Antonio Castrignanò – Babilonia (Ponderosa Music Records, 2022)

#BF-CHOICE

Raccontare il percorso artistico di Antonio Castrignanò vuol dire ripercorrere buona parte delle vicende legate al movimento della riproposta che, a partire dagli anni Novanta, ha alimentato i fermenti artistici e culturali della scena musicale Salentina. Appassionatosi, sin da giovanissimo, alla musica tradizionale della sua terra, ben presto entra in contatto con Luigi Chiriatti che gli insegna la tecnica sul tamburo a cornice e da quel momento gli si apre davanti un mondo da scoprire. Arrivano gli incontri con Uccio Aloisi, Cici Cafaro, Uccio Casarano e Luigi Stifani (che accompagna al tamburo a cornice nelle registrazioni incluse nel disco che accompagna il volume “Io al Santo ci credo”) e le esperienze formative in seno a formazioni storiche come il Canzoniere della Terra d'Otranto, Canzoniere Grecanico Salentino e Aramirè, ma è sul palco della Notte della Taranta che si segnala al pubblico per carisma ed intensità interpretativa, diventando in breve tempo una delle voci di punta dell’Orchestra Popolare. Sul palco di Melpignano nascono collaborazioni prestigiose con artisti come Stewart Copeland, Mauro Pagani, Giuliano Sangiorgi, Goran Bregovic, Ballakè Sissoko, e Ludovico Einaudi. Nel 2006 l’incontro con il cinema lo conduce a comporre la colonna sonora per il film “Nuovomondo” di Emanuele Crialese, Leone d'Argento alla Mostra del Cinema di Venezia 2006, ma la svolta arriva con il debutto discografico come solista con “Mara La Fatìa” nel 2010 a cui seguono “Fomenta – Ilenu De Taranta” nel 2014, nato dalla collaborazione con il produttore “electro-sufi” Mercan Dede, e il gustoso Ep “Aria Caddhipulina” nel 2018. 
Complice l’invito della famiglia reale del Principato di Monaco a suonare alla festa di nozze tra il Principe Pierre Casiraghi e Beatrice Borromeo, nel 2019 prende vita una fortunata collaborazione con il coreografo francese Jean Christophe Maillot e “Les Ballettes De Monte Carlo” con cui ha realizzato lo spettacolo “Core Meu”, in scena al Grimaldi Forum di Monaco e per la “F(ê)aites de la danse 2017”, riscuotendo un grande successo di pubblico e critica. Nel nuovo album “Babilonia” prosegue il cammino tracciato nei precedenti con le intersezioni tra tradizione musicale salentina e world music, ampliando il raggio della ricerca sonora alla scoperta di lingue e culture differenti. Nell’intervista che segue Antonio Castrignanò ci ha raccontato questo nuovo lavoro con particolare riferimento all’evoluzione del suo approccio alla musica tradizionale salentina, alle sonorità e i temi che caratterizzano i vari brani.

Sono trascorsi quattro anni dall'Ep "Aria Caddhipulina" che ha segnato un po' uno spartiacque nella tua produzione discografica dal punto di vista dell'approccio alla tradizione nelle intersezioni con i suoni world. Qual è stato il percorso di ricerca musicale che ti ha condotto alla realizzazione di "Babilonia"?
Per una strana coincidenza tutti i miei cinque album hanno un intervallo temporale di quattro anni, niente di stabilito, ma in ogni caso lo ritengo un valore aggiunto perché credo che le idee abbiano bisogno del giusto tempo per maturare ed essere realizzate. 
Detto questo, pubblico un album quando penso di avere una storia interessante da raccontare e in cui mi riconosco a pieno. Di solito quando produco un disco mi muovo su un doppio binario che viaggia da una parte a confrontarmi con l’immenso bagaglio della tradizione salentina ereditato nel tempo, con arrangiamenti, gusto ed energia personali; dall’altra invece a confrontarmi con la nuova scrittura che obbedisce più alle esigenze creative di un artista che ha voglia di scoprire, mettersi in gioco, rischiare e consegnare una propria traccia del presente. “Babilonia” appartiene sicuramente più a quest’ultimo filone. L’album raccoglie un’idea di percorso immaginario in un luogo indefinito dove tutto si condivide e tutto succede attraverso la musica: una pluralità di volti e generazioni, di culture e idiomi, affrontando temi universali del presente e del passato in un percorso personale con artisti e musicisti straordinari. Babilonia è un viaggio intorno al mondo e allo stesso tempo un giro al mercato settimanale sotto casa. 

Come si è evoluto in questi anni il tuo approccio alla musica tradizionale salentina? 
Tutto cambia nel tempo, è inevitabile. “Se volete conoscere un popolo dovete ascoltare la sua musica” diceva Platone, e la musica cambia perché è lo specchio della sua gente. Il panorama musicale e territoriale attuale è lontano anni luce dai primi anni ’90 quando adolescente mi avvicinavo ai palchi, ed è ancora più lontano dalla mia infanzia quando tutto il Salento era un teatro diverso per tanti punti di vista. 
Anche molte figure cruciali, cantori ed intellettuali, sono oggi scomparsi lasciando vuoti e allungando la distanza con un mondo che non esiste più; e nonostante mi sento fortunato per aver appreso tanto da molti di loro, lo smarrimento resta. Il concetto di tradizione è complesso e oggi spesso anche troppo confuso, per non dire abusato. Vedo bambini con un tamburello e fazzoletto essere considerati portatori di tradizione e allo stesso tempo ho visto Uccio Aloisi suonare e cantare in una dancehall. Quindi c’è da chiedersi intanto: cosa è oggi la tradizione?  E’ certamente un sapere immateriale, ma è anche un insieme di comportamenti individuali o collettivi mossi da una motivazione interiore autentica e disinteressata che vivono, mutano e si trasmettono sapientemente nel contesto sociale d’appartenenza, lontano dai riflettori. Non bisogna confondere la tradizione con lo spettacolo, e viceversa. La musica tradizionale si è trasmessa e modificata tra la gente e la miseria raccontando le frustrazioni e le fragilità dei propri simili, e cerando di superarle attraverso il canto. Il canto degli ultimi. Questa memoria va tutelata e seguita, oggi sembra svanita.  Io continuo ad imparare dalla mia gente per consegnare ai “figli” un sapere ereditato dalla semplicità e dalla povertà che però custodiva una straordinaria ricchezza, la dignità. Poi faccio anche musica.

Quali sono le identità e le differenze, anche sostanziali, tra "Babilonia" e i tuoi album precedenti?
Ogni album è differente per la storia che vuole raccontare. “Babilonia” è un album corale dentro il quale il concetto di “condivisione” è al centro di tutto ed è tangibile, dentro il quale l’identità è una comunità allargata. 
Un confronto continuo e un dialogo attraverso la musica e i dialetti con realtà più e meno lontane dai propri confini. “Fomenta” può avere dei tratti in comune con “Babilonia”. Parlando di discografia volevo sottolineare che produrre un album oggi è divenuta per molti una scelta incomprensibile e assurda, in controtendenza sicuramente con i tempi dei colossi della musica on line. Per molti aspetti lo è, e non posso darli torto. Io però ho voluto credere ancora nell’idea di album come un’opera artistica più ampia e completa. Ho dedicato molto tempo alla realizzazione e l’invito che faccio è anche quello di prendersi il giusto tempo per l’ascolto, magari in sequenza come quando si legge un libro o si guarda un film, sono quaranta minuti che scorrono via veloci. Il tempo è una delle cose più preziose che stiamo perdendo inseguendo la modernità. Noi abbiamo scelto persino di stampare il vinile per incentivare un ascolto differente e ringrazio Ponderosa ha creduto in questa avventura. Avremmo potuto più facilmente lanciare almeno sei singoli su social e store digitali, e sarebbe stata forse la scelta mediaticamente più giusta ma sicuramente meno coerente con il lavoro artistico che si vuole raccontare in "Babilonia".

Veniamo alla genesi del disco. Come si è indirizzato il tuo lavoro in fase di scrittura dei brani?
E’ nato prima nel mio studio da un divertente ma intenso lavoro di scrittura ed arrangiamento. La maggior parte dei brani sono arrivati subito come fossi in un vortice creativo che non dipendesse da me ma dalla libertà espressiva che mi ero imposto e che è stata sempre alla base di questo lavoro. 
Poi è stato condiviso con i miei musicisti più fraterni che sono stati anche i primi a vivere, e allo stesso tempo arricchire, il viaggio verso Babilonia. Appena i pezzi giravano bene sugli strumenti abbiamo inciso in presa diretta tutti insieme e successivamente ho continuato il lavoro con varie sessioni per registrare voci, ospiti, edite, mix, master, artwork ecc.

Elemento che caratterizza il disco, ben evocato dal titolo, è l'incontro con i suoni del mondo e in generale con le musiche attuali. Dal punto di vista degli arrangiamenti, quali aspetti hai cercato di far emergere in questo disco?
Dipende, a volte ho creato una tensione emotiva con passaggi armonici per trattare temi epocali, ma senza appesantire troppo ne banalizzare la scrittura musicale: un equilibrio di cui per fortuna ancora sono soddisfatto. Anche la ritmica ha sempre avuto un ruolo importante. Le corde e i tamburi di varie provenienze sono gli strumenti che più ho “intrecciato” e la libertà assoluta di utilizzarli insieme è stato un aspetto stimolante che mi ha divertito, però non è stato sempre facile. Bisogna continuamente valutare e calibrare ogni coesistenza: mandola elettrica insieme a quella acustica, alla kora, al bouzuki, alla chitarra elettrica, il basso insieme alle grancasse, casse, percussioni, synth, ecc non è affatto scontato che il matrimonio tra strumenti così eterogenei funzioni. Emotivamente è stato un flusso di visioni ed emozioni, a cui un pò ci si abbandona e un pò si cerca di sfuggire o si cerca di indirizzare verso qualcosa di preciso con l’arrangiamento. Ho inseguito un incontro/scontro generazionale, per esempio. Non bisogna pensare alla musica popolare come un’espressione ferma nel tempo da tenere in biblioteca ma come un flusso continuo di un sapere antico che si confronta ogni giorno col presente. 
Un sapere da affidare a generazioni che oggi viaggiano alla velocità della luce e verso le quali, a volte, è giusto fare un passo.

Nel disco si intrecciano temi differenti dal rapporto con le proprie radici al tempo, passando per storie di sfruttamento sul lavoro e l'accoglienza. Qual è il messaggio che lancia "Babilonia"?
Che la musica è un messaggio per esprimere emozioni e sentimenti ma allo stesso tempo un mezzo per muovere le coscienze e affrontare insieme temi sociali. Piaghe dell’umanità che da anni si ripetono nella stessa forma con attori diversi. Vedi lo sfruttamento del lavoro o il caporalato nei campi sempre presente in molti luoghi del mondo e non solo in quelli considerati terzo mondo, anche in Puglia, nel Salento e in Calabria esistono oggi esempi eclatanti. In passato era solo la nostra gente, madri, padri, nonni, zii a vivere le stese umiliazioni che oggi toccano ad altri protagonisti, i più sono immigrati. L’accoglienza diventa un dovere per il modello che si sta imponendo al mondo, un modello che genera disuguaglianze abissali alle quali però non bisogna mai rassegnarsi.

Al tuo fianco oltre ai musicisti con cui collabori da diversi anni, spiccano alcuni ospiti d'eccezione. Quanto è stato determinante il loro contributo?
E’ un album pensato per incontrare anime, idiomi e linguaggi sonori differenti. Quindi fondamentale è stato il privilegio di poter dialogare con altri artisti, anche apparentemente lontani dal mio stile musicale, lontani tra loro, lontani geograficamente, culturalmente, ma verso i quali ho sempre nutrito stima assoluta
e immaginato un’empatia musicale. Ti confesso che ogni ospite di questo disco ha in qualche modo influenzato la mia sensibilità artistica e quindi sia stato determinante non solo per il proprio contributo reale che oggi ha dato al disco ma anche per ciò che nel tempo ha rappresentato per me. Sono state collaborazioni riuscite perché autentiche. Mi riconosco a pieno e sono davvero soddisfatto, non capita spesso. Un privilegio aver avuto anche in questo percorso il sostegno di musicisti talentuosi con i quali c’è già una sintonia collaudata nel tempo: Rocco Nigro, Giuseppe Spedicato, Maurizio Pellizzari, Luigi Marra, Gianni Gelao, Gianluca Longo e Redi Hasa

L'album si apre con una pizzica declinata al futuro "Taranta World" in cui ho trovato un punto di contatto con il tuo lavoro al fianco di Mercan Dede...
Una Pizzica Tarantata in minore per essere precisi, totalmente originale nella scrittura musicale e poco ortodossa nell’arrangiamento ma che, secondo me, racchiude alcuni elementi del passato che non mi capita spesso di riuscire a coniugare nelle composizioni volutamente “futuristiche”. Credo che sia una delle cose più difficili in assoluto riscrivere una musica che rievoca un rituale così antico e catartico. Come detto ci sono dei punti in comune con “Fomenta”, prodotto insieme a Mercan Dede, l’elettronica e l’utilizzo di strumenti timbricamente lontani dal Salento, per esempio; ma anche la voglia di spingersi oltre verso la sperimentazione. Mercan Dede è stato un riferimento nella mia mente e nel mio percorso ma ha anche firmato i remix di alcuni brani che pubblicheremo più avanti. Ho scelto di curare personalmente tutta la parte elettronica, le ritmiche e i synth perché volevo in questa occasione rimanere dentro una visione personale di sperimentazione e costruire con le mie mani un ponte di dialogo con le culture musicali e gli ospiti che successivamente avrei coinvolto.      
 
Uno dei brani che mi ha colpito di più sia per il testo che per la struttura musicale è "Oju". Ci puoi 
raccontare com'è nato?
Musicalmente ipnotico ma anche epico. Ho immaginato un ulivo parlante. Ho immaginato di ascoltare un monumento della natura raccontare in prima persona la sua storia e la sua magnificenza. Il ritornello recita “Oju verde oju maru tocca te lu teni caru” (Olio verde e amaro devi conservarlo gelosamente) in quanto il sapore pungente di un olio extra vergine è segno evidente dell’alta qualità di un prodotto che conserva intatte le sue proprietà organolettiche. Purtroppo l’olivicoltura vive oggi il suo massimo declino nella storia della mia terra a causa del batterio blu, la xylella fastidiosa, che ha distrutto un’economia e devastato un paesaggio. La cura della terra è uno dei temi che ritorna in questo disco, anche in “La Papagna”. La natura in generale, le piante, gli animali sono esseri viventi con i quali l’uomo si è sempre confrontato, nutrito e curato, dando sempre risposte ai bisogni umani. Se come genere abbiamo pensato che la tecnologia o l’industria può sostituirsi rompendo gli equilibri di questo ancestrale rapporto, ci sbagliamo alla grandissima. Le comunità contadine e pastorali hanno sempre rispettato tempi e spazi della natura e hanno trattato greggi, pietre e piantagioni come membri della propria famiglia. L’ulivo è stato un famigliare per i salentini, oltre ad essere un testimone millenario a cui a volte erano legate vicende famigliari tramandate da generazioni. 
  
Nella title-track fanno capolino echi di dub. Quali sono le ispirazioni alla base di questo brano?
“Babilonia”, che dà il titolo all’album, è l’ultimo brano ad essere stato concepito, uno di quelli arrivati subito. Rappresenta un po' una scommessa, folle, perché ho immaginato di racchiudere in un solo brano la sintesi dell’intero lavoro discografico dove coesistono lingue, culture, generi, musiche, passato, presente, tradizione e sperimentazione. Volevo arrivare ai giovani, raccontare i vecchi, uomini, donne, trattare temi importanti come la tutela del dialetto e delle minoranze simbolo di identità e strumento di dialogo, confronto. Insomma, se l’album fosse un film questo brano sarebbe il trailer.

In "Masseria Boncuri" incontri Enzo Avitabile con cui hai firmato a quattro mani il brano. Ci puoi raccontare questa collaborazione? 
Come dicevo ogni ospite è una figura cruciale ed Enzo Avitabile è un grande in tutto, lo adoro da sempre non solo per il suo talento musicale, ma anche per la sua capacità di essere al fianco dei più deboli. Gli ho proposto subito “Masseria Boncuri” ma ha ascoltato anche il resto dell’album poi è tornato convinto sulla proposta iniziale. E’ stato un onore averlo avuto vicino per trattare un tema che mi sta cosi a cuore. Un brano che ho voluto fortemente fosse uno dei due singoli prima dell’uscita dell’album proprio per l’importanza di ciò che raccontava. 
Enzo Avitabile è stato anche ospite speciale e protagonista di un mio recente concerto al Teatro Politeama di Bisceglie dove abbiamo potuto allargare con altra musica e su altri brani la nostra intesa artista. Un concerto memorabile.

Sona Jobareth è protagonista in "Si Piccolina". Quanto ti ha arricchito questo incontro?
Sona ha dato un valore aggiunto assoluto a questo canto già poetico di suo: voce e musicista straordinaria che sempre ringrazierò per aver aggiunto tanta bellezza. Lei è davvero un artista immensa che fa sognare. E’ stata la figura ideale come interprete ma anche per veicolare un messaggio: Sona è la prima suonatrice di kora professionista proveniente da una delle più importanti famiglie griot africane. Credo che rappresenti a livello internazionale la grandezza di una donna in tutte le sue forme espressive migliori: talento, coraggio, dolcezza, maturità, impegno sociale. La figura giusta, a mio avviso, per ricordare l’importante ruolo che la donna ha sempre avuto nella società e nella trasmissione della cultura orale. Esattamente come la donna che mi ha trasferito questo testo, Lucia De Pascalis, madre di Lugi Chiriatti, affettuosamente chiamata nonna Lucia, cantrice di Calimera. Il brano si rifà ad una melodia molto antica e nota nell’area grecanica-salentina, più conosciuta come “Ferma Zitella” per intenderci, il cui testo d’amore ha in questo caso come protagonista un'altra giovane donna del 
nostro sud. 

Rileggi "Menamò" in un arrangiamento molto intrigante, sostanzialmente diverso da quello realizzato nel 2003 da Stewart Copeland e replicato da tanti nel corso degli anni. Come hai lavorato alla riscrittura di questo brano?
Ricordo che “Menamenamò” è stato anche un importante gruppo di ricerca e riproposta guidato da Luigi Mengoli che per primo ha fatto suo questo canto della tradizione nazional popolare cucendoli un “vestito salentino” perfetto. Un brano molto vicino alle mie corde e dentro il quale mi sono avventurato con piacere personalizzandolo con idee musicali che mi suonano potenti, divertenti e accattivanti. Penso che questa altalena di melodie un po’ greche un po' balcaniche si gli addicano molto e gli abbiano dato nuova energia vitale per poterlo suonare e ballare per molti anni ancora nelle piazze salentine. Spero presto.
 
L'arrangiamento irresistibile de "La Papagna" sembra evocare certi ritmi sudamericani. Ci racconti questo brano?
E’ una tarantella divertente dal ritmo vivace che lascia intravedere l’America Latina non solo musicalmente ma anche per la storia raccontata. La papagna è l’infuso di un tipo di papavero che si preparava ai bambini irrequieti con disturbi del sonno; i miei figli hanno ispirato fortemente questo brano oltre ad aver messo a dura prova la mia condizione psico-fisica. Cosi come ti raccontavo per “Oju” torna qui il rapporto e il dialogo ancestrale tra l’uomo e la natura.

Concludendo, come sarà sul palco "Babilonia”? 
Schiettu e direttu comu lu dialettu!


Antonio Castrignanò – Babilonia (Ponderosa Music Records, 2022)
Dall’esordio con “Mara La Fatìa” nel 2010 passando per Fomenta – Ilenu De Taranta” del 2014, per giungere all’Ep “Aria Caddhipulina”, Antonio Castrignanò ha approcciato la musica tradizionale salentina, tenendo ben salde le sue radici e nel contempo volgendo lo sguardo verso il futuro nella consapevolezza di avere a che fare con una materia vitale e pulsante che ha bisogno di essere alimentata, scritta, cantata e declinata nell’incontro sonorità differenti. Il suo nuovo lavoro “Babilonia” rappresenta certamente il vertice della sua produzione discografica, spostando ancora più avanti i confini delle proprie ricerche. Rispetto ai lavori precedenti l’orizzonte sonoro è ora più ampio, articolato e ricco di incroci ed attraversamenti musicali che si dipanano da coordinate differenti che spaziano dall’Africa Subsahariana alla Turchia dall’Indiahe al dub. Registrato preso il “Sud Est Studio” di Guagnano (Le) da Valerio Daniele e Stefano Manca, il disco raccoglie dieci brani che vedono Antonio Castrignanò (voce, rhythmics, tamburo a cornice, synth e mandola elettrica) affiancato da Rocco Nigro (fisarmonica e synth), Luigi Marra (voce e violino), Gianluca Longo (mandola), Maurizio Pellizzari (chitarra elettrica, chitarra acustica e saz), Giuseppe Spedicato (basso), Gianni Gelao (flauto, bouzuki, zampogna) e Redi Hasa (violoncello) a cui si aggiungono gli ospiti: la cantante del Gambia Sona Jobarteh, Mercan Dede, Enzo Avitabile, Don Rico e Badara Seck. Dal punto di vista tematico nel disco emergono riflessioni profonde su temi come la lotta al caporalato e le dure condizioni a cui sono sottoposti gli immigrati che lavorano nei campi e la piaga della Xylella, così come non mancano racconti, volti e storie legati ai tempi tormentati che viviamo. L’ascolto si apre con la travolgente “Taranta World” con il ritmo del tamburo a cornice che incontra l’elettronica e i synth, il tutto impreziosito da una potente interpretazione di Castrignanò e dal violino di Luigi Marra. Si prosegue con il primo vertice del disco, “Oju” con la mandola elettrica che guida la linea melodica, a cui si aggiungono il tamburo a cornice e il violino, ed avvolge il testo a cui è affidato il racconto del dramma del batterio della Xylella che ha colpito e distrutto migliaia di alberi di ulivi secolari (“Oju miu oiu verde oju maru/tocca te lu teni caru pe quannu ‘nci sta”). In “Babilonia” il percussionista salentino canta la necessità di conservare il dialetto (“lu dialettu è cultura, radice, armonia, poesia e musica!”) anche lontano dalla propria terra, e dialoga con la voce del cantante senegalese Badara Seck sulla trama tessuta dalle percussioni e dal saz. Nella trascinante “Nina” ritorna la formula sempre accattivante dell’incontro tra tradizione salentina e la dancehall reggae dei Sud Sound System con Don Rico a duettare con Castrignanò. Altro vertice del disco è “Masseria Boncuri”, scritta e cantata con Enzo Avitabile, che con il suo intenso groove di corde e percussioni denuncia le durissime condizioni a cui sono sottoposti i braccianti stranieri che lavorano nelle campagne pugliesi, sfruttati dai caporali. Se nella dolcissima ed onirica “Si picculina” mandola elettrica e bouzuki impreziosiscono il duetto tra Castrignanò e la cantante gambiana Sonja Jobarteh, in “Menamenamò” si ritorna a ballare con la trascinante interpretazione a due voci con Luigi Marra. I suoni del Nord Africa che pervadono “Tunisia”, appassionato canto d’amore denso di nostalgia ci accompagnano verso il finale tutto da ballare con l’imperdibile “Papagna”, spinta da fisarmonica, zampogna e tamburi e in cui ritroviamo alla seconda voce Marra, e “Pizzica malincunia” in una coinvolgente versione acustica per tamburo a cornice, violino, mandola e bouzuki. Insomma, “Babilonia” è un disco di grande spessore e dal respiro internazionale, un altro prezioso esempio della vitalità della scena musicale salentina. 


Salvatore Esposito

Foto da 1 a 7 di Ray Tarantino
Foto 8 Salvatore Coluccia
Foto 9 Giuseppe Rutigliano

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