A quattro anni di distanza dal pregevole “Yiddish Melodies in Jazz", pubblicato dalla Tzadik di John Zorn, il sassofonista, clarinettista e compositore romano Gabriele Coen torna con “Sephirot. Kabbalah In Music”, album che segna l’inizio della collaborazione con Parco della Musica Records e che nel contempo rappresenta il vertice ispirativo del suo percorso artistico, non solo per dal punto di vista musicale ma anche da quello prettamente concettuale. Si tratta, infatti, di un percorso sonoro attraverso la simbologia dell’Albero della Vita, secondo la Kabbalah e la mistica ebraica, un viaggio sonoro tra spiritualità ed elettricità, tra il jazz elettrico di Miles Davis di “Bitches Brew” e “In a Silent Way” e le sperimentazioni di John Zorn con Electric Masada e The Dreamers. Abbiamo intervistato il musicista romano per farci raccontare la genesi e le ispirazioni alla base di questo progetto, senza dimenticare un ricordo del padre Massimo, violinista e compositori tra i più importanti del Novecento, recentemente venuto a mancare.
Come nasce “Sephirot. Kabbalah In Music”?
Naturalmente i dischi nascono dagli ascolti, dai viaggi musicali che facciamo, da quelli che sono gli interessi musicali che crescono, maturano e cambiano negli anni. Ultimamente sono stato attratto dalla riscoperta del repertorio di Miles Davis, ed in particolare dalla parte elettrica seguendo quella infatuazione che ho per l’elettrico nel jazz che ho da anni con l’uso della chitarra, la riscoperta del Fender Rhodes e dell’organo Hammond.
Quindi tutto quel repertorio che ha messo in comunicazione il jazz con tante generazioni diverse che erano lontane da quella musica dando vita a quel crossover tra jazz e rock di cui Miles Davis è stato uno degli iniziatori, anche perché era un grande ammiratore di Jimi Hendrix. Questa è una parte del mondo sonoro che mi attraeva a livello di timbri. L’altro mondo naturalmente è sempre quello di John Zorn e del suo Electric Masada e altri progetti che lui porta avanti negli ultimi anni come The Dreamers le cui sonorità sono più vicine a quelle degli anni Settanta. Chiaramente poi c’è un altro grande riferimento di tipo culturale che è legato alla mia passione per la cultura ebraica di cui la Kabbalah è una delle espressioni più note ed allo stesso tempo più sconosciute in quanto è un mondo molto complicato quello del misticismo ebraico. Sono un paio d’anni che ho fatto degli studi in questo senso che mi hanno permesso di avventurarmi alla scoperta dell’albero della vita e della Sephirot, i dieci principi vitali che costituiscono una sorta di cosmogonia del mondo divino. Allo stesso tempo è, però, anche un viaggio nella psicologia umana in quanto ognuna di queste Sephira rappresentano un atteggiamento dell’uomo.
Quindi tutto quel repertorio che ha messo in comunicazione il jazz con tante generazioni diverse che erano lontane da quella musica dando vita a quel crossover tra jazz e rock di cui Miles Davis è stato uno degli iniziatori, anche perché era un grande ammiratore di Jimi Hendrix. Questa è una parte del mondo sonoro che mi attraeva a livello di timbri. L’altro mondo naturalmente è sempre quello di John Zorn e del suo Electric Masada e altri progetti che lui porta avanti negli ultimi anni come The Dreamers le cui sonorità sono più vicine a quelle degli anni Settanta. Chiaramente poi c’è un altro grande riferimento di tipo culturale che è legato alla mia passione per la cultura ebraica di cui la Kabbalah è una delle espressioni più note ed allo stesso tempo più sconosciute in quanto è un mondo molto complicato quello del misticismo ebraico. Sono un paio d’anni che ho fatto degli studi in questo senso che mi hanno permesso di avventurarmi alla scoperta dell’albero della vita e della Sephirot, i dieci principi vitali che costituiscono una sorta di cosmogonia del mondo divino. Allo stesso tempo è, però, anche un viaggio nella psicologia umana in quanto ognuna di queste Sephira rappresentano un atteggiamento dell’uomo.
Come hai approcciato il lavoro in fase compositiva? Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel tradurre in musica i contenuti mistico-esoterici della Kabbalah?
E’ stato un lavoro affascinante perché la sfida era proprio quella: ricevere delle suggestioni da tutto questa tradizione legata al misticismo ebraico e cercare di tradurlo in musica attraverso delle composizioni originali. La musica che è raccolta nel cd è di nostra composizione ed è ispirata ai vari sentimenti e ai vari aspetti della Kabbalah. Questo lavoro è stato fatto principalmente da me per otto composizioni. Altri due brani, invece, sono stati scritti da Pietro Lussu e uno da Lutte Berg perché ho voluto che anche loro potessero entrare in questo mondo delle Sephirot e dell’Albero della Vita.
Il disco è stato inciso con il sestetto. Come si è indirizzato il lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Per questa occasione mi piaceva poter avere un suono pieno con tante possibilità espressive, di interplay e di scambi. In particolare mi ha dato molta soddisfazione il fatto di avere sia un batterista che un percussionista, e questa è un’altra eredità di Miles Davis di quegli anni e delle formazioni di John Zorn e dell’Electric Masada che rimane un punto di riferimento assoluto per me. E’ stato bello sviscerare le varie Sephirot e cercare di dargli un mood musicale che fosse consono, anche perché ognuna di esse rimanda ad una parte specifica del corpo umano. Ad esempio il primo brano “Keter”, che vuol dire corona ma anche testa, si trova in cima all’Albero, è la sfera più celestiale e rappresenta il principio di tutte le cose. Per questa composizione ho scelto delle sonorità quasi siderali accompagnate da una ritmica quasi dub che crea un andamento ipnotico. L’ultimo brano, “Malkut” vuol dire terra o piedi è la Sfera più lontana dalla divinità e per questo ho scelto una trama più ritmata e sporca. Essendo la decima Sephirot ho voluto dargli un ritmo in 10/4 e quindi anche tecnicamente mi sono ispirato alla forza del numero.
Ciò che mi ha colpito è proprio la scelta di aprire il disco con il brano omonimo ispirato a “Keter”, quindi dal vertice dell’Albero della Vita piuttosto che da “Malkut” che filologicamente sarebbe stato più aderente alla tradizione della Kabbalah. C’è una motivazione specifica per questo percorso ascendente dal punto di vista musicale?
Questa è una domanda che mi hanno già fatto gli ascoltatori più colti e raffinati. In realtà la risposta è molto semplice perché in un concept album come questo mi piaceva partire un po’ da brani più rarefatti che rappresentassero la cima dell’Albero della Vita e avessero un sound più mistico e sospeso, per poi scendere piano piano verso il terreno e i brani si fanno più ritmici, accattivanti e vicini ai si chiede la modifica di tali parti in favore di una pronuncia che affermi (3) più lontani dalla Rosa Celeste. Questo è stato un po’ il principio ispiratore di questo viaggio. Mi piaceva cominciare il disco in modo più morbido e terminarlo in modo più aggressivo, più rock.
Parliamo insomma di una scelta prettamente artistica…
In realtà però nello studio della Kabbalah le varie Sephirot sono presentate anche dall’alto verso il basso. Non è quindi un tipo di interpretazione personale, perché quando inizi a studiare le Sfere del mondo divino la spiegazione del diagramma parte sempre dall’alto per scendere verso il basso. E questo perché probabilmente queste sfere sono emanazione della divinità e quindi si parte dalle Sfere più vicine al Divino e quelle che pian piano se ne allontanano di più.
Molto suggestiva è anche la copertina del disco che ritrae l’Albero della Vita….
L’artista che ha fatto questa copertina si chiama Davide Tonato e, a metà anni Ottanta, aveva già lavorato a lungo sul tema della Kabbalah, delle Sephirot e dei Tarocchi. Andando a zonzo in rete ho scoperto che aveva lavorato intensamente su questi temi, avendo realizzato questi grossi pannelli e così l’ho contatto perché mi sembrava bello, per una volta, realizzare una copertina diversa dalle solite mie. Infatti è molto colorata e in qualche modo è psichedelica e richiama un po’ le copertine degli anni Settanta.
Direi che richiama in modo molto fedele anche l’iconografia sapienziale della Kabbalah…
In qualche modo mi sembrava affascinante perché nel particolare ripreso dalla copertina sono raffigurate cinque Sephirot e ognuna di esse ha una caratterizzazione al suo interno.
C’è ad esempio Gevurah che vuol dire forza ed è collegato all’elemento del fuoco, Tiferet che è la bellezza, Esed che vuol dire amore.
Come si inserisce questo disco all’interno della tua produzione? Quali sono le differenze e le identità con i tuoi lavori precedenti?
Mi piace lavorare con tanti musicisti differenti, così come avere anche dei punti di riferimento stabili, infatti con questa formazione suoniamo insieme da più di dieci anni e con alcuni dei musicisti anche da venti come Marco Loddo, Piero Lussu e Luca Caponi che sono un po’ il cuore del gruppo. Naturalmente la presenza di Lutte Berg alla chitarra era immancabile. Allo stesso tempo ho voluto inserire nel disco altri ospiti importanti come Arnaldo Vacca alle percussioni che è un musicista eccezionale, Mario Rivera al basso elettrico e che è anche il co-produttore insieme a me degli ultimi tre dischi, e poi Francesco Poeti, un chitarrista romano che sta facendo strada ed è una delle nuove leve dei miei collaboratori. Il disco è come se fosse una piccola svolta elettrica dopo tanti dischi acustici, cinque a mio nome e tre con i Kletzroym. Ho avuto modo di giocare con i timbri e cercare un disco che si rifacesse alle sonorità del jazz rock e allo stesso tempo però ci parlasse dello spiritualismo che poi è un altro dei sentieri battuti del jazz come dimostrano John Coltrane con “Love Supreme” e “Ascension” ma anche Su Ra, John McLaughin. Sono tutti riferimenti che sono stati importanti per me nella costruzione delle sonorità.
Come hai lavorato sulle ritmiche?
Anche lì c’è stato un lavoro finalizzato alla creazione di una varietà di linguaggi perché mi piace realmente spaziare attraverso mondi differenti. Come dicevo prima “Keter” ha una ritmica che in qualche modo è dub, “Yesod” scritta a quattro mani con Mario Rivera ha un ritmo dispari un po’ balcanico con echi per certi versi etnici e keltzmer. “Binah” essendo collegata al polo femminile dell’universo ha una ritmica che rimanda al cha cha cha e quindi una linea melodica più suadente. In altri casi ci sono atmosfere più da free ballad come ad esempio “Gevurah”.
Insomma ci sono tante sonorità differenti che spaziano un po’ tra le ritmiche jazz ma allo stesso tempo pescano anche a piene mani nel rock. Le ritmiche lavorando in un mood che esula dal linguaggio jazz mainstream, sono un po’ a metà strada con il rock e lo dimostra la presenza del basso elettrico.
Insomma ci sono tante sonorità differenti che spaziano un po’ tra le ritmiche jazz ma allo stesso tempo pescano anche a piene mani nel rock. Le ritmiche lavorando in un mood che esula dal linguaggio jazz mainstream, sono un po’ a metà strada con il rock e lo dimostra la presenza del basso elettrico.
Quali sono gli addentellati con la tradizione musicale ebraica in questo disco?
Dopo tanti anni di elaborazione della musica tradizionale ebraica, forse questo è il disco che per certi versi è più lontano da essa. La tradizione comunque c’è ma è stata in qualche modo digerita. Ci sono alcuni elementi che chiaramente richiamano sonorità legate alla musica ebraica, e parlo di alcune armonie, la scelta di scale che consentono poi delle coloriture particolari. Molti dei brani in qualche modo rispecchiano la differenza di interessi che ho, come la già citata “Binah” che ha un andamento un po’ sudamericano, o “Gevurah” di Pietro Lussu che ha un andamento da musica funk molto afro. Nel disco ci sono, dunque, atmosfere diverse ma c’è sempre poi un ritorno a casa alla musica popolare ebraica che emerge in quattro o cinque composizioni in modo più chiaro. E’ una nuova ripartenza dalla radice ebraica.
Il disco è nato da una campagna di crowdfunding. E’ stata la tua prima esperienza in questo campo…
Anche questo è stato un viaggio in un mondo nuovo e completamente inesplorato. Ho cominciato il crowdfunding nel 2016 ed è durato due mesi, poi il disco ha avuto una gestazione un po’ lenta. E’ un esperienza molto gratificante, coinvolgente e bella perché bisogna in qualche modo mettersi a nudo, spiegando quello che si sta facendo, cercando di convincere la gente dell’importanza del tuo progetto. Credo che sia diventato una regola questo tipo di finanziamento in quanto l’industria discografica è ormai distrutta e ognuno di noi deve appoggiarsi alla propria comunità di ascoltatori per portare avanti i propri progetti.
La tua è comunque una comunità di ascoltatori appassionata, partecipe e culturalmente ben predisposta…
Essendo al sesto disco da solista è consolidata negli anni. Devo dire che non ho faticato particolarmente a trovare sostenitori e tutto sommato è stata un esperienza positiva. Mi sono appoggiato a Musicraisers, però dovendo fare nel futuro un altro crowdfunding lo farei privatamente, in quanto queste piattaforme non fanno molto per aiutare gli artisti. Devo dire, se posso, dare un consiglio a chi ha intenzione di fare un crowdfunding, tutto sommato può farlo anche da solo organizzandosi con un conto corrente specifico. Forse qualcuno non ha il coraggio di esternare questa problematica, ma mi permetto di dire quello che penso anche per dare un
suggerimento tecnico-operativo per le nuove generazioni. Tutto sommato rispetto a quanto ti danno queste piattaforme ti tolgono troppo in termini economici quindi molti artisti in realtà si stanno orientando in questo senso.
Inizialmente, il disco come i precedenti, sarebbe dovuto uscire per la Tzatik di John Zorn…
Il disco era stato pensato con John Zorn, gli avevo proposto il progetto e naturalmente sarebbe entrato nella collana Radical Jewish Culture nella quale sono stati pubblicati i miei due dischi precedenti. Sarebbe stato il completamento di una trilogia, però la crisi discografica è molto dura anche negli Stati Uniti. Il mondo della fruizione sonora sta cambiando, basti pensare a Spotify o alla presenza su YouTube di qualsiasi traccia dopo pochi giorni dall’uscita di un disco. Quindi anche John Zorn ha dovuto ridurre la produzione discografica da sessanta dischi a venti l’anno, rinunciando a diversi dischi a cui teneva molto come il mio. Sostanzialmente si sta orientando verso la produzione dei suoi progetti che, come sappiamo, sono tanti ogni anno e con qualche eccezione per i musicisti del suo inner circle. In America il meccanismo discografico è diverso perché la casa discografica non obbliga alla cessione delle edizioni, e quindi rientrano solo delle spese del disco, quindi si tratta di guadagni irrisori e preferiscono rinunciare piuttosto che farsi cedere il 50% dei diritti.
Presenterai il disco dal vivo con il sestetto al completo?
Come puoi immaginare i tempi non consentono di portare in giro una band di sei persone. Ho già qualche data importante in sestetto come quella di Bologna del 13 settembre ma più spesso il disco lo suoneremo dal vivo in quartetto o in trio. La forza del concept è tale che anche in quattro funziona molto bene. In alcune occasioni lo proporremo anche in un cotè acustico, nel senso che è divertente proporre questi brani anche con contrabbasso e pianoforte. Ci saranno modi diversi per compiere questo viaggio attraverso il misticismo ebraico e non solo.
Concludendo, attualmente sei impegnato in un importante lavoro sull’archivio di tuo padre Massimo Coen, venuto a mancare di recente…
Mio padre è stato un violinista e compositore molto celebre, e nella scena musicale italiana del Novecento ho avuto un ruolo molto importante nello sviluppo della musica contemporanea. Naturalmente ho voluto inserirlo nei ringraziamenti del disco, non ho voluto però dedicarlo solo a lui perché non avrebbe gradito una cosa così forte. Per me è stato un punto di riferimento molto importante. Attualmente mi sto occupando, tra l’altro, della costituzione di un archivio sonoro di tutte le sue composizioni che piano piano sto caricando su un canale YouTube dedicato, e sto lavorando con la Fondazione Isabelli Scelsi di Roma, che si occupa della conservazione e catalogazione della musica contemporanea italiana del Novecento, alla creazione di un Fondo Massimo Coen in cui confluiranno i suoi lavori, le sue partiture. Chi vorrà consultarlo avrà l’occasione di conoscere un compositore che è stato molto importante in Italia.
Gabriele Coen Sextet – Sephirot. Kabbalah In Music (Parco della Musica Records, 2017)
Il termine kabbalah in ebraico vuol dire letteralmente tradizione e rappresenta l’insieme degli insegnamenti mistico-esoterici propri dell’ebraismo rabbinico, diffusosi tra il XII e il XIII Secolo. Sebbene negli anni più recenti il lascito misterosofico dei Mekkubal sia stato preda di occultisti spregiudicati e fanatici della New Age, la Kabbalah conserva ancora intatta la sua forza spirituale che conduce all’esplorazione dei misteri del rapporto tra l’infinito dell’Ein Sof e il mondo finito, tra la natura dell’universo e la creazione, tra l’alto e il basso, tra il macro e il microcosmo. Questo affascinante percorso sapienziale è racchiuso dalle Sephirot, le dieci sfere dell’Albero della Vita, ovvero i dieci principi basilari in cui il mondo divino si riflette nell’uomo, collegate tra loro da ventidue canali che rimandano direttamente all’alfabeto ebraico. A questo mondo metafisico tutto da scoprire, Gabriele Coen (sax soprano, clarinetto, sax tenore, clarinetto basso e flauto) ha dedicato il suo nuovo album “Sephirot. Kabbalah in Music” nel quale ha raccolto dieci brani che riflettono in una originale trama jazz rock la profonda spiritualità ebraica, evocandone ora gli aspetti mistici ora quelli più terreni in un percorso di ascesa dai vertici celesti dell’Albero della Vita. Coprodotto con il bassista Mario Rivera, il disco vede la partecipazione del suo ormai storico quintetto composto da Pietro Lussu (piano elettrico e organo hammond), Lutte Berg (chitarra), Marco Loddo (basso), Luca Caponi (batteria) e per l’occasione allargato in formazione a sei con le percussioni di Arnaldo Vacca, mentre sul versante degli ospiti spicca la presenza del talentuoso chitarrista Francesco Poeti. Laddove molto chiari sono gli addentellati sonori con il jazz elettrico di Miles Davis e i viaggi sonici di John Zorn, Coen mette in luce una scrittura più riflessiva e meditata che mira a far emergere il senso spirituale più profondo della mistica ebraica. In questo senso determinante ci è sembrata la costruzione collettiva di ogni singolo brano in perfettamente in equilibrio sono individualità ed improvvisazione. I dieci brani, in larga parte composti da Coen ad eccezione di uno a testa per Berg e Lussu, compongono un lavoro di grande spessore nel quale si mescolano atmosfere e spaccati sonori differenti a partire dalle atmosfere quasi oniriche dell’iniziale “Keter”, in cui spicca il dialogo tra il basso di Lussu e la chitarra di Berg in cui si inserisce il sax di Coen, passando per le superbe “Binah” e “Chesed” fino a giungere alla splendide “Gevurah”, in cui brilla la chitarra di Poeti, e “Tiferet” che rappresenta il vertice del disco con le sue sfumature quasi world. Completano il disco “Netzach”, “Hod”, “Yesod” e “Malkuth” che rappresentano la conclusione di viaggio quasi onirico dal cielo alla terra. Insomma “Sephirot. Kabbalah in Music” è un disco di grande spessore che conferma Gabriele Coen come uno dei musicisti più attenti nella diffusione della tradizione ebraica in Italia e in Europa.