Tito Rinesi & Ensemble Dargah – Rameshgar (La Levantina Records, 2021)

Se è vero che non esiste una “musica sufi” ma piuttosto una musica ascoltata dai sufi che dipende dalla disposizione interiore dell’ascoltatore, d’altra parte va riconosciuta la presenza di artisti che con dedizione si rivolgono allo studio e alla pratica di repertori nobili del passato (d’autore e anonimi) che mettono al centro il cammino poetico, spirituale, esoterico e musicale per innalzarsi a Dio. Al vasto repertorio devozionale di mistici e poeti riconducibili al tasawwuf (più conosciuto in ambienti occidentali come sufismo) attinge per questo nuovo album Tito Rinesi, compositore e musicista di lungo corso ed ampie vedute, di cui ci siamo già occupati in queste pagine, esploratore del canto sacro, dal dhrupad al gregoriano, dal canto bizantino al mondo del cosiddetto sufismo. “Rameshagar”, che porta come sottotitolo “Musiche e canti sufi”, arriva a un anno di distanza da “Dargah” (2020), nel solco di chi, come Rinesi, ricerca la possibilità di apertura verso l’altro, esplorando repertori di poeti e mistici di bellezza universale. Il titolo “Rameshgar”, che significa “produttore di gioia”, si riferisce alla denominazione conferita ai musicisti nel Medio Oriente pre-islamico, largamente apprezzati per la loro capacità di possedere una particolare emozione estatica ed avere la capacità di comunicarla a chi si pone all’ascolto. Si tratta di dodici brani che attraversano un ampio arco temporale, dall’XIII al XIX secolo. Accanto al compositore e polistrumentista (voce, saz, bouzouki, arrangiamenti e direzione artistica) suona un organico costituito da nove musicisti di tutto rispetto: Piero Grassini (‘ûd), Diego Resta (tanbur), Fabio Resta (ney), Carlo Cossu (violino, viola), Flavio Spotti (percussioni), Gabriele Coen (clarinetto), Ylenia Notaro (voce), Valerio Bruni (santur) e Roberta Namastè Righetti (dilruba). Si tratta, dunque, di una convergenza di timbri di differenti mondi sonori che interagiscono in elaborazioni che si prefiggono di gettare un “ponte tra cielo e terra”. “Tende Cânim”, versi di Niyâzi Mısri (1618-1694), in origine un esempio del genere vocale durak, segna l’inizio di questo viaggio nella poetica e nelle note plurisecolari delle vie sufi ottomano-turche. “Server-i Ser Bülendimiz” è, invece, un testo di Sadi Efendi, vissuto nel XVI secolo, su un motivo nel maqâm segâh, composto da Ebu’l Hamis Mehmed Efendi. Flauto, liuto e tamburo a cornice accompagnano il canto in “Gönlümüz Her An”, tema di Abdülehad Nuri, vissuto nel XVII secolo. Con un salto di secoli, ascoltiamo “Senede Bir Gün”, liriche di Sâdık Şendil su musica di Şekip Ayhan Özışık, in cui entrano violino, santur e clarinetto, mentre il ritmo si accende nello sviluppo di “Hakdır Allah’ım”, un componimento spirituale attribuito al Bektâshî Münir Baba, proposto per organico di voce, ‘ûd, ney, tanbur, violino e percussioni. Quanto al successivo “Yüzün Gördüm Dedim” è opera del poeta mistico Seyyid Nesîmî (1369?-1417?), artefice di una produzione plurilingue (turco, persiano e arabo). Proseguendo, “Ben Yürürüm” è attribuita all’influente letterato sufi Yûnus Emre (1240?-1321?), i cui tantissimi poemi sono stati messi in musica da diversi compositori ottomani restati, tuttavia, anonimi. Di un altro immenso compositore classico ottomano, Ismail Dede Efendi (1778-1846), sono proposte tre composizioni: “Yüzündür Cihanı”, brano in cui l’ensemble si allarga con la presenza di una seconda voce e del santur, “Yine Neşe-i Muhabbet” e “Ey büt-i nev edâ”. Nel programma c’è anche la celebre “Üsküdar”, tradizionale ben noto oltre i confini anatolici, qui proposto per voci, saz, bouzouki, clarinetto e percussioni. “Hakk Şerleri Hayreyler” di Erzurumlu İbrahim Hakkı (1703 – 1780), poeta, scienziato e santo sufi, è il brano conclusivo di un album che richiede un’audizione nella “giusta maniera”: raccolta e partecipe ma improntata al lasciarsi prendere da gioioso trasporto. 

 

Ciro De Rosa

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