago per svelarci ora le sue storie ora spaccati introspettivi ora ancora momenti di leggerezza. La voce di Davide Van De Sfroos regge magnificamente il confronto con l’orchestra di quaranta elementi che lo accompagna ed è veramente impossibile non lasciarsi catturare dalle rocambolesche storie de “Il Duello”, di “Grand Hotel”, di “Yanez” o ancora de “La balera”, così come di grande intensità sono le riletture brani più introspettivi come “El Calderon de la stria”, “Goga e Magoga” e “Mad Max”. Il vero vertice del disco arriva però sul finale con il trittico composto da “Il dono del vento”, “De Sfroos” e “Ninna nanna del contrabbandiere” con quest’ultima che brilla in tutta la sua semplicità poetica. Non resta, dunque, che aspettare il 30 e il 31 gennaio quando Davide Van De Sfroos porterà sul palco del Teatro Arcimboldi di Milano questo sorprendente progetto, si tratterà di due eventi unici che si preannunciano davvero da non perdere.
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