Ravi Shankar: Il lamento sul sentiero

Quando ero ragazzetto, vicino a casa mia c’era un negozio di elettrodomestici e materiale elettrico vario. Ogni tanto i miei genitori mi mandavano ad acquistare lampadine o prese triple ed in mezzo a cucine a gas, abat-jour e macchine da cucire mi ero accorto che c’era un grosso scatolone di LP. Non so dire perché venivo così attratto da quello scatolone ma il primo disco che campeggiava, l’unico di cui si vedeva la copertina, recava il titolo rosso: Demis Roussos, “Forever and Ever”. C’era la foto di questo barbuto con cappello giallo e collana di denti d’animale. Avrei tanto voluto sapere chi c’era anche dietro ma non avevo il coraggio di chiedere, la timidezza mi bloccava. Una volta però accadde una cosa inaspettata: mentre ero lì, il padrone mi disse di aspettare perché doveva scendere in garage, che fungeva da magazzino, a cercare un ricambio e così rimasi solo nel negozio. Nessuno mi poteva vedere e ne approfittai per curiosare nello scatolone misterioso. Il secondo LP era Lucio Battisti, “Il mio Canto Libero”, il terzo “Ekseption 5” e il quarto Ravi Shankar, “Improvisations & theme from Pather Panchali”. L’ansia non permise che osassi spingermi oltre, quindi circospetto mi riposizionai correttamente al bancone clienti, da bravo bambino. Quell’ultimo disco però mi rimase stampato nella mente perché non avevo mai visto strumenti come quelli raffigurati in copertina, ricordavo manici lunghissimi ed ero divorato dalla curiosità di sentire che razza di musica facessero. Quei tipi avevano espressioni strane, parevano divi del cinema e poi nessuno di loro suonava in piedi ma seduti per terra a gambe conserte, anzi non per terra ma su dei grandi tappeti simili a quelli che avevo in casa e che ci avevano portato i nostri parenti da poco espulsi dalla Libia di Gheddafi. 
Sentivo qualcosa di veramente attraente in quell’immagine e mi capitava di ripensarci. Un giorno quindi presi la mia decisione e senza dir niente a nessuno, con le mance risparmiate andai ad acquistare l’LP (che allora in gergo chiamavano “padellone”) e lo nascosi segretamente in cantina. Ora il problema era ascoltarlo perché a casa mia c’erano solamente 45 giri italiani (Nomadi, Equipe 84, Mina, Adriano Celentano…) che si mettevano dentro l’apposito “mangiadischi”. Uno dei miei preferiti era Antoine che cantava “Pietre”, all’epoca nessuno immaginava si trattasse di una scopiazzatura di un hit americano di Bob Dylan “Rainy Day Women #12 & 35” (la cui idea, peraltro, qualcuno sostiene provenga a sua volta da “Let's go get Stoned” di Ray Charles). A me pareva una gran canzone. In quegli anni a casa giravano pure parecchi dischetti davvero improbabili, senza copertina e fatti di una plastica sottilissima che si piegava a toccarli. Tutti di cantanti sconosciuti che, su una base orchestrale, imitavano le voci degli originali di successo di Don Backy, Gianni Morandi, Adamo, Caterina Caselli e del Festival di Sanremo. Costavano poco e perciò si acquistavano, ascoltandoli con soddisfazione. I 45 giri sono stati inizialmente i trascinatori di tutta l’industria discografica ed anche le prime vittime sacrificate alla conversione dal vinile al compact disc, negli anni Novanta. Inizialmente gli LP erano invece destinati ad essere perlopiù delle raccolte di precedenti 45 giri, successe così anche al primo volume di Fabrizio de André. Mi ci volle del tempo per trovare l’occasione e il modo per ascoltare il mio LP misterioso ma finalmente accadde. Rimasi basito, era una musica mai sentita prima, neppure alla radio. Non ci capivo niente, troppo inusuale, che delusione e che fregatura! Mi sentivo così stupido. Lo riposi di nuovo con molta cura nel suo nascondiglio. Solo anni dopo quando vidi al cinema il “Concerto per il Bangladesh” e potei assistere a quella strabiliante esibizione dal vivo di Ravi Shankar, tutto apparve finalmente chiaro. I miei amici dell’epoca erano attratti dalle rock star che si avvicendavano sul palco ma io non vedevo l’ora di andare a riascoltare dopo tanto, quel mio disco segreto che avevo dimenticato. Fin dalle primissime note del lato A, capii di trovarmi al cospetto di un diamante sonoro. “Improvisation on the theme music from Pather Panchali” con introduzione di sitar, solo di flauto traverso e infine l’entrata delle percussioni ebbe l’effetto di farmi sentire come il serpente nel cesto dell'incantatore. 
Lo conservo ancora oggi quel disco delle meraviglie (come anche il cofanetto “For Bangladesh”, peraltro). Da musicologo in seguito mi risultò molto interessante approfondire che era stato realizzato nel novembre del 1961, nel corso di una serie di eventi sponsorizzati dall’Asia Society Performing Arts Program e che si trattava della prima sua collaborazione con musicisti non indiani all’interno di un progetto jazz. Un disco anche storicamente rilevante quindi; quell’LP non finiva di stupirmi e, di conseguenza, anche la mia infantile intuizione. Alla fine di settembre del 1961, Ravi era arrivato in America per il suo primo giro di concerti assieme all’allievo Harirar Rao (dholak e kartal), Kanai Dutt (tabla) e Nodu Mullick (tampura e manjira). Quaranta spettacoli coast-to-coast, inclusa una esibizione alla prestigiosa Carnagie Hall, sulla 7th Avenue di New York. In Pather Panchali l’improvvisazione era studiata in tre differenti cicli ritmici e nell’originale versione indiana, dalla colonna sonora del film da cui era tratta, il suono di flauto era quello di bambù, che è considerato lo strumento bengalese per eccellenza. Solamente una settimana prima dell’arrivo in California di Shankar, un enorme incendio aveva devastato larghe aree di Los Angeles e proprio a questo catastrofico evento richiamava il titolo del secondo brano del disco “Fire Night”. Un pezzo dove l’idioma indiano incontra il jazz americano con Ravi che compone senza suonare. Un incanto l’introduzione di tabla e del flauto di Bud Shank a cui si aggiungono Louis Hayes alla batteria, Dennis Budimir alla chitarra e il grande Gary Peacock al contrabbasso, un raga pentatonico offerto al jazz per una composizione che è un trampolino per le improvvisazioni. 
Nonostante quest’ultime siano alla base di entrambi i generi musicali, le differenze sono abissali: nel jazz sono fondate sugli accordi e sull’armonia, nella musica classica indiana si improvvisa su un tema di raga rigorosamente rispettoso di precise regole e strutture ritmiche. Servono dai dieci ai quindici anni di studio puramente orale con il proprio guru, prima che un musicista creativo possa riuscire a farlo. Il titolo stesso dell’LP “Improvisations” è da intendersi come pura declamazione d’enfasi. Era stato il regista Conrad Rooks ad introdurlo nel giro dei jazzisti newyorkesi del Modern Jazz Quartet tempo prima, dopo averlo ascoltato suonare la sua musica orientale ancora del tutto sconosciuta, alla Town Hall. Ravi ricambierà componendo nel 1966 la colonna sonora (inizialmente commissionata al genio di Ornette Coleman) del film “Chappaqua”, Leone d’argento al Festival di Venezia nello stesso anno. Proseguendo l’ascolto di Improvisations, il terzo brano dal titolo “Karnataki” poggia sul Raga Kirvani, simile alla scala armonica minore dell’ovest dell’India. È suonato nello stile Hindustani, ovvero della musica classica delle regioni settentrionali del subcontinente indiano, le cui origini risalgono al XII° secolo, quando si è discostato dalla musica Carnatica del sud del paese. Un irresistibile dialogo tra la tensione delle corde del sitar e le pelli delle tabla che apre orizzonti d’estasi elevatissimi. Sulla più convenzionale facciata B del disco il lungo “Raga Rageshri” offre un approccio più intimo e meditativo poiché si tratta di un classico raga della sera. In devota riconoscenza a quel lontano mio incontro con la sua musica cerco quindi di ricostruire quella che era stata la vicenda di Shankar, dall’inizio fino alla composizione del tema di Pather Panchali che apriva il mio “disco in cantina”. 

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