Giovanni De Zorzi: in ascolto delle musiche del mondo islamico

A Giovanni De Zorzi, professore associato di etnomusicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dobbiamo uno dei laboratori musicali più interessanti e fertili dell’ultimo decennio: l’Ensemble Bîrûn, serie di seminari annuali di alta formazione in musica classica ottomana diretti dal maestro Kudsi Erguner e documentati nella collana Intersezioni Musicali che l’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati (IISMC) della Fondazione Giorgio Cini promuove in collaborazione con le Edizioni Nota: sei cd-book che offrono accurate cornici di riferimento e approfondimenti in italiano e in inglese. L’Ensemble si è rivelato una straordinaria fucina di opportunità per ascoltare la musica classica del mondo ottomano-turco, dalla seconda metà del XIV secolo agli inizi del XX, avvicinando il pubblico italiano ai complessi cicli ritmici e alle dimensioni microtonale, monofonica, eterofonica tipici del maqâm: un’organizzazione melodica di tipo modale, lontana dagli arrangiamenti armonici che caratterizzano la musica occidentale. Proprio a questa dimensione modale Giovanni De Zorzi ha dedicato il testo pubblicato nel 2020 con Squilibri “Maqām. Percorsi tra le musiche d’arte in area mediorientale e centroasiatica”. In un percorso ad “imbuto”, il suo lavoro è proseguito con due monografie, pubblicate nel 2021, dedicate alle musiche del mondo islamico e alla tradizione sufi, con specifica attenzione per la dimensione dell’ascolto. Prima di presentarle, a lui abbiamo chiesto un’introduzione ai due testi.

“Introduzione alla musiche del mondo islamico” e “Samā‘. L’ascolto e il concerto spirituale nella tradizione sufi” sono stati pubblicati nel 2021, a breve distanza da “Maqām. Percorsi tra le musiche d’arte in area mediorientale e centroasiatica”: cosa accomuna e cosa distingue questi tre lavori?
Li accomuna l’area culturale, che resta pur sempre quella del vasto mondo islamico, ma li distingue il focus: il primo, “maqām”, si occupa unicamente di musiche d’arte tra l’Andalusia e lo Xinjiang, mentre il secondo, “Introduzione”, si tuffa da incosciente in un grande mare di musica venato da correnti, generi, stili, maestri, strumenti musicali e ambienti sociali molto, molto più vari. Il terzo, invece, samā‘, si focalizza solo sulla pratica dell’ascolto nata in ambiente sufi e su quel rivoluzionario concetto di “musica” (anche se il termine non è molto corretto) che ne è nato e che dal X secolo in avanti ha gradualmente influenzato l’estetica musicale del mondo islamico tout court, ed ecco che tutto torna in circolo tra i tre libri. Ma li distingue poi anche il pubblico per il quale sono stati composti: il primo è stato pubblicato per una casa editrice come SquiLibri, diretta da Domenico Ferraro, molto orientata in senso etnomusicologico e con un attento pubblico di specialisti, mentre il secondo mi è stato commissionato per la collana didattica del glorioso Istituto per l’Oriente “Carlo Alfonso Nallino”, che fin dal 1921 si è dedicato a temi di carattere orientalistico e islamologico, e viene stampato e distribuito da Edizioni Aseq. Il libro si rivolge soprattutto (ma non solo) agli orientalisti e porta in primo piano tutta la rete di implicazioni letterarie, poetiche, culturali, spirituali presenti nelle musiche del mondo islamico. D’accordo con i direttori della collana dell’IPOCAN, Michele Bernardini e Claudio Lo Jacono, sembra che l’approccio funzioni bene. In “Introduzione” tocco deliberatamente temi della ricerca etnomusicologica e antropologica che non sono consueti nell’ambiente orientalistico e questo credo che provochi dei cortocircuiti e delle curiosità nei giovani islamologi. Ecco: mi piacerebbe che il testo contribuisse a far nascere dei giovani orientalisti che siano differenti da quelli che ancor oggi (!) si ostinano a leggere in silenzio, solo sulla carta, testi che sono stati composti, invece, proprio per il canto e che abbondano di riferimenti e immagini a musiche, musicisti e strumenti. Il terzo volume, samā‘, viene invece pubblicato nella collana “Volti d’Islam” di Jouvence Edizioni, parte del macro-gruppo Mimesis diretto da Roberto Revello. La collana tocca quasi esclusivamente temi legati al sufismo e quindi mi rivolgo ad un pubblico di specialisti che cercano informazioni accurate, stanchi della comoda fuffa mediatica e New Age che c’è in giro. Nel libro c’è molta poesia nata in ambiente sufi che comunica direttamente al lettore, se è disposto a tacere e ad
“ascoltare” i maestri, grazie alle traduzioni che hanno fatto gli amici e colleghi Giampiero Bellingeri, dall’ottomano turco, Thomas Dähnhardt dall’urdu, Stefano Pellò dal persiano, Ermanno Visintainer dal turco chagatay e grazie a una nota di viaggio di Leonilda Candotti. Tutti e tre i lavori colmano un vuoto che c’era in Italia ma…ti ricordi cosa ci diceva Kayhan Kalhor quest’estate in Fondazione Cini a proposito della sua rivoluzione sul kamancheh? “Se non l’avessi fatto io, prima o poi l’avrebbe fatto un altro perché comunque era tempo.” A questi lavori pieni di parole si affianca il nostro ultimo cd, uscito il primo ottobre 2021 (Ensemble Marâghî, “Sounds from the Saray. The Young Bobowski at the Ottoman Court in 17th century”) pubblicato dalla gloriosa Felmay.  Ho iniziato il percorso nell’etnomusicologia venendo da una formazione di musicista e iniziando a suonare un nuovo strumento, il flauto ney: sono uno di quelli che considerano l’apprendimento del canto, o di uno strumento, o della danza di una data area, come un approccio possibile. Ce ne sono altri, certo, ma per me questa è stata e rimane una chiave di accesso. E va notato che in oriente la distinzione tra “musico teorico” e “musico pratico”, tra esecutore operaio e musicologo nella torre d’avorio, non esiste: sono entrambi lati di una ricerca che è sfaccettata. Sia come sia, tutti i quattro lavori ormai sono grandi, vanno per la loro strada e l’autore non c’è più.

“Introduzione alla musiche del mondo islamico” identifica sei ambiti musicali: “d’arte”, “di tradizione popolare”, “della religione islamica”, “nel sufismo”, “marziali” e “generi urbani leggeri”: vorresti introdurli e aiutarci a coglierne le differenze ed eventuali fili rossi?
Mi rifaccio a dei criteri generali che combinano musica e sociologia enucleati da musicologi venuti prima di me e oggi di riferimento un po’ ovunque, ad esempio nel titanico “Grove Dictionary of Music and Musicians”, che permettono di distinguere delle correnti principali in una data “società complessa”, nella
quale, con le dovute eccezioni date dai singoli casi, si avranno una corrente di musica d’arte/colta/classica, apprezzata da musicofili e mecenati, nata tra le corti e i centri di una data cultura religiosa, suonata da solisti pagati per le loro prestazioni, talora autori di determinate composizioni che possono essere trascritte (o meno) secondo varie forme di notazione, così come affiancate da trattati musicologici; una corrente di musica “popolare”, anonima, espressione di una collettività, spesso d’ambiente rurale, trasmessa (un tempo) solo oralmente; una corrente di musica legata esclusivamente ai riti di una data cultura religiosa; una corrente di carattere devozionale, che risuona –attenzione- fuori da chiese, moschee e simili luoghi di culto e che usa spesso un linguaggio “secolare” per esprimere però temi di natura spirituale; una corrente di musiche marziali; una corrente di generi urbani leggeri (Urban Light Genres), composti spesso secondo le regole della musica d’arte, ma destinati a una fruizione più “leggera”, disimpegnata, che cantano temi di varia natura. Se il lettore ci riflette, questo schema aperto funziona benissimo anche per la ricchissima cultura musicale italiana, che forse conosce meglio, o per quelle imperanti degli USA o del Regno Unito. Nel caso specifico del mondo islamico, applicando simili criteri distinguiamo una corrente di musica d’arte, detta anche colta o classica, che usa il linguaggio del maqām, sviluppatasi tra la corte, i centri sufi e le dimore degli appassionati nei principali centri urbani; una corrente di tradizione musicale popolare, anonima, sviluppatasi soprattutto (ma non solo) in ambiente rurale; i numerosi generi sorti all’interno di una cultura religiosa qual è l’Islam, assolutamente non definibili usando le categorie occidentali di “musica”; i repertori e le concezioni del sufismo (tasawwuf), trasversali a vari generi e stili musicali così come a vari ambienti sociali, a seconda delle aree; i repertori insieme marziali e cerimoniali suonati dalle molte fanfare sorte nel mondo islamico (mehter, naqqārehāne); i cosiddetti “generi urbani leggeri”, presenti dall’antichità al presente, mediatizzati sin dagli
inizi del Novecento. Temo non ci sia spazio per entrare nel dettaglio e d’altronde…c’è voluto un libro!

Ampia parte di tutti e tre i volumi è dedicata agli strumenti musicali: come hai proceduto a questo riguardo?
Ho cercato di ascoltarli, ognuno di loro ha la sua storia da raccontare. Secondo André Schaeffner una delle caratteristiche degli strumenti musicali è quella di essere dei “segni” culturali che si collocano all’incrocio di tecniche, arti e riti: ecco, mi sembra che quei “segni” raccontino storie che parlano dei loro inventori, dei loro incontri, dei loro interpreti, del loro simbolismo, della loro estetica, e quasi inavvertitamente si ricrea il mondo nel quale risuonano, composto da molteplici implicazioni che rinviano incessantemente l’una all’altra. E mi sembra anche che dedicarsi agli strumenti e ai loro inventori sia una cosa solida che allontani, ancora una volta, dalla fuffa. Naturalmente mi è stata di riferimento l’insuperata classificazione degli strumenti musicali realizzata nel 1914 da Erich Moritz Von Hornbostel e Curt Sachs, tra l’altro ripubblicata di recente a cura di Cristina Ghirardini per la Fondazione Ugo e Olga Levi di Venezia, che distinsero gli strumenti in quattro famiglie principali: idiofoni, membranofoni, cordofoni e aerofoni alle quali, successivamente, fu aggiunta la quinta grande famiglia, quella degli elettrofoni, ben presente nel paesaggio sonoro contemporaneo e nel libro.

L’ultima parte di “Introduzione alla musiche del mondo islamico” racconta generi più legati all’attualità e alle vicende sociopolitiche di Paesi molto distanti fra loro, dall’Algeria, all’Egitto, alla Turchia, ad Afghanistan e Pakistan. Cosa ci raccontano questi generi sull’evoluzione del mondo islamico e sul rapporto con il mondo dello spettacolo (dei concerti, discografico) e della comunicazione di massa?
Difficile fare un discorso unico, sono cinque società molto diverse tra loro, e in Afghanistan al momento fare e ascoltare musica è semplicemente proibito, com’era stato previsto dal musicologo afghano 
Ahmad Sarmast già un anno prima che gli USA lasciassero l’Afghanistan. Sia come sia, dal Maghreb all’India nella maggior parte dei casi i messaggi legati alla vita sociale e politica della società nella quale si vive vengono espressi con i linguaggi del presente, e quindi Pop, Rock, Rap e Trap globalizzati. I suoni sono quelli dell’elettronica, più o meno “fai da te” (a seconda della produzione) con qualche inserimento di strumento tradizionale, sempre mediato da sintetizzatori e campionamenti. Le voci vengono spesso filtrate dall’auto-tune. I testi dipendono dalla produzione discografica e dalla censura, esterna oppure auto imposta: si parla molto d’amore, come sempre, ma con toni più espliciti che in passato; diversi artisti indipendenti cantano un disagio giovanile e criticano la realtà sociale, sfidando spesso la censura, che viene aggirata dagli ascoltatori scaricando i brani da siti vari. Complessivamente tutti questi generi ci raccontano di una globalizzazione del mondo islamico, di un appiattimento su problemi che accomunano Lambrate, Bristol, Istanbul, Cairo o Delhi. Quanto al rapporto con il mondo dello spettacolo, è bene ricordare che nell’area sin dal 1900 le grandi case discografiche internazionali sono sempre state presenti, e si è sempre registrato e venduto tantissimo. In parallelo resiste il passaparola, che funziona benissimo, e una fiorente economia sommersa: penso soprattutto alle musiche per le feste di matrimonio, una delle principali occasioni del fare musica, con contorno di danze di vario tipo secondo l’area. D’altronde la situazione è analoga dal sud-Italia, alla Grecia, all’Asia centrale, all’India. Le musiche per le nozze sono – da sempre – aperte alla contemporaneità, a quello che va di moda, e spesso sconfinano in generi a sé stanti, come nel caso dell’Electro Shaabi/Mahraganat in Egitto. I giovani musicisti, come sempre nella storia, conducono spesso attività parallele tra il gruppo di musica d’arte e il gruppo di musiche per il matrimonio, o quello più “politicizzato”, con i suoi messaggi legati alla vita sociale e politica della società nella quale si vive. La musica d’arte tende a finire nelle classi dei
Dipartimenti di musica tradizionale dei vari Conservatori, ad imitazione dell’Occidente. E qui si aprono molte altre questioni. In Asia Centrale l’Aga Khan Music Programme ha cercato di ripristinare la rete di rapporti maestro/allievo, dando vita anche ad apposite istituzioni come l’Academy of Maqām in Tajikistan, ma è ancora un esempio isolato. Ovunque i giovani autoctoni devono avere un forte amore e forti motivazioni per suonare musica tradizionale, perché questa è spesso collegata a valori che nel tempo sono divenuti, purtroppo, bandiera dei conservatori. Il giovane occidentale, come sono stato e come sono amici e amiche, arriva nell’area con l’idea di tradizione come trasmissione viva di un sapere fluido, mentre nell’ottica autoctona è molto forte la corrente (fortunatamente non l’unica) di chi considera la tradizione come conservazione passatista di un sapere monolitico, spesso legata alla destra e alle parrocchie. I figli del mio maestro indicavano al padre la sala da concerto piena di tipi con i capelli bianchi, e gli dicevano: “Papà, non possiamo suonare musica per gente così!” L’equivoco mi sembra ben condensato nell’aforisma di Gustav Mahler: “Tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.

Varie parti di “Introduzione alla musiche del mondo islamico” rimandano a tratti della storia della musica italiana: vorresti parlarcene?
Sì, perché in “Introduzione” tocco spesso temi della ricerca etnomusicologica e antropologica per incuriosire il lettore orientalista. Nel libro faccio spesso paragoni tra le musiche del mondo islamico (che a torto si crede così lontano, distante, “altro”) e le musiche italiane, per due motivi: perché spero che siano più note al lettore e perché spesso le cause sociologiche che portano alla nascita di dati generi sono, in fondo, le stesse tra Oriente e Occidente. E così capita di accennare alla Villanella, al Madrigale, alla musica riservata, all’Opera, alla canzone, a Laura Pausini, a Ennio Morricone, ai cori degli alpini della S.A.T armonizzati da Arturo Benedetti Michelangeli, alle fanfare militari, eccetera.

“Samā‘. L’ascolto e il concerto spirituale nella tradizione sufi” propone una riflessione transdisciplinare riguardo a due concetti, quello di ascolto e quello di ricordo: vuoi introdurceli?
Il termine samā‘ significa letteralmente “ascolto”, ma ha una infinità di significati più profondi. Esso appare inizialmente in trattati composti in ambienti sufi verso la metà del X sec. d.C. nell’area di Baghdad: durante quei primissimi samā‘ si ascoltava innanzitutto la cantillazione del Corano, gradualmente affiancata da poesia di carattere amoroso/mistico alla quale poteva poi intrecciarsi il suono di strumenti musicali. Da questo ascolto potevano sorgere negli assorti partecipanti degli intensi stati interiori e degli irrefrenabili movimenti fisici che giungono al presente. Poco a poco il samā‘ divenne una delle pratiche tipiche del tasawwuf (“sufismo”) e fiorirono svariati repertori e generi tra le molte confraternite sufi del vasto mondo islamico che giunsero sino al presente e che questo volume prende in esame in alcuni casi specifici e in alcune aree geoculturali che ho scelto arbitrariamente, a campione. Quanto al secondo termine, il termine arabo dhikr significa letteralmente “ricordo, ripetizione, menzione” del nome di Iddio (Al-Ilah) o di uno dei suoi novantanove attributi divini. Il dhikr può essere sia individuale che collettivo; sia silente, celato, interiore (khafi) che vocale, sonoro, esterno (jahri). Samā‘ e dhikr coesistono sin dagli albori, ma in diversi casi si è avuto l’uso di strumenti musicali e canti “ornati” all’interno di cerimonie di dhikr. La tendenza prevalente oggi è di trovare il samā‘ in incontri di dhikr.

“Samā‘ ” fa sintesi di ricerche legate al tuo rapporto sia con Jean During sia con Kudsi Erguner: in che modo hanno influenzato il tuo lavoro?
Per entrambi si può dire che ho conosciuto le loro opere intorno alla prima metà degli anni 1990, poi ci siamo conosciuti di persona (Kudsi nel 1998, During nel 2000), siamo diventati amici e abbiamo lavorato insieme sino ad oggi. La prima occasione di lavorare con During è stata una rassegna di concerti organizzati dall’Aga Khan che ha toccato l’Italia nel 2002 (e durante la tappa napoletana ho conosciuto
Ciro De Rosa) poi nel 2003 ho incontrato During a Tashkent, dove mi ha dato consigli e contatti per la mia tesi di dottorato. Poi c’è stata la traduzione e cura di alcuni suoi libri (Musiche d’Iran. La tradizione in questione, Ricordi, 2005; Musica ed Estasi. L’ascolto mistico nella tradizione sufi, Roma, Squilibri, 2013). Dal 2011, da quando insegno all’università Ca’ Foscari, l’ho invitato diverse volte a Venezia: l’ultima volta è stato il 25 febbraio scorso, per un convegno intitolato “Dervishes along the Silk Roads between Past and Present”, organizzato da me e Thomas Dähnhardt, nel quale ha partecipato come relatore e come musicista, suonando musiche di trance del Baluchistan. È sua la profonda introduzione a “maqām. Percorsi”. Ma una nota introduttiva al viaggio del libro l’ha composta anche Kudsi, maestro di flauto ney della tradizione mevlevī, con il quale collaboro da anni, dal 2007 per corsi di flauto ney che si tenevano in Fondazione Giorgio Cini e poi per il progetto Bîrûn, che dal 2012 si tiene in Fondazione Giorgio Cini e che ha prodotto sei cd-book distribuiti da Nota Edizioni. Kudsi ha scritto anche un profondo saggio nel mio primo libro “Musiche di Turchia. Tradizioni e transiti tra spazio e tempo” (Ricordi 2010). In musica, nei suoi libri e nelle molte conversazioni conviviali Kudsi ha seminato in me, così come ha fatto Jean, tanti semi che ho cercato di far fiorire. Entrambi hanno influenzato moltissimo il mio lavoro e non è un caso se samā‘ è dedicato con gratitudine a loro due.

Su quali temi e in quali ambiti proseguono le tue ricerche ed il tuo lavoro in questo ambito?
Mi sono state fatte due proposte serie di ricerca sul campo; c’è, poi, un ERC con la SOAS di Londra con il mio dipartimento come partner che verrà presentato tra pochi giorni, sul quale è meglio tacere e incrociare le dita. Diciamo che se tutto va bene potrebbe portare molta, molta musica del maqām a Venezia e a Londra. Ci sono da curare gli atti del convegno di cui dicevo. Si vedrà. Si va.


Giovanni De Zorzi, Introduzione alle musiche del mondo islamico, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, Aseq 2021, pp. 160, euro 16,00/Giovanni De Zorzi, Samā‘. L’ascolto e il concerto spirituale nella tradizione sufi, Jouvence 2021, pp. 282, euro 28,00
Il primo testo, “Introduzione alle musiche del mondo islamico”, arricchito da alcune foto in bianco e nero, sceglie due sfondi integratori che vengono intersecati fra loro: quello dell’organologia e quello dei repertori che vengono distinti in sei ambiti: musiche d’arte / maqām, di tradizione popolare, della religione islamica, del sufismo, marziali e, in chiusura, nove generi urbani leggeri. 
Ognuno dei primi tre ambiti è seguito da un capitolo sugli strumenti musicali per un totale di oltre quaranta strumenti raggruppati in cordofoni, aerofoni, membranofoni, idiofoni, elettrofoni. 
Raccontando le musiche marziali, un focus specifico viene dedicato al “mehter” e a come sia stato “la prima occasione per ascoltare musiche ‘altre’ da parte occidentale (…) il volume doveva essere inaudito mentre il minaccioso rullo dei timpani si univa al lancinante suono delle zurna. (…) Esso divenne un pregiato oggetto di scambio diplomatico: sembra che già nel 1673 il re polacco Jan III Sobielski avesse un mehter”.
Una ventina di pagine sono dedicate a “Il suono del sufismo” e in particolare al samā‘, argomento del secondo libro intitolato “Samā‘. L’ascolto e il concerto spirituale nella tradizione sufi”. Samā‘ significa ascolto, ma anche concerto spirituale. Il termine è rintracciabile in trattati scritti in contesti sufi verso la metà del X sec. d.C. nell’area di Baghdad quando, durante i samā‘, era la cantillazione del Corano ad essere al centro dell’ascolto, gradualmente affiancata da poesia a carattere amoroso/mistico, a volte intersecata dal suono di strumenti musicali. 
Questo ascolto poteva suscitare nei partecipanti intensi stati interiori e decisi movimenti del corpo. De Zorzi descrive come il samā‘ divenne una delle pratiche tipiche del tasawwuf (“sufismo”) dando vita, nelle varie confraternite sufi del mondo islamico, a diversi repertori e generi, alcuni vivi ancor oggi, documentati da un’ampia selezione di titoli discografici e fotografie ed immagini anche a colori raccolte in una dozzina di pagine nella splendida galleria iconografica. In particolare, De Zorzi descrive e analizza l’esperienza del samā‘ in cinque contesti: Persia, Mevleviye ottomano-turca, Bektashiye ottomano-turca, Asia Centrale, area Indo-Pakistana.

Alessio Surian

Ensemble Marâghî in performance. Foto: Michele Crosera, Fondazione Teatro La Fenice ©
Copertina del libro "Maqām. Percorsi tra le musiche d’arte del mondo mediorientale e centroasiatica"
Copertina del disco "Sounds from the Saray"
Kayhan Kalhor, a sinistra, Giovanni De Zorzi, a destra. Foto: Marco Lutzu
Giovanni De Zorzi. Foto: Marco Lutzu, 2021
Giovanni De Zorzi. Foto: Federica Palmarin © 2021
Giovanni De Zorzi. Sullo sfondo calligrafie di Bruno Norbu Griparich. Tappeto Bukhara Foto: Giovanni Pavanetto, 2020
Giovanni De Zorzi agli Ateliers d’Ethnomusicologie de Genève, 2012. Foto: Laurent Aubert
Giovanni De Zorzi suona i timpani kös, Istanbul 2009. Foto: Anh Phuong Nguyen ©
L’Ensemble Bîrûn edizione 2017. Foto: Matteo De Fina ©

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