E hai realizzato il bel disco dal vivo “Live in Sete Sóis” con la Med.Arab.Jewish 7Sóis Orkestra…
Mi piace l’incontro con musicisti del Marocco, di Israele, delle Isole de la Reunon, di Spagna, del Portogallo… Ti rendi conto di quanti siano gli elementi che uniscano i popoli del Mediterraneo e di quanto siano compenetrate le storie.
Tra i brani che mi hanno colpito di più c’è sicuramente “Anima de mundo”. Come nasce questo brano?
“Io vado madre, se non torno la mia anima sarà parola per tutti i poeti” queste liriche del poeta curdo Abdulla Goran hanno ispirato “Anima de moundo”, il primo singolo che ha anticipato l’uscita del disco. E' bellissima questa idea del partire, ma in questo brano c’è anche il donare se stessi per una causa anche in quel caso di chi combattere per la libertà. Ai curdi l'Occidente ha riservato una delle più grandi offese che ha fatto al Mediterraneo perché ci sono stati utili finché hanno contribuito a sconfiggere l'ISIS poi sono stati dimenticati e sono tornati ad essere oppressi dai turchi come dagli iracheni e dai siriani.
In “Boulegar” canti, invece, del popolo palestinese…
Il brano è ispirato ad una melodia tradizionale curda ed, in origine, era il testo era tutto in sabir ma ho voluto che Nabil lo traducesse in arabo. Non a caso lui è anche un attivista dei diritti del popolo palestinesi. Sappiamo bene che tra Israele e Palestina la questione non è risolta con questi ultimi che sono a loro volta divisi al loro interno tra Hamas e Al Fatha. La condizione dei palestinesi è ancora di assoluta inferiorità, hanno difficoltà di movimento e persino nell’approviggionamento dei vaccini hanno avuto problemi, adesso, in parte risolti. In questo c’è anche un grande rispetto della tradizione ebraico-sefardita sulla quale con Gabriele Coen abbiamo fatto diversi lavori.
Infatti, “Star la luna” prende spunto da una melodia ebraica…
Nel mio Mediterraneo ideale i popoli sanno dialogare e sanno incontrarsi negli elementi che uniscono non in quelli che dividono.
Mi piace non scrivere semplicemente un brano ma raccontare qualcosa che sia inserito in un contesto sociale, politico e culturale.
Le vicende del popolo curdo tornano ne "Il sono del Mistral"…
"Il sono del Mistral" è dedicata all’attivista curda Hevrin Khalaf, protagonista di tante battaglie per l’emancipazione femminile e i diritti delle donne. Mi ha colpito molto leggere la sua storia di come è stata rapita, forse stuprata e poi barbaramente uccisa in strada al confine con la Siria nel novembre del 2019. Il titolo del brano è legato all’istantanea che mi sono figurato del momento prima che venisse uccisa. Ho immaginato che, mentre lei era lì e capiva che sarebbe finita, il Mistral, questo vento freddo che arriva da nord, la portasse via magicamente cancellando la sua sofferenza e quella del popolo curdo. E’ il vento dell’Europa che avrebbe dovuto salvare i curdi e non lo ha fatto, girandosi dall’altra parte per convenienza politica perché Edogan era bene tenerselo amico in quanto bloccava l’arrivo da Est dei migranti.
“Mediterraneo Ostinato” è, insomma, il disco della gente…
E’ un disco certamente più italiano, avevo voglia di fare qualcosa che fosse più vicino alla realtà che viviamo ogni giorno. E’ anche il frutto di questi tempi, anche se l’ho scritto prima del lockdown di marzo dello scorso anno, però l’ho finito proprio in quei giorni e risente certamente di quel clima.
Molto evocativa è anche la copertina del disco…
E’ molto bella. La cosa più difficile di questo disco è stato proprio trovare la copertina. Per trovarla ci ho impiegato più di un anno. Claudio Martinez che è l’autore anche della copertina di “Folkpolitik” mi aveva proposto quattro, cinque immagini che rimandavano al concetto di Mediterraneo Ostinato e avevo scelto quella ma non mi convinceva molto, pur piacendomi tanto.
Prima hai citato l’esperienza con i Novalia. Nell’epoca delle grandi reunion, è possibile rivedere insieme questa formazione?
Credo di no. Sono quelle cose belle che restano tali. Con Raffaello c’è stata una profonda amicizia, ma ora ognuno fa le sue cose. Tornare a suonare insieme significa vedersi, cercarsi, condividere delle cose. Dal 1985 al 2005 abbiamo fatto tantissime cose in venti anni e tutte bellssime, ma ognuno ha la sua vita. E’ un peccato ma ognuno ha il proprio percorso e la propria vita. Ci abbiamo anche provato qualche anno fa quando facemmo una reunion ma è come quelle coppie che sono state insieme tanti anni e poi si sono lasciate. Ritrovarsi è un’emozione ma poi la vita va avanti.
La prima volta che ho ascoltato i Novalia è stato in “Song For Jethro”, splendido album tributo ai Jethro Tull prodotto da Ernesto De Pascale…
Ernesto De Pascale è stato un grandissimo amico e la sua scomparsa ha lasciato un grande vuoto. E’ andato via troppo presto, era molto giovane. Ci manca tanto. Per quel disco arrangiammo una versione etnica di “Aqualung”, molto particolare. Ernesto ci chiamava Neogrigio come un brano dei Diaframma perché eravamo molto orientati sulla scena fiorentina. Quando iniziammo a muovere i primi passi con Raffaello era il 1985. Chiamarsi con il titolo di un brano di una band contemporanea non ci sembrava il massimo e, quindi, mia madre inventò il nome Novalia che significava “cose nuove dall’Italia”. Ci piacque tantissimo questa cosa. Tra l’altro dove siamo ora, qui da Fabrica, mia mamma ha fatto la sua ultima mostra di pittura. Io, Fabiana, Raffaello e la sua fidanzata dell’epoca andammo a Firenze al primo Meeting delle Etichette Indipendenti che si faceva allora alla Fortezza da Basso ed era organizzato da Bruno Casini e Gianni Pini.
Ci portammo dietro una cassettina con i nostri brani e dormimmo a casa dei miei zii e il loro più caro amico era Sergio Salaorni, produttore dei Diaframma. Mia zia lo fece venire a casa, lo conoscemmo e scoprimmo una persona meravigliosa. Entrammo, così, al Meeting dalla porta principale perché Sergio ci fece conoscere tante persone e la nostra cassetta arrivò a Materiali Sonori che stampò il nostro primo disco. Cambiammo il nome da Neogrigio a Novalia, e pubblicammo queste cinque tracce con il titolo “Corteo”, un lavoro molto bello uscito su Lp. Pensa da quanto tempo ci conosciamo con i fratelli Bigazzi.
Tu all’epoca suonavi la batteria…
Eh si l’ho suonata per tanti anni. Ogni tanto la risuono nei dischi, mi metto lì e la suono anche bene. Scrivendo i brani avevo la difficoltà di dover spiegare agli altri come suonarli con la chitarra, così, ad un certo punto, quando cambiammo formazione mi misi alle corde. Alla fine degli anni Ottanta arrivò anche la passione per gli strumenti etnici. Raffaello era andato in vacanza a Cipro e aveva preso un saz bağlama piccolino, uno tzouras greco e, quindi, iniziai ad intripparmi con questo. Me lo feci prestare più volte e arrivò la svolta etnica dei Novalia.
Il rapporto con Materiali Sonori poi si ruppe…
Si ruppe per un disco che non abbiamo mai finito, e non ricordo nemmeno il perché rompemmo i rapporti. Per diversi anni non ci siamo più sentiti, finché ci incontrammo nel 2005 di nuovo ad un MEI della gestione Sangiorgi. Ci abbracciamo e neppure ci ricordavamo perché avevamo litigato. Sbocciò di nuovo l’amore e ricominciammo a lavorare insieme con il disco “Oriental Night Fever” che uscì nel 2008.
Non posso non evidenziare che “Oriental Night Fever” ha avuto, poi, un successo pazzesco…
In Italia ed all’estero e nacque da una intuizione di Hector Zazou. Barbara gli aveva scritto per un suo progetto. La cosa bella di Banda Ikona è che ognuno di noi ha la propria carriera solista, spesso, ancor più importante del nostro progetto. E’ la somma di identità diverse. Barbara ed Hector si erano visti più volte e nacque un’amicizia tra loro. Lo conoscevamo tramite Materiali Sonori e spesso ci vedevamo a cena quando veniva a Roma. Ci vide in un concerto in duo che filmò e il video è disponibile su YouTube. E’ buffa questa cosa di lui che ci fa questa ripresa tutta strana. Gli venne l’idea di fare un progetto con noi. L’idea iniziale era quella di fare un disco su Gesualdo da Venosa e dal mio studio, salimmo in casa per prendere dei dischi. Siccome era febbraio avevo ancora in giro da Capodanno il disco di “Disco Inferno” dei The Trammps. E gli venne l’idea di giocare con la disco music, suonandola con gli strumenti mediterranei. Scendemmo in studio e cominciammo a provare “I Feel Love”. Durante la lavorazione, purtroppo, scoprì di avere un tumore. Lo andammo a trovare a Parigi e ci disse che dovevamo finire il disco anche se lui aveva mixato solo tre brani. Quando morì non riuscimmo subito a metterci mano, ma poi ci scrisse il suo tecnico del suono il quale aveva trovato un mix fatto con Hector qualche mese prima. Ritornammo a Parigi, ascoltammo il mix di “I Feel Love” e in quel momento mi commossi perché mi sembrava di avere Hector al mio fianco. Così finimmo il disco e lo pubblicammo due anni dopo. Non abbiamo voluto farlo uscire prima perché ci sembrava di sfruttare la sua morte, ma poi fu come se gli avessimo reso omaggio pubblicandolo. Da allora ho cominciato ad usare lo studio in modo differente perché Hector era geniale. Ai cantanti li faceva sdraiare per terra per togliergli l’espressività, faceva un rumore con la mano e da lì nasceva un ritmo campionato. Da allora c’è una qualità maggiore delle mie incisioni perché ho utilizzato quello che mi ha insegnato lui.
Concludendo con Materiali Sonori, hai realizzato diverse colonne sonore...
Si certo da “La Passione” ai lavori con Massimo Popolizio e probabilmente ne faremmo altre, tutte con Materiali Sonori. Finisterre da ormai un decennio pubblica i dischi di Banda Ikona mentre i progetti collaterali li realizziamo con i fratelli Bigazzi con cui c’è uno splendido rapporto di amicizia. Ho pubblicato con loro i dischi dei Novalia, ma anche i lavori con Valerio Corzani, Café Lotì, e “Sale” di mio figlio Eugenio.
Salvatore Esposito
Foto di Roberto Moretti
Stefano Saletti & Banda Ikona – Mediterraneo Ostinato (Finisterre, 2021)
#BF-CHOICE
Questa nuova riflessione sul Mediterraneo abbraccia un mondo intero di immagini, sensazioni, suoni e parole, luoghi. Come e più che in passato, Stefano Saletti & Banda Ikona attraversano uno spazio sempre più denso, in cui non dobbiamo certo cercare i punti di riferimento, come si faceva un tempo, nello stupore e nella curiosità, quando si “contattava” la world music (quando si “contrattava”, allo stesso tempo, la sua forma, la sua definizione, la sua esistenza). Certo, volendo indugiare sullo stile, scopriremmo i modelli della compresenza, direi (con sincero appagamento) gli elementi basilari della contaminazione (etnica?) in musica. Ma la densità dello spazio che delinea “Mediterraneo Ostinato” non ha a che fare propriamente con lo stile, con un’estetica che (pur nella sua innegabile raffinatezza) colpisce perché consapevole, presente, reale, realmente affettiva, effettiva, inevitabile. Tutti noi che ascoltiamo l’album – soddisfatti dalla lettura delle parole che ci regala Saletti nell’intervista – abbiamo a che fare con una densità più di struttura, di sguardo direi. La densità del pensiero dell’osservatore che ammira e frequenta, partecipa, analizza e traduce: cioè lascia passare, condivide e guarda evolvere il suo pensiero, ricondotto alla dimensione di una rappresentazione che non esclude nulla, così come non include tutto. Una rappresentazione che non vuole soddisfare la curiosità (il paradigma è totalmente fuorviante, in musica come in ogni altro ambito), ma piuttosto stimolarla. Così, il pensiero che Saletti esprime nella scrittura dei brani dell’album è fuori dalla gabbia della musica stessa, e si riflette “sull’uman genere” con un concetto musicale che più organico non può essere: punta sulla storia sociale e sulla cultura espressiva di chi vive e ha vissuto nel Mediterraneo, riconducendo il suo discorso alla concretezza e alla politica delle relazioni. Come dice lui stesso nell’intervista: la realtà del racconto sta tutta dentro “un Mediterraneo militante”, che “non si arrende di fronte al pensiero unico dominante”, ma al contrario “affronta a viso aperto le nuove emarginazioni per abbattere il crescente divario tra il nord e il sud del mondo”. In questo quadro si riconosce la necessità di una narrativa articolata in modo tale da rendere la complessità di temi e tensioni così attuali. Non è solo un approccio che vuole includere i tasselli necessari alla descrizione, facendone una composto pesato sulla difficoltà politica di un confronto inevitabilmente sbilanciato. È piuttosto un discorso costruito sulla necessità di una rappresentazione frammentata. Ecco allora che la categoria del “concept” può essere interpretata anche al contrario, senza per questo perdere il valore intrinseco che orienta la scrittura e la rappresentazione: da linea che unisce i brani diviene riflesso delle frammentazioni che compongono l’argomento di cui si parla, ovvero il tema che si suona. Insomma, l’elemento di base – il Mediterraneo, che emerge dall’album come una sacca di voci e suoni allacciati a un sud reale, sofferente e poetico – è contraddittorio (quale “parte” non lo è?) ma non necessariamente disorganico. E da qui l’ulteriore e conclusiva riflessione: cos’è che vogliamo, una musica vera o una musica immaginata? Possibilmente entrambe, perché è proprio questa ambivalenza che Stefano Saletti & Banda Ikona producono con il linguaggio di questo nuovo album. La verità la si è ricercata nei suoni e nei musicisti. Come abbiamo visto, i primi sono il frutto di una lunga ricerca, che ha portato a lavorare nella direzione di una sottrazione quantitativa e non qualitativa (ogni strumento esprime così la massima ampiezza di suono, perché si assicura la “valorizzazione dei singoli interventi”), mentre i secondi sono “navigatori” esperti, tanto competenti in musica quanto sensibili ai temi in questione. L’immaginazione è, come sempre si deve auspicare, il sostegno “ostinato” di ogni nota e ogni sillaba dell’album: “E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca”.
Daniele Cestellini
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Global Sounds