Nato in Turchia ma da diversi anni di base ad Amsterdam, Mehmet Polat è un apprezzato compositore e virtuoso dell’oud con alle spalle un lungo percorso artistico speso tra esperienze soliste e come leader di diversi ensamble, nonché costellato da prestigiose collaborazioni. Profondo conoscitore della musica alevita e della tradizione anatolica e ottomana, nel corso degli anni, lo strumentista turco ha arricchito il suo background musicale, spaziando dalla world music di “Ask Your Heart” e “Next Spring”, alla musica contemporanea di “New Land”, inciso con Michel Banabila e Eric Vloeimans, per toccare in tempi più recenti il jazz con “Quantum Leap” registrato con il quartetto Embracing Colors. Ad un anno di distanza da quest’ultimo, Polat torna con “The Promise”, nuovo album nel quale ha raccolto dodici brani autografi che, come racconta lui stesso gli hanno dato la grande opportunità di esplorare sé stesso: “Le mie melodie mi tengono in vita, mi sento creativo, ispirato e produttivo. Come i miei quattro album precedenti, questo nuovo lavoro mi ha messo di fronte a molte sfide per sviluppare le mie capacità di suonare da solo, improvvisare, comporre, arrangiare e creare diverse trame musicali tramite vari musicisti ospiti”. Al suo fianco, troviamo un nutrito gruppo di strumentisti ospiti composto da Alper Kekeç (tamburi a cornice e darbuka) Cemil Qocgiri (tembûr), Daniel van Huffelen (basso), Elnur Mikayılov (kamancha), Joan Terol Amigo (drums) Mikail Aslan (voce e clarinetto), Ruven Ruppik (cajon, bombo legüero, rullante, daira, gome, udu, effetti e piatti), Shwan Sulaiman (voci) e Sinan Arat (ney). Dal punto di vista concettuale il disco presenta una struttura unitaria, come evidenzia lo stesso musicista turco: “La musica è il mio linguaggio principale, attraverso il quale posso sentire ed esprimere tutti i miei pensieri ed emozioni. Comporre per me è come costruire una casa. Tutti i dodici pezzi di questo album sono unici a modo loro, ma sono comunque legati l'uno all'altro. Come dodici case sulla stessa strada, tutte diverse ma in relazione tra loro. Organizzare una composizione è come dare acqua a un seme, quindi il seme cresce in una pianta e fiorisce Durante le registrazioni tutti i miei colleghi musicisti ospiti hanno dato un contributo inestimabile. Lavorare in studio con Alex Geurink è stato un grande piacere, insieme abbiamo trovato il suono e gli effetti giusti”. Nell’arco di poco più di un ora di durata, il disco ci regala un viaggio sonoro che si dipana dai suoni del flamenco della Penisola Iberica alla Persia, dalla natia Turchia alla rumba del Sud America, il tutto impreziosito da echi di jazz e da un approccio compositivo di grande sensibilità. Proprio il jazz permea l’iniziale “Firefighters” nella quale il maquam è racchiuso in una struttura quasi prog-rock con il basso di Van Huffelen e la batteria di Torel Amigo a sostenere la trama melodica intessuta dall’oud di Polat. L’anthem ecologista “Nature hits back” ci introduce a “Pathfinder” che il musicista turco dedica alle persone importanti della sua vita e nella quale spicca il tamburo a cornice di Kekeç, ma è con il climax di “Footprints” che si tocca uno dei vertici del disco con il ney di Arat a giganteggiare nel dialogo con l’oud di Polat. Si prosegue con la sequenza in cui spiccano il fascinoso ritmo di bulerias di “Permission” con l’assolo di kamancha di Mikayılov, il jazz di “Swinging in hands” e l’evocativa “Fidelity to İstanbul”. Il primo dei due brani cantati del disco, “Being the Voice” vede protagonista alla voce Shwan Suleiman ed apre la strada alle ardite sperimentazioni di “Symbolizations” giocata tra loop, delay e il suono dell’oud distorto, ma c’è ancora tempo per le sorprese con “Nêterseno” cantata da Aslam e caratterizzata dal suono del tembûr di Qocgiri. Le brillanti “Nothing is yours” e “My cultural womb” chiudono un disco di grande spessore che conferma Mehmet Polat come uno strumentista di primo livello in grado di misurarsi con sfide sempre nuove.
Salvatore Esposito
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