Stefano Saletti & Banda Ikona – Mediterraneo Ostinato (Finisterre, 2021)

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Stefano Saletti & Banda Ikona sono tra le poche realtà in Italia ad esplorare, indagare e raccontare l’area del Mediterraneo nella sua essenza più profonda con la sua poesia, il suo fascino ed anche le sue tante contraddizioni. Lo hanno fatto sempre con misura, attenzione e trasporto emotivo, cogliendone gli umori, le suggestioni, i colori, ma soprattutto la sua natura originaria che lo vuole luogo di incontro, dialogo ed interscambio. Un ideale spazio comune in cui popoli diversi si relazionavano nel rispetto delle diversità e questo nonostante le tante guerre che ne hanno insanguinato le acque. Dopo il racconto dal taglio politico di “Folkpolitik” e lo sguardo rivolto ai suoni delle città che si affacciano sul Mare Nostrum di “Soundcity”, ora Stefano Saletti e Banda Ikona con il nuovo album “Mediterraneo Ostinato” cantano di un Mediterraneo militante, combattivo ed ostinato che non si arrende di fronte al pensiero unico dominante, che lotta contro ogni omologazione culturale, sociale ed economica ed affronta a viso aperto le nuove emarginazioni per abbattere il crescente divario tra il nord e il sud del mondo, tra ricchezza e povertà. Per fare ciò ci invitano a guardare alle nostre radici, al passato quando arte e cultura erano le basi su cui si reggevano percorsi e storie condivise. Come nei dischi precedenti anche questo nuovo lavoro vede protagonista il sabir, l’antico idioma utilizzato dai mercanti europei per dialogare con arabi, turchi e maghrebini, ma non manca l’utilizzo dell’italiano e dell’arabo, unito a melodie che dalla tradizione curda toccano quella ebraico-sefardita. Ad impreziosire il tutto sono i tanti addentellati letterari che danno spessore e corpo ad un lavoro prezioso tanto dal punto di vista concettuale, quanto da quello musicale. Di tutto questo e molto altro abbiamo parlato con Stefano Saletti a margine di un pranzo domenicale da Fabrica, locale romano da lungo tempo eletto come base operativa di Blogfoolk.

Come nasce “Mediterraneo Ostinato”? Raccontaci un po’ la storia di questo nuovo disco…
Questo nuovo album ha preso vita da una serie di impulsi ed ispirazioni. Innanzitutto, ci ha colpito questo dibattito tra gli stati europei del nord che sono frugali, attenti, rigoristi, belli e specchiati, e noi mediterranei brutti, sporchi e cattivi. Onestamente questa cosa mi dava fastidio perché penso che le basi della nostra civiltà siano nel Mar Mediterraneo con la Grecia, l’Italia e la Spagna che sono state la culla del pensiero europeo. Invece, questa civiltà veniva uccisa dalla narrazione che veniva fatta dai rigoristi, quelli che si considerano il buono dell’Europa mentre noi siamo la zavorra. Certo ci sono tante colpe negli stati che si affacciano sul Mediterraneo, ma esistono anche i pregi, le bellezze e tanta arte e storia. E’ nato, quindi, il pensiero di esternare l’esigenza che abbiamo di difendere il nostro modo di essere perché ha insegnato tanto agli altri e ci rappresenta. Perché mai dovremmo sentirci olandesi o tedeschi quando noi abbiamo delle caratteristiche meravigliose che sono quelle dell’accoglienza, di un modo di essere, mangiare e produrre e di vivere il nostro tempo. Partendo da questa considerazione ad ampio raggio mi è venuta l’idea di rivendicarla e quindi da qui l’idea di “Mediterraneo Ostinato” ovvero ostinatamente mediterranei, un modo di essere da difendere. Quando vado nel Maghreb mi sento molto più vicino culturalmente ad un marocchino o un tunisino piuttosto che ad un cittadino dell’Europa del nord. Nei vicoli di Algeri, Genova, Napoli, Palermo o Istanbul ritrovi un po’ lo stesso spirito con queste strade piccoline e strette che svelano scorci di mare e quei muri scrostati che sono un po’ le rughe che sono sulle nostre facce, facce che hanno vissuto e hanno millenni di storia, racconti, vicende ed interconnessioni perché il Mediterraneo è questo. 
E’ da sempre un posto di incontri, scambi e quanto ogni cultura ha dato all’altro. 

Come i precedenti anche questo disco segue un preciso concept…
Non sono mai riuscito a mettere nei miei dischi una successione di canzoni senza un filo conduttore. Se ci pensi tutti i miei dischi ruotano intorno ad un tema ben preciso è stato così per i precedenti “Soundcity” e “Folkpolitik, ma anche per “Marea Cu Sarea” e “Stari Most” che era sul rapporto tra Oriente ed Occidente. 

Entriamo nel vivo della genesi del disco…
Ho scritto il disco praticamente di getto nell’arco di venti giorni a settembre del 2019. Quasi in parallelo ho lavorato anche sui testi come sempre in sabir, ma rispetto ai precedenti ci sono più brani in italiano. Dal punto di vista delle ispirazioni ho tratto spunto dalla letteratura europea e del Mediterraneo con suggestioni che vengono da Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Alda Merini ma anche Kostantin Kavafis, Antonio Machado, il poeta curdo Abdulla Goran. Citare questi scrittori significa far emergere il legame che esiste tra i popoli del Mediterraneo nei temi come nelle melodie e negli strumenti. 

Tutti i tuoi dischi hanno sempre una dimensione corale con Banda Ikona che è un ensemble aperto a collaborazioni ed incontri. Non fa eccezione questo disco a cui hanno partecipato diversi ospiti…
C’è il nucleo storico che è quello con cui suono abitualmente dal vivo. C’è la voce di Barbara Eramo con le sue sfumature mediterranee che sembra quasi accarezzare le parole. Gabriele Coen con i suoi fiati, Mario Riversa al basso acustico che è diventato un elemento caratterizzante del nostro sound e Giovanni Locascio con il suo set misto di percussioni. A questa line-up si aggiungono l’apporto storico di Carlo Cossu al violino e quello di Arnaldo Vacca alle percussioni. In questo disco all’organico si sono aggiunti gli ospiti. Yasemin Sannino alla voce, anche lei collaboratrice storica della banda che duetta con 
Barbara nel singolo “Anima de moundo”, dando vita ad un magnifico intreccio tra le loro voci, ed interpreta “Nare nare”, un brano tradizionale armeno. Era bello farlo rileggere ad una cantante italo-turca per dargli un significato politico, visto il mancato riconoscimento di quello che è stato un vero e proprio sterminio perpetrato dai turchi nei confronti degli armeni. C’è Gabriella Aiello che canta con me “Mediterraneo Ostinato” in cui c’è una parte in dialetto reatino riprendendo, se vogliamo, qualcosa anche dall’esperienza dei Novalia. Lucilla Galeazzi canta due brani ovvero “Canterrante” che ho scritto proprio pensando a lei e l’altro è una colonna sonora che avevo fatto e mi sembrava bello che lo interpretasse lei. Nabil Salameh canta in “Boulegar” che vuol dire mescolare, un concetto che a noi piace molto e lui lo ha reso benissimo. Per altro, i Radiodervish hanno fatto un disco con dei brani in sabir e, prima di pubblicarlo, mi hanno scritto chiedendomi se potessero utilizzare questa lingua. La cosa mi ha sorpreso molto perché non ho inventato io questa lingua ma piuttosto l’ho riscoperta, ma mi ha fatto piacere in quanto hanno riconosciuto il mio lavoro. Aggiungo anche che in “Boulegar” c’è un coro sul finale ed è quello del Baobab Ensemble che è il laboratorio di canti e musiche del Mediterraneo attivo ormai da alcuni anni con la direzione mia e di Barbara. Loro cantano proprio la melodia tradizionale curda con in sottofondo i rumori di una manifestazione che avevo registrato a Roma. Non mancano anche gli amici di Café Loti con Nando Citarella con cui duetto in “Moucha mia” e “Pejman Tadayon” che suona ney, daf e tamburi in due brani la già citata “Boulegar” e “Il sono del Mistral” in cui canta anche insieme a me e Barbara. Ai fiati c’è anche Renato Vecchio che suona la ciaramella in “Anima de moundo” e il duduk, strumento tipico della tradizione armena di cui è fine interprete, in “Nare nare”. Non posso non citare anche i due organettisti Riccardo Tesi e Alessandro D’Alessandro, il cui apporto è stato fondamentale ognuno con il suo stile differente ma ben caratterizzato. Ed ancora la straordinaria Giovanna Famulari 
al violoncello in tre brani. Lei è una donna e una musicista eccezionale con alle spalle un grande lavoro al fianco di Tosca. Insomma, è un disco dal suono molto ricco.

Rispetto ai precedenti, però, l’approccio agli arrangiamenti è diverso. Sembra come se avessi lavorato per sottrazione…
Prima di fare un disco nuovo mi capita spesso di riascoltare gli ultimi album e penso che “Soundcity” sia un bel disco ed avevo quasi paura nel fare un lavoro che non fosse all’altezza del suo suono. Ho pensato che scegliere la strada di una valorizzazione dei singoli interventi fosse una via da esplorare non fosse altro che, come dicono gli inglesi, less is more. Più togli negli arrangiamenti, più hai un suono pieno. E’ una cosa paradossale ma è così. Se fai un disco con una chitarra e una voce avrai un suono pieno. Se registri bene entrambi, basteranno quegli strumenti per riempire lo spettro sonoro. Aumentando gli strumenti devi stare attento perché rischi che nel tentativo di far entrare tutti nel suono che esce dalle casse, fai dei suoni piccoli che danno un risultato povero. Non ho fatto un disco chitarra e voce perché è ricco dal punto di vista sonoro ma ho cercato di valorizzare lo strumento in funzione della composizione. Beatles e Pink Floyd registravano su un quattro piste e poi facevano delle sovraincisioni sui pre-mix ed hanno fatto dei capolavori. Oggi si può fare un disco con settecento tracce, ci si può mettere dentro di tutto con strumenti che entrano ed escono. Alla fine, viene un risultato non naturale che toglie spazio all’ampiezza del suono. 

Ovviamente hai inciso tutto ai For Wind Studios…
Ormai da tredici, quattordici anni registro tutto nel mio studio perché posso curare e seguire ogni dettaglio. E’ un piccolo laboratorio artigianale e mi piace cesellare il tutto. Mi piace tanto lavorarci perché mi diverso a sperimentare. Provi un suono, poi un altro. 
E’ una cosa divertente perché lo studio stesso diventa uno strumento. Poi verifico tutto con Fabrizio De Carolis che è un grande masterizzatore, facendo anche dei pre-ascolti con lui per cercare la direzione giusta. Lui mi da sempre tanti suggerimenti ed è bello questo confronto che nel tempo faccio con lui. 

E’ un opera di avvicinamento lento al disco…
E’ come l’opera di uno scultore che dal pezzo grezzo di marmo incomincia a sbozzare la pietra per arrivare all’essenza.

Quanto tempo trascorri in studio?
Adoro stare in studio di registrazione ma non sono di quelli metodici come poteva essere Morricone che ogni mattina si alzava, componeva un po’ di musica, faceva una pausa e poi andava in sala. Io, invece, posso passare anche alcuni mesi a studiare intensamente prima di mettermi al lavoro per un disco. In questo periodo non sto lavorando ad alcun progetto specifico e, quindi, in studio non ci vado spesso ma solo quando devo fare qualcosa. Quando, però, ci sto diventa totalizzante. Posso trascorrerci ore e giorni in cui dormo pochissimo perché ho quella frenesia di modellare quel famoso pezzo di marmo. Quando lavoro e sono sotto pressione rendo anche molto di più. Nella quotidianità lo faccio ma è molto mestiere se devi fare, ad esempio, una colonna sonora o altro.

Altra particolarità di questo disco è che si ascolta di più la tua voce…
Canto di più perché mi piaceva far sentire la mia voce e questo anche in relazione all’esperienza con Café Loti, in questo trio ognuno di noi ha portato il proprio mondo musicale e vocale. Chiaramente Nando è un po’ la prima voce ma sia io che Pejman abbiamo tirato fuori la nostra parte vocale, infatti il trio si regge molto sull’impasto dei tre timbri. Ho pensato, così, che anche con Banda Ikona potevo trovare il coraggio di ritagliarmi il mio ruolo alla voce. Ho sempre lavorato con Barbara e Yasmine ma anche con Lucilla e Gabriella ed era quasi inutile la mia voce e spesso mi limitavo ai cori o alle seconde voci. 
E’ anche vero che essendo l’autore di tutti i brani, ad un certo punto se una composizione si adattava anche alla mia voce potevo interpretarlo io. Considera che ogni volta che scrivo una canzone la canto io, poi la registro e la faccio ascoltare a chi deve cantarla, registrando poi la loro voce, togliendo la mia. Mi sono accorto che, in alcuni brani, se univo la mia voce a quella di Barbara o Yasmine la cosa funzionava. In altri casi ancora sono io a cantare come solista “Cantar”, il brano che chiude il disco ma anche, come detto, “Anima de moundo” con Barbara e Yasmine, “Il sono del Mistral” con Barbara, “Mediterrano Ostinato” con Gabriella, “Boulegar” con Nabil e Barbara, “Moucha mia” con Nando. Ho visto che l’apporto della mia voce con il suo timbro non toglieva al disco ma piuttosto aggiungeva, visto che a cantarlo ero io che avevo composto il disco. Mettendomi al servizio del mio progetto, ho notato che poteva funzionare.  

Come si è evoluta la tua ricerca musicale e tematica a partire da “Folkpolitik” che nel tuo percorso ha rappresentato una cesura importante…
C’è stata una evoluzione naturale perché, seppur molto pensati, i miei dischi sono il frutto del lavoro che faccio anche ad istinto. C’è una cosa che mi piace e vado avanti, se non mi piace la lascio. E’ un percorso frutto anche degli incontri fatti in questi anni con tante persone e i tanti amici con cui abbiamo cominciato delle collaborazioni. Da ognuno ho preso qualcosa e questo mi piace molto. Nella maturazione di questa consapevolezza mediterranea ha contato molto anche il fatto di aver suonato molto all’estero e “Folkpolitik” che è del 2011 nasce proprio da questo e, infatti, ruota sulla resistenza spagnola e gli antifranchisti. E’ stato un disco di grande successo e suoniamo molti dei brani in concerto ma siamo anche costretti a fare una selezione. Tutto quel lavoro di ricerca è ancora molto vivo e l’impronta politica è molto presente ma utilizzo parole mie non quelle di altri autori. In quel momento avevo voglia di quel tipo di approccio mentre in “Soundcity” volevo raccontare i suoni delle città del Mediterraneo che avevo visitato e mi avevano colpito. Molto importante è stata anche, recentemente, l’esperienza al Festival Sete Sóis Sete Luas per il quale ho diretto tre orchestre.

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