Gabriele Coen Quintet – Sephardic Beat (Parco della Musica Records, 2023)

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Sassofonista, clarinettista, compositore, didatta, Gabriele Coen è un musicista in continuo movimento, da sempre impegnato nell’esplorare le intersezioni tra jazz e tradizione ebraica, senza dimenticare la sua passione per la musica world con particolare riferimento all’area mediterranea ed est-europea. Dopo la lunga e fortunata parentesi negli anni Novanta con KlezRoym, con cui ha inciso sei album, e l’esperienza in ambito world con “Gabriele Coen Atlante Sonoro”, nel 2005 ha dato vita al progetto Jewish Experience, che ha fruttato quattro eccellenti album: “Golem”, “Awakening”, “Yiddish Melodies in Jazz” e “Sephirot. Kabbalah in Music”. Parallelamente, molto intense sono state sia la sua attività di compositore di colonne sonore per il cinema (“Notturno Bus”, “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” e “Tornare”) sia quella al fianco di Stefano Saletti e Banda Ikona, a cui si aggiungono le collaborazioni con Zeno De Rossi, Danilo Gallo, Teho Teardo e Blixa Bargeld.  A distanza di tre anni dalla pubblicazione di “Leonard Bernstein Tribute”, lo ritroviamo alla guida di un quintetto nuovo di zecca, composto da Alessandro Gwis (pianoforte e elettronica), Ziad Trabelsi (ūd e elettronica), Mario Rivera (basso acustico) e Arnaldo Vacca (percussioni), con i quali ha inciso “Sephardic Beat”, nuovo album che raccoglie undici brani tra riletture di brani della tradizione sefardita e composizioni originali. Nell’intervista il sassofonista romano racconta questo nuovo lavoro che lo vede dar vita a un itinerario sonoro spazio-tempo attraverso il Mediterraneo, 
alla ricerca dei fili invisibili che uniscono le culture ebraica, cristiana e islamica.  www.gabrielecoen.com


Il tuo percorso di ricerca sulla musica ebraica prosegue con "Sephardic Beat", album dedicato al repertorio di canti sefarditi. Com'è nato questo nuovo lavoro?
Ho lavorato a lungo nell’elaborare le varie espressioni musicali ebraiche e le loro interazioni con il jazz e l’improvvisazione e, naturalmente, “Sephardic Beat” è in linea con la ricerca compiuta in questi anni, attraverso latitudini sonore differenti. In questo caso ho sentito, però, l’esigenza di tornare alla musica sefardita a cui mi ero avvicinato a metà anni Novanta, parallelamente allo studio della musica klezmer e della canzone yiddish e, così, mi sono concentrato sulle sue numerose varianti mediterranee e sul loro rapporto con la tradizione araba e cristiana.  Sento con questa musica un legame profondo, quasi atavico, perché le origini della mia famiglia, di mio padre, sono a Toledo e dentro di me ho conservato questa radice sefardita. In famiglia si racconta che, dopo la cacciata del 1492, i nostri avi si trasferirono in Italia e precisamente ad Urbino dal Duca di Montefeltro e poi si spostarono a Roma. Mantengo, dunque, questo legame ideale con la tradizione sefardita, che è ricchissima perché è frutto degli incontri e degli scambi tra culture e religioni differenti, come quella islamica o quella cattolica. 

Rispetto ai tuoi lavori precedenti sei affiancato da un quintetto completamente nuovo, composto da strumentisti con i quali ti sei trovato spesso a collaborare in altri progetti. Come è nata questa nuova formazione?
C’era la volontà di dare vita ad una formazione nuova con strumentisti con i quali ho lavorato e lavoro spesso. La vera novità di questo disco è proprio nell’organico, che ha caratterizzato anche la ricerca sonora del disco. Al pianoforte e all’elettronica c’è Alessandro Gwis, con il quale ho collaborato già in altri progetti, ma per la prima volta ci siamo ritrovati a lavorare in modo sistematico sul rileggere materiale della tradizione ebraica in chiave jazz. Al basso acustico ho voluto Mario Rivera, con cui ho condiviso tantissime esperienze a partire dalla scrittura di colonne sonore per il cinema e il teatro, oltre alla lunga militanza nella Banda Ikona con Stefano Saletti, in cui tutt’ora siamo coinvolti. La scelta non è stata casuale, perché volevo un sound più legato alla world music. Per la prima volta, poi, mi sono trovato ad incidere un disco intero con Arnaldo Vacca alle percussioni, che era già presente nel disco “Sephirot. Kabbalah In Music”. Più recente è l’incontro con Ziad Trabelsi che, come noto, è una delle punte di diamante dell’Orchestra di Piazza Vittorio, oltre ad essere un eccellente suonatore di ud, compositore e cantante. La presenza del suo ud caratterizza in modo determinante “Sephardic Beat”, perché è lo strumento simbolo della cultura del Mediterraneo. Negli ultimi tempi stiamo lavorando anche allo sviluppo di “Dialoghi”, un progetto in duo o in trio, giocato sul rapporto tra tradizione araba e ebraica.

Dal punto di vista sonoro, in questo disco il jazz è la base di partenza per una esplorazione sulle sonorità del Mediterraneo, un territorio a te ben noto. Quali aspetti hai cercato di far emergere nelle tue riletture?
Ho cercato di far tornare alla luce le caratteristiche peculiari della musica sefardita che risalgono alle origini spagnole, medioevali e rinascimentali. Nella sua struttura melodica sono presenti cadenze e forme in uso nella musica dei trovatori dell’Occidente cristiano, ma anche prassi esecutive che caratterizzano i sistemi musicali islamici, come scale, ornamenti, micro-intervalli, improvvisazioni guidate e stile
interpretativo, basti pensare alle assonanze con la tradizione arabo andalusa. Ho cercato di mettere in risalto le similitudini più che le differenze identitarie. È un omaggio alla Spagna delle tre culture e, più in generale, al Mediterraneo, dove queste tre grandi tradizioni si sono sempre confrontate in un incontro/scontro che ha portato a quello che siamo oggi, un grande popolo con numerose similitudini e punti di contatto, a prescindere alle nostre origini. 

Come hai scelto i brani da rileggere?
Volevo creare un atlante sonoro del Mediterraneo e per questo motivo ho scelto alcuni brani tratti dalla tradizione sefardita, provenienti dalla penisola iberica, come il canto d’amore che apre il disco “Yo me enamori d'un aire”. Ho inserito una rilettura di due “Cantigas De Santa Maria” che, come noto, è un codice musicale di canti monofonici del XIII secolo in onore della Vergine Maria, raccolte dal sovrano spagnolo da Alfonso X Il Saggio, un re illuminato alla cui corte lavoravano numerosi musicisti e traduttori sia arabi che ebrei. Durante il suo regno si è avuto un momento fondamentale di incontro tra le tre culture. Dal Portogallo arriva, poi, “Yigdal”, da Salonicco in Grecia la ninna nanna “Durme Querido Hijico”, mentre “Los Bilbilicos Kantan” è stato raccolto ad Istanbul, “Ma’Oz Tsur” che appartiene alla tradizione sefardita veneziana e fu ripreso da Benedetto Marcello, e “Scalerica De Oro”, che viene dalla tradizione ebraico-marocchina. Naturalmente, ci sono due brani di tradizione araba, ovvero il canto arabo-andaluso con influenze ebraiche “Lamma Bada Yatathanna” e “Nadrha” che è una composizione di Ziad Trabelsi. Nell’album ci sono anche altri brani, come le mie
composizioni “Sepharad”, ispirata dalla musica sefardita, e “Al Andalus”, che risale agli anni Novanta e qui proposto nella nuova versione in quintetto. 

Come si è indirizzato il vostro lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Dal punto di vista degli arrangiamenti la base di partenza è sempre la tradizione nell’incontro con l’innovazione dei suoni della scena jazz contemporanea. Ho curato molto l’aspetto ritmico con i vari incastri tra tamburi a cornice, set multi-percussivo e la batteria di Arnaldo Vacca. Alessandro Gwis, oltre al pianoforte, ha aggiunto l’elettronica per dare un colore più moderno, mentre l’ud di Ziad Trabelsi crea il ponte sonoro tra le sponde del Mediterraneo.

C'è un brano in particolare a cui sei maggiormente legato?
È difficile scegliere un brano in particolare, perché abbiamo voluto costruire una sorta di lunga suite. Naturalmente sono molto fiero delle mie composizioni originali come “Al Andalus”, che è stata un punto di partenza per me, essendo stata una delle mie prime composizioni e che, poi, ho avuto il piacere di registrare con tante formazioni diverse, dai KlezRoym ad una bella versione con Antonello Salis e Ares Tavolazzi. C’è, poi, “Sepharad” che ho perfezionato durante la pandemia e che ho avuto il piacere di vedere realizzato.

Quali aspetti peculiari della musica sefardita hai esaltato dal punto di vista melodico, timbrico e 
ritmico?
Da un punto di vista timbrico ho voluto dare risalto all’ud che rappresenta lo strumento simbolo di tutta la cultura arabo-mediterranea, ma è anche uno strumento utilizzato nella tradizione sefardita, sia nella penisola iberica, per l’intensa presenza araba per molti secoli prima della riconquista, sia nell’area di quello che era l’Impero ottomano, perché dopo la cacciata dalla Spagna lì si rifugiarono molti ebrei dove venivano trattati in modo più benevolo rispetto ai paesi cristiani. L’ud ha iniziato a giocare un ruolo fondamentale in grandi centri come Costantinopoli, che sarebbe poi diventata Istanbul, ma anche a Salonicco. Sotto il profilo ritmico, c’è una mescolanza con i tempi dispari della musica araba, ma anche da un punto di vista melodico c’è la cantabilità delle melodie, come nel caso della ninna nanna “Durme Querido Hijico”. Sono, insomma, brani che possono arrivare a tutti, come nel caso del brano che apre il disco “Yo me enamori d'un aire”, della quale abbiamo voluto conservare la cantabilità originaria. Il tutto è ovviamente mescolato con il linguaggio e i timbri del jazz, perché mi piace proporre una musica dalle radici antiche ma che guardi al futuro e, in questo senso, l’elettronica di Alessandro Gwis caratterizza il disco in chiave più contemporanea. 

Come si evolve il disco dal vivo? Che spazio ha l’improvvisazione?
Siamo un gruppo jazz e guardiamo alla musica tradizionale, ma la nostra formazione è legata all’improvvisazione. Naturalmente c’è la possibilità di avere degli spazi liberi in cui sia io che Alessandro 
Gwiss possiamo fare degli assoli, ma questo vale anche per Ziad Trabelsi, che è molto affascinato dall’improvvisazione e dall’elettronica. 

Il progetto “Sephardic Beat” avrà un seguito con questo nuovo quintetto?
La speranza è quella di portare avanti i vari progetti. Dopo questa uscita discografica con Parco della Musica Records sono seguite alcune date estive, ma non è facile portare in giro un quintetto strumentale di questi tempi. Alcuni brani che ho scritto per “Sephardic Beat” li suono abitualmente anche in altri contesti, ma quando c’è la possibilità di suonare con tutto il quintetto sono molto felice.

Parallelamente alla tua attività musicale e didattica, stai lavorando costantemente con la Fondazione Isabella Scelsi sui preziosi archivi di tuo padre Massimo. Il fondo è composto da numerose registrazioni e da circa mille partiture che spaziano dalla musica classica alla musica contemporanea. Ci puoi raccontare questa esperienza?
La creazione di questo fondo “Massimo Coen” presso la Fondazione Scelsi è una cosa di cui vado molto fiero. Mio padre, che è venuto a mancare nel 2017, è stato un importante violinista e compositore nell’ambito delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta. Ha lavorato con il maestro Giacinto Scelsi, ma anche con tutti i grandi nomi della musica contemporanea in Italia, di cui era il violinista di riferimento. Ha scritto molte cose, anche in un linguaggio misto, in cui si guarda all’avanguardia ma c’è
un recupero dell’aspetto melodico e, quindi, qualcosa di diverso da quello che si poteva immaginare. Mio padre Massimo era molto preciso e aveva mantenuto una serie di registrazioni e partiture anche inedite e, quindi, grazie alla Fondazione Scelsi siamo riusciti a creare un fondo, ed è un materiale veramente interessante perché racconta la vita musicale italiana della seconda metà del Novecento. 

Quali meraviglie hai scoperto in questi anni?
Oltre alla creazione del fondo, mi sono occupato di gestire la pagina social del fondo “Massimo Coen” e un canale YouTube in cui ho ripreso, rieditato e rimasterizzato le varie composizioni che trovavo. Sono sia composizioni di mio padre Massimo, sia registrazioni storiche inedite dei Solisti di Roma, che è stato il quartetto più importante, e del Quartetto Nuova Musica. Quindi, c’è il piacere di far conoscere a quante più persone possibili questi materiali, che spaziano tantissimo dai repertori contemporanei alla musica classica. Tra le registrazioni si possono trovare Petrassi, ma anche Mozart o addirittura la musica barocca o rinascimentale.

Quanto ancora c'è da scoprire?
C’è ancora molto da scoprire, perché alcuni sono addirittura nastri magnetici degli anni Settanta che ho digitalizzato e sto continuando a digitalizzare. C’è tutto un lavoro molto interessante, di cui si non si conosce tanto, dedicato al Futurismo italiano, con una serie di quartetti storici inediti con Franco Alfano, Silvio Mix, Balilla Pratella. Sono opere di ricerca che mio padre andava a ritrovare negli archivi. Ne approfitto per segnalare una serata importante che faremo alla Fondazione Scelsi a Roma il prossimo 11 ottobre, per celebrare i novanta anni di mio padre Massimo. Ci saranno vari interventi di amici e colleghi per ricordarlo e anche una breve parte musicale in cui con il maestro Federico Placidi rielaboreremo delle sue registrazioni casalinghe attraverso l’elettronica, mentre io suonerò il clarinetto basso interagendo con le registrazioni. 


Salvatore Esposito

Gabriele Coen Quintet – Sephardic Beat (Parco della Musica Records, 2023)
Inutile dire che quando Gabriele Coen si mette al lavoro – in realtà lo è sempre, come possiamo leggere nell’intervista – e ne condivide parte degli esiti, ci fa un grande regalo. Non solo perché ciò che produce ha lo spessore delle meraviglie musicali – quelle che poggiano per bene nella storia, nella ricerca, nella riflessione e che guardano molto avanti. Ma perché riesce sempre a definire i tratti di un linguaggio aperto, che include moltissimi elementi. I quali – sempre in equilibrio tra il profondo e il leggero – non hanno nulla a che vedere con quegli affastellamenti che, per qualche strano e ancorché affascinante motivo, emergono dalle visioni di chi, spesso con lungimiranza, trova il bandolo della matassa proprio nella sovrapposizione. Gli elementi di Coen mantengono il fascino di una prospettiva multiforme, ma oscillano immancabilmente in una dimensione ordinatamente elaborata. La quale – grazie a un approccio delicato e posato – riesce ad abbracciare tanti suoni quanti sono le idee, gli orizzonti immaginati e studiati. Non è certo una dimensione che possiamo misurare in termini quantitativi: abbiamo visto che in questo splendido “Sephardic Beat” gli strumenti sono numericamente esigui. È piuttosto una misurazione, un’interpretazione qualitativa. Nel senso più artistico che questo termine possa suggerire. Difatti, leggendo prima le stesse parole di Coen, e ascoltando poi gli undici brani in scaletta, comprendiamo quanto la sua ricerca e l’elaborazione dei dati che da questa sono emersi nel corso degli anni aderiscano perfettamente alla sua scrittura e, di conseguenza, all’esecuzione generale di ciò che (a ragione) viene definita una suite. In questo quadro ordinato e studiato – che ricomprende, è inutile ripeterlo, anche l’improvvisazione (che prima o poi arriva, a confermare l’impianto jazz del movimento) – ogni strumento ha il suo micro-ordine. Non è scontato – per quanto possa apparire addirittura retorico – essere in grado di definire con chiarezza, anche solo a parole, il ruolo di ogni strumento. Ciò che, però, sorprende ancora di più (appagando musicisti e ascoltatori) è la forma che quel ruolo (dapprima immaginato e posizionato in sospensione nella teoria, nel pensiero dell’album) assume, con la stessa precisione plastica, nello svolgimento del discorso e, soprattutto, nella sua comprensione. Ecco, ascoltare “Sephardic Beat” condividendo – per quanto ci è permesso dalla nostra posizione – l’immagine generale che Coen e il suo quintetto hanno generato, si configura come un’esperienza più che soddisfacente: diviene uno spostamento, un movimento irresistibile dentro uno spazio immaginario – in un certo senso utopico. Che, però, ci appare reale, concreto, perché ancorato a un unico grado di verità: il flusso delle musiche (etniche e subordinate: che ingrossano e intensificano il flusso dei sefarditi), che si aggrappano, con le loro prerogative storiche, a ciò che trovano altrove, riconoscendo sempre uno spazio plausibile entro cui crogiolarsi, per rigenerarsi e (spesso) ripartire. Potremmo ricondurre, pur semplificando, questo movimento storico al jazz? Direi di sì: sul piano metodologico non usciremmo troppo da uno schema interpretativo sicuro e, sul piano storico-sociale, non restituiremmo torti a nessuno. D’altronde un jazz popolare – quindi culturalmente trasversale e aperto, oltre che marginale e, in molti casi, identitario – ha attraversato (e attraversa) molte aree, includendo, in un impianto naturalmente permeabile ed elastico, ciò che, in fin dei conti, tollerava il contatto: ciò che resisteva all’urto. L’album in questione ci appare, allora, come una propaggine contemporanea di quel movimento. Come il riflesso vivo di un nervo che muove, ancora con vigore, un corpo per niente stanco: in barba alla fatica e alle ferite degli anni. Nell’arduo compito di segnalare, in chiusura, un brano che possa rappresentare queste riflessioni, scegliamo “Nadhra”, il penultimo della lista. Si raccomandano alto volume, occhi chiusi, profonda concentrazione e approccio analitico: si garantisce godimento di tutti i suoni e di tutta la storia di cui è intessuto “Sephardic Beat”.


Daniele Cestellini   

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