Realizzare un disco che rivisitasse la tradizione musicale Yiddish in chiave jazz, sembrava
già scritto nel percorso artistico di Gabriele Coen, musicista colto e raffinato, ben noto non solo per essere stato il fondatore e il leader dei seminali Klezroym, ma anche per la sua attività come solista, che negli ultimi anni lo ha condotto ad incidere per la Tzadik, l’etichetta discografica di John Zorn. La pubblicazione del recente “Yiddish Melodies In Jazz” è stata così l’occasione per realizzare una videointervista con il sassofonista e clarinettista romano, nella quale abbiamo ricomposto il mosaico della sua costante ricerca sulla tradizione musicale ebraica e le sue connessioni con il jazz, senza dimenticare i vari progetti collaterali che lo hanno impegnato negli ultimi anni.
La Videointervista
Come nasce questo nuovo disco?
Diciamo che è l’ennesimo capitolo di un percorso lungo, che ho iniziato più o meno a metà degli anni novanta, quando mi sono avvicinato alla musica ebraica. Non sono ebreo dal punto di vista religioso, perché mio padre è ebreo e mia madre è cattolica, e tra l’altro tra le due cose io non ho scelto niente, però ho sviluppato un interesse per tutto ciò che è legato alla cultura ebraica e ai suoi scambi culturali, in particolare con il mondo cristiano e il mondo arabo. Quindi la passione è nata inizialmente per la storia di questi intrecci culturali, e mi sono anche laureato in scienze politiche su questo argomento, però nel frattempo avevo iniziato già a studiare musica e il jazz è stato il mio primo amore. A partire, però, dai primi anni novanta ho realizzato che potevo mettere insieme queste mie due passioni per la musica e la storia, e in quegli anni era appena iniziato il klezmer revival, il revival dedicato alla musica ebraica e trovavo straordinario legare questo retaggio culturale con il jazz e con il linguaggio per l’improvvisazione. Così ho cominciato a scrivere le prime composizioni che tenessero conto di queste due linguaggi e da lì è iniziato tutto un percorso, con la prima formazione importante che sono stati i Klezroym, esperienza che dal 1996-1997 ci vide protagonisti nel panorama del klezmer in Italia, abbiamo fatto tanti dischi e tanti concerti. Successivamente ho intrapreso una percorso come solista, dai primi anni duemila, e tra questi progetti ce n’è uno che si chiama Gabriele Coen “Jewish Experience”, esperienza ebraica, dove praticamente utilizzo materiale ebraico, a volte originale a volte tradizionale, per rielaborarlo in chiave jazz. Questo nuovo capitolo, che si chiama “Yiddish Melodies In Jazz” raccoglie melodie quasi tutte tradizionali tranne un paio di brani miei, che filtro attraverso i miei compagni di viaggio Pietro Lussu al pianoforte, Marco Loddo al contrabbasso, Luca Capone alla batteria e l’immancabile Lutte Berg alla chitarra, ed io che in questo progetto suono il clarinetto, il sassofono soprano e il sassofono tenore.
Il disco è stato pubblicato dalla Tzadik di John Zorn…
Questa è l’altra grande novità degli ultimi anni. Ho avuto l’occasione di incontrare John Zorn durante un concerto che lui teneva a New York al The Stone, che è il locale che lui gestisce nell’East Village. Ho raccontato tante volte ormai questa storia, ma è sempre interessante ricordarla. Come tutti i musicisti, quella sera, tenevo un cd nella tasca della giacca, e a fine concerto sono andato lì da lui e gliel’ho dato, e ho pensato, tentar non nuoce. Lui lo prese, e considerando che la serata era finita, non avrei immaginato che la mattina dopo mi sarei ritrovato una e.mail entusiastica di John Zorn, che diceva di avere il desiderio di produrci il nuovo lavoro. Da lì è nato “Awakening” nel 2010 e quest’anno è arrivato “Yiddish Melodies In Jazz”, è un percorso che stiamo cercando di portare avanti sempre con l’etichetta di Zorn, la Tzadik, e mi sento molto orgoglioso di questa possibilità che mi è stata data.
Come si è evoluta la tua scrittura da “Golem” a questo nuovo album…
Golem è stato il primo disco che ho fatto con la formazione Jewish Experience, ed è uscito nel 2009 per l’etichetta Alfamusic, ed è un disco a cui sono molto legato. E’ il mio primo progetto solistico dedicato alla musica klezmer e al suo incontro con il jazz, perché “Golem” era un disco per certi versi facile, tra virgolette, in quanto prendeva in esame i brani più famosi della tradizione come “Dona Dona” o “Miserlou” e li riproponeva in chiave jazz. Tra l’altro sono legato a quel disco, perché c’era un brano di John Zorn ed è proprio il disco che gli diedi nel 2009 e che mi consentì di sviluppare la possibilità di fare due dischi con loro, con la Tzadik. E’ un disco più tradizionale, perché sono brani trattati in modo molto melodico. Dal momento in cui sono entrato nella casa, nella scuderia della Tzadik, il linguaggio si è un po’ più evoluto, si è legato a sonorità più moderne, perché è un etichetta che fa anche cose di avanguardia, alcune davvero inascoltabili, altre molto affascinanti, e la collana per la quale lavoro io, la Jewish Radical Culture, è la collana più mite, e i dischi sono molto legati a questo concetto di melodiosità ebraica. Le altre collane sono veramente molto ostiche. Ho cercato di tirare fuori delle sonorità che fossero più vicine ad una sensibilità contemporanea e metropolitana, quindi questi ultimi due dischi sono senza dubbio più evoluti, e anche la band è cresciuta. Ho dimenticato un passaggio importante, tra l’altro, tra Klezroym e Jewish Experience c’è stato questo progetto, che ogni tanto riproponiamo, ovvero “Gabriele Coen Altante Sonoro” dove c’era un po’ l’idea del viaggio, quindi rimescolare non solo la musica ebraica ma tutte le musiche del mondo con il linguaggio del jazz e dell’improvvisazione. In quel gruppo già dal 2001-2002 avevano cominciato a suonare questi musicisti che ho citato, quindi siamo arrivati al 2012 quando abbiamo registrato l’ultimo disco e in dieci anni c’è stata una grande compattezza, il gruppo ha un grande interplay, e sembra che in questi anni abbiamo costruito un percorso. Credo sia importante creare un percorso comune con gli stessi musicisti, nel senso che nel giro di dieci anni costruisci davvero qualcosa insieme. Sono molto fedele dal punto di vista musicale.
Mi ha colpito molto la prima traccia di Yiddish Melodies In Jazz, “Bublitcki”…
E’ un arrangiamento molto particolare perché comincia in modo molto free, molto libero, e successivamente parte una ritmica che potremo definire drum & bass, piuttosto contemporanea ed aggressiva su cui si sviluppa questa melodia. “Bublitcki” è invece una melodia tradizionale che in realtà fa parte anche del folklore russo, ed è un po’ combattuta tra le due comunità sulle sue origini. E’ stato anche inciso da musicisti importanti che hanno sperimentato l’incontro tra jazz e musica ebraica, anche nell’orchestra di Benny Goodman c’era Ziggy Elman che aveva inciso questo brano, e poi è presente anche in un film che mi è piaciuto molto che è “Ogni Cosa è Illuminata” di Safram Foer, la cui colonna sonora è basata su questo brano. Abbiamo deciso di aprire il disco in questo modo, perché l’ascoltatore capisse sin da subito di trovarsi di fronte ad un progetto originale, cioè di brani tradizionali un po’ stravolti da una sensibilità contemporanea.
Quanto conta l’improvvisazione nel tuo approccio musicale?
Molti dei brani presenti in questo nuovo disco sono canzoni Yiddish, quindi da un punto di vista armonico si sviluppano su dei giri armonici, tipici della forma canzone, anche Bublicki ha una struttura di questo tipo, ma noi abbiamo dato al brano una struttura più modale, come il jazz degli anni sessanta di Coltrane, che resta uno dei miei riferimenti in assoluto. Lui ci ha insegnato la capacità di modalizzare i brani e quindi dargli una maggiore espressività. Altri brani del disco hanno mantenuto una struttura tonale, secondo, quinto, primo, di questo tipo, mantenendo la forma canzone.
A livello di arrangiamenti, quanto ha inciso il fatto di essere entrato in contatto con John Zorn?
John Zorn per chiunque si occupi dell’incontro tra jazz e musica ebraica, è un musicista fondamentale. Io stesso ho passato anni ad ascoltare i suoi dischi, a suonare su “Masada” e sui suoi progetti sia quello acustico, sia quello elettrico, quindi mi ha molto influenzato. Rispetto ai primi tempi, in cui ho studiato la tradizione anche con i Klezroym, ma già subito con loro abbiamo cominciato a “pazziare” perché ci piaceva proporre materiale tradizionale ma in chiave world music, ethno jazz. Naturalmente ho spinto ancor di più in questa direzione più strumentale, dove ripropongono anche canzoni, ma i temi li faccio io, quindi essenzialmente c’è conservato questo approccio melodico, ma sempre da un punto di vista strumentale. L’incontro con Zorn, e la possibilità di suonare per la sua etichetta mi ha dato coraggio, per cui ci sono brani in cui le sonorità sono decisamente contemporanee, e moderne. Magari se avessi continuato ad incidere per altre etichette avrei mantenuto un linguaggio un po’ più tradizionale mentre con la Tzadik c’è stata la possibilità di fare un lavoro più pindarico, ed osare un po’ di più.
Il disco è stato registrato però in Italia…
Purtroppo non in America, perché la crisi morde anche lì, e il budget non consente di portare il gruppo là. Io registro sempre in una sala a Trevignano, che è sul lago di Bracciano dove c’è il Riff Raff Studio, dove ho inciso almeno quattro, cinque dischi. Ogni volta che torno là è come tornare a casa. E’ una bellissima sala c’è accanto al lago, e c’è questa visione un po’ bucolica e balneare.
Ultimamente sei impegnato anche in un progetto dedicato a Fabrizio De Andrè…
Diciamo che mi piace molto passare da un repertorio all’altro, perché mi annoio a fare sempre la stessa cosa. Quindi quando ho la possibilità cerco sempre di fare altro e di non occuparmi solo del klezmer e della tradizione ebraica, perché mi piace muovermi in molte direzioni. Per tanti ho suonato musica classica con mio padre che è violinista, con un quartetto d’archi, oppure ho fatto musica per il cinema. Questo per tornare sempre con maggiore entusiasmo al filone del jazz ebraico. Uno degli ultimi progetti è legato a Fabrizio De Andrè, che ovviamente non ha bisogno di alcuna presentazione. E’ un progetto che è nato a quattro mani con Raffaela Siniscalchi, che è una cantante romana, con cui siamo cresciuti insieme, e che ha lavorato spesso con Piovani, ed è molto esperta sia di teatro che di musica popolare, ma anche di Jazz. Il progetto è nato insieme ad altri musicisti che mi hanno accompagnato negli ultimi anni, ovvero Stefano Saletti della Piccola Banda Ikona, Mario Rivera di Piccola Banda Ikona con il quale abbiamo inciso e pensato le colonne sonore di Notturno Bus e Scontro di Cività e Un ascensore a piazza vittorio quindi abbiamo fatto un percorso molto bello negli ultimi cinque anni, e Roberto Pistolesi alla batteria che è molto in gamba e che sta emergendo insieme ad alcuni jazzisti molto importanti come Stefano Di Battista e Gegè Telesforo.
Hai appena fatto cenno al tuo rapporto con il cinema, quanto è importante per te evocare delle immagini con la tua musica…
Diciamo che forse scrivere musica per immagini è il sogno per ogni musicista. Qualche volta questa cosa resta inespressa, nel senso che quando si scrive un pezzo c’è sempre un immagine dietro, qualche volta si ha la fortuna di mettere queste musiche su immagini vere, e di concludere l’opera quando si scrive musica per un film o anche per il teatro, per una visualità della musica, però credo che il processo di legare la musica a delle immagini di fantasia sia sempre necessario, cioè il suono e l’immagine viaggiano sempre insieme. E’ stata un esperienza bellissima che spero di ripetere, naturalmente sono anni difficili anche per il cinema e i produttori spesso vanno sul sicuro, chiamano i nomi che ti garantiscono un certo ritorno. Peccato perché è importante anche la sperimentazione, dare anche la possibilità di confrontarsi con questi materiali anche a chi non lo fa abitualmente.
Gabriele Coen “Jewish Experience” - Yiddish Melodies In Jazz (Tzadik)

A tre anni di distanza dall’apprezzato “Awakening”, che segnava il debutto per la Tzadik di John Zorn, Gabriele Coen e la sua “Jewish Experience” tornano con un nuovo album “Yiddish Melodies In Jazz”, nel quale attraverso dieci brani ci conducono alla riscoperta dell’osmosi sonora tra il jazz americano e la tradizione musicale Yiddish. Inciso in Italia e pubblicato nella collana “Radical Jewish Culture“, che John Zorn ha voluto dedicare alla nuova musica ebraica a livello internazionale, il disco è un vero e proprio viaggio nel tempo alla riscoperta di quel confronto ed interscambio culturale che sboccò nel momento in cui i klezmorim, i musicisti girovaghi dell’Est Europeo sbarcarono nel nuovo mondo, venendo in contatto con il jazz afroamericano. Gabriele Coen, attraverso personali e suggestive scelte timbriche armoniche e ritmiche che guardano all’attualità, ci conduce alla riscoperta di alcuni brani tratti dal repertorio della musica Klezmer e di quella Yiddish che sono entrati a pieno titolo nella tradizione jazzistica nelle loro memorabili esecuzioni di Original Dixieland Jazz Band, Benny Goodman, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Cab Calloway, Shelly Manne, Terry Gibbs, Herbie Mann. A caratterizzare il disco è senza dubbio la curiosità e l’eclettismo, che sono la base dalla cifra stilistica del musicista romano, ed in questo significativa è anche la presenza di due composizioni originali, che vanno a comporre un esperienza sonora intrigante per chiunque si avvicini all’ascolto di questo disco. Le splendide tessiture sonore escono dagli stilemi classici del jazz per aprirsi ad echi rock e world, con Gabriele Coen, che dividendosi tra clarinetto, sassofono tenore e sassofono soprano guida le linee melodiche, dialogando in un interplay superbo con il funambolico Lutte Berg alla chitarra e Pietro Lussu al piano, mentre l’impeccabile sezione ritmica composta da Marco Loddo (contrabbasso) e Luca Capone (batteria) detta i tempi in modo magistrale. La perfetta alchimia sonora nata da una lunga frequentazione con i vari strumentisti consente al musicista romano di riportare all’originale bellezza i singoli brani, ripulendoli dalle superfetazioni moderniste, e allo stesso tempo di riscoprire tratti dimenticati come le sonorità del primo dixieland e delle piccole orchestrine yiddish dell’Est Europeo. Ad aprire il disco è la magmatica “Bublitcki” già nel repertorio di Benny Goodman e qui riproposta in una versione drum ‘n’ bass caratterizzata da vertiginosi cambi di tempo e da divagazioni strumentali di grande pregio. Dal repertorio di Abe Schwartz arriva poi il jazz blues “Di Grine Kuzine” meglio nota come My Little Cousin, in cui la chitarra di Berg duetta con il clarinetto di Coen, mentre da quello di Mickey Katz è tratta “Liri” in cui a farla da padrone è il piano di Lussu che attraversa in lungo ed in largo la linea melodica tracciata dal clarinetto. Il cinque quarti “Jewish Five” è il primo brano originale in scaletta e mette bene a fuoco quelle che sono state le ispirazioni nate nel corso della ricerca sui repertori Yiddish operata dal musicista romano. La trascinante e melodica “Yosel Yosel” che con il suo sound dixieland ci restituisce integre quelle suggestioni tipiche della musica ebraica in cui i suoni e i ritmi più festanti nascondono sempre una nota dolceamara. Vertice del disco è poi la favolosa rilettura di “And The Angels Sing” che recupera il titolo originario “Der Shtiler Bulgar” e in cui spicca il sontuoso assolo di chitarra elettrica introduttivo. Altrettanto suggestiva è “Bei Mir Bist Du Schoen” portata al successo dalle Andrews Sisters e da Ella Fitzgerald e qui riletta con grande attenzione alla linea melodica in cui spiccano gli assolo di Coen, Berg e Lussu. Il secondo brano originale del disco è “Mazal Tov From Tobago”, personale omaggio del musicista romano al pianista Irving Fields, il precursore dell’incontro tra musica yiddish e sonorità caraibiche. Chiudono il disco la struggente “Yiddish Mame” e quel gioiello che è “Leena From Palestina”, altro brano di spicco del disco, che si caratterizza per il suo arrangiamento eclettico ed originale. “Yiddish Melodies In Jazz” è senza dubbio l’opera più matura e compiuta di Gabriele Coen e la sua “Jewish Experience” tanto per la scelta dei brani, dettata da una profonda ricerca sulle fonti originali, quando per la grande cura con cui hanno approcciato il concetto di musica in divenire, una musica che passeggia dal passato al futuro, andando oltre il concetto di tempo.
Foto n.1 di Davide Susa
Foto n.5 di Vittorio Villani
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Suoni Jazz