Marco Beasley – Due Radici (Autoprodotto, 2020)

#BF-CHOICE

Ci sono dischi che per genesi concettuale e realizzazione non possono che essere definiti come puri atti d’amore, un amore che si estrinseca non solo nelle diverse declinazioni artistiche ma che diventa anche quel qualcosa in più rispetto ad altre opere che danno l’impressione all’ascoltatore di trovarsi di fronte ad un capolavoro. E’ il caso di “Due Radici” di Marco Beasley, album registrato con Stefano Rocco (arciliuto e chitarra barocca), già al suo fianco nella fortunata esperienza con Accordone e che giunge a tre anni di distanza da quell’altro gioiello che era “Catarì, Maggio, l’Ammore…”, affascinante omaggio alla canzone napoletana inciso con il chitarrista Antonello Paliotti. A lungo meditato e realizzato durante il primo lockdown dello scorso anno, questo disco raccoglie le riletture di diciassette brani, selezionati tra un ampio repertorio che spazia dalla musica barocca alla canzone d’autore e che, nel loro insieme, compongono una sorta di autobiografia in musica, un viaggio emozionale che si dipana tra l’Inghilterra e l’Italia, tra Napoli e Coventry, le città a cui sono legate le origini familiari di Marco Beasley. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare questo nuovo album, senza dimenticare l’altrettanto splendido “La Porta d'Oriente”, realizzato in collaborazione con Constantinople e Kiya Tabassian e pubblicato quasi in parallelo.

Partiamo dal sodalizio con Stefano Rocco, la vostra conoscenza risale al 1979 all'epoca dell'università a Bologna. Ci puoi raccontare del vostro incontro e del vostro sodalizio artistico?
Conobbi Stefano nel 1979, frequentavamo entrambi il DAMS a Bologna. Come diventammo amici non lo so, credo che sia il mistero di ogni amicizia quello per cui alcune persone scelgono delle altre, non ne conosco i criteri; posso dire che mi stava simpatico, che a mensa ci ritrovavamo spesso allo stesso tavolo a passarci il pane e a chiacchierare. Si parlava bene, con toni a volte entusiastici ed altre volte molto pacati, coi lunghi silenzi e coi sorrisi aperti che si hanno a vent'anni, quando ti sembra di poter cambiare con i tuoi pochi mezzi le storture del mondo - se non oggi, domani certamente... Stefano era più avanti di me nel corso universitario e insieme ad altri amici mi fu di grosso aiuto nell'orientamento del piano di studi. Non molto tempo dopo ci ritrovammo a condividere una casa di studenti, un posto meraviglioso nell'immediata periferia di Bologna, una casa di parecchie stanze che si apriva sulla campagna e dove infatti si era in cinque e alle volte anche di più, tutti studenti del corso di Discipline della Musica. Lo ascoltavo suonare il liuto, preparava l'esame di diploma al Conservatorio di Verona; suonava a lungo e quelle musiche regalavano armonia all'atmosfera del nostro vivere quotidiano. Mi introdusse a quel repertorio che in seguito non avrei mai abbandonato, il Cinquecento e il primo Seicento, e cominciammo così ad esplorare il vastissimo fondo conservato nella biblioteca del Conservatorio Martini di Bologna e in quelle dei vari Istituti Musicali, repertorio che proprio in quegli anni veniva riscoperto da quei musicisti della generazione precedente la mia che considero come dei veri pionieri. Da lì, dal cantare e suonare davanti al camino, l'unico posto un po' caldo della nostra casa nei rigidi inverni bolognesi, è cominciato un sodalizio che ci ha portato in tante direzioni e a tante collaborazioni. 
Nel 1984, insieme anche a Guido Morini, organista, cembalista e compositore di rara bravura, finalmente decidemmo di proporre le nostre interpretazioni fuori dalla cerchia degli amici e creammo il trio Accordone, col quale per più di trent'anni abbiamo girato il mondo vivendo storie bellissime.

“Due Radici” ha preso vita in occasione del tuo sessantesimo compleanno per omaggiare le tue origini inglesi e napoletane. Com'è nato questo progetto?
E’ tanto tempo che volevo realizzare un progetto musicale ancora più personale rispetto a quelli precedenti, anche un po' sentimentalmente autobiografico e l’occasione me l’ha data il compimento dei miei sessant’anni, nel 2017. Lungi dall’essere un progetto autocelebrativo, “Due Radici” è invece un tributo a coloro che mi hanno permesso di vivere la musica come l'ho vissuta fino ad oggi, un omaggio alle migliaia di ascolti fatti sin da bambino e alla visione cul¬turalmente diversa che percepivo nelle vite dei miei genitori, mia madre italiana, inglese mio padre. Le mie due radici. L'album è volutamente in edizione limitata di trecento CD e di cento LP: sono tutti pezzi unici perché realizzati a mano uno per uno, nel senso che le cover dei CD e degli LP, le mappe con le loro piccole foto che accompagnano i libretti contenuti nelle confezioni dei dischi, i box e le foto di copertina e del retro vengono assemblati uno per uno sulla scrivania del mio studio e in seguito intitolati uno per uno a mano libera con la stilografica o col pennino a china bianca. E' un lavoro artigianale nel senso più vero del termine, un omaggio personale al singolo acquirente del disco, un oggetto fatto a mano che incontra altre mani: una scelta precisa per un ideale dialogo con l'ascoltatore, un pezzo unico, simile ma mai uguale all'altro. 
Non è la prima volta che faccio questo tipo di lavoro, ho iniziato in maniera più leggera col disco precedente, “Catarì, Maggio, l'Ammore” dedicato alla canzone napoletana. Il periodo del primo lockdown mi ha regalato il tempo necessario a realizzare il progetto nei suoi particolari, permettendomi anche di non cadere nello sconforto per la perdita completa di tutta la mia produzione concertistica già confermata e di quella di quest'anno, in gran parte cancellata anch'essa.

Come avete selezionato il materiale da rileggere?
Non è stata un'impresa semplice. I nostri dialoghi, le nostre pas¬sioni musicali tante volte coincidenti ci hanno portato alla scelta non facile dei brani di cui quest'album si compone. Scelta difficile ma necessaria quella di riassumere in pochi brani per noi significativi le tante idee e le forti emozioni degli ascolti che hanno modellato le nostre vite, per permetterci di restare nel breve spazio di un CD e in quello ancora più ridotto di un 33 giri. Tanti autori che amo e che sono stati fondamen¬tali per la mia ricerca e la formazione musicale non sono presenti in questa registrazione perché già rappresentati in altre incisioni precedenti; ne influenzano però a distanza lo stile del canto, la scelta delle interpretazioni, il contesto emotivo.

Ci puoi parlare del vostro approccio in fase di rielaborazione e riarrangiamento dei brani?
Nel libretto che accompagna l'album c'è uno scritto di Stefano Rocco che mi sembra rispondere bene a questa domanda, quindi faccio mie le sue parole: “Potremmo dire che l’approccio filologico all’esecuzione musicale è quello per cui si cerca, nei limiti del possibile, di rispettare il testo, di comprendere le intenzioni dell’autore e ricreare le caratteristiche sonore ed esecutive originali, cercando di mettere in secondo piano la soggettività musicale dell’esecutore. 
Abbiamo cercato di applicare questo approccio ai brani della popular music che fanno parte di questo disco. Ecco quindi che, ad esempio, “John Barleycorn,” di cui esistono molte e diverse versioni, viene qui presentata nella forma che le hanno dato i Traffic, oppure “River Man”, che non viene reinterpretata, ma eseguita riproponendo il particolare, essenziale, arpeggio chitarristico di Nick Drake, o, ancora, “Mio fratello che guardi il mondo,” in cui si cerca di ricostruire l’atmosfera diradata dell’arrangiamento di Fossati. Per quanto riguarda le musiche del repertorio antico, viceversa, l’approccio non  è sempre stato filologico, sia nella scelta degli strumenti utilizzati che nell’esecuzione. In generale si è cercata la massima linearità degli arrangiamenti, senza fare uso di sovraincisioni. Uno scarno materiale sonoro, su cui la voce possa muoversi nella più totale libertà.” A queste parole di Stefano, ci tengo ad aggiungere che insieme, stanchi e poco convinti degli esperimenti di ba-rock o delle tentazioni jazzistiche molto diffuse oggi come veicolo di trasmissione del repertorio antico ma che poco hanno a che fare con il linguaggio musicale del Rinascimento - esperimenti ai quali anch'io ben più di vent'anni fa ho creduto funzionassero, ricredendomi poi in fretta - ci siamo orientati verso quei brani che a nostro giudizio ben si adattavano agli strumenti di Stefano, notoriamente in uso tra il '500 e il '600.

Venendo alle session, nella presentazione ho letto che avete limitato al minimo le sovraincisioni...
I dischi che produco fanno sempre riferimento a un determinato programma già realizzato in sede di concerto, per cui cerco di riprodurre nella registrazione quel modello esecutivo che si è scelto in precedenza. Tuttavia il disco non è il concerto, manca tutta la dimensione visiva, manca il gesto fisico che accompagna ogni esecuzione e che fa strettamente parte del momento musicale, un supporto che una registrazione audio non può offrire. 
Ecco allora che in alcuni brani di questo disco preferisco aggiungere minimi interventi tipo una seconda voce oppure sovrapporre al canto il kazoo o anche duplicare le castagnette, strumenti entrambi sonati in concerto da me. Contemporaneità impossibile nell'esecuzione dal vivo ma che aggiunge atmosfere diverse nell'ascolto del disco.

Mi ha colpito molto la tua versione di “Cammina Cammina” di Pino Daniele, brano tra i più sofferti e riflessivi della sua produzione. Come mai hai scelto proprio questo brano?
Lo stereotipo del napoletano è quello di una persona costantemente allegra e dedita allo scherzo o alla irrisione di ciò che intristisce la vita dell'uomo. Dietro questo atteggiamento c'è quasi sempre un mondo di tacita sofferenza, di consapevolezza della fatica del vivere, di umiliazioni. Un modo per reagire è l'ironia, il saper “navigare a vista” nelle tempeste del quotidiano per mezzo di quell'arte di “arrangiarsi” come viene chiamata questa attitudine del meridionale e del napoletano in particolare. Pino Daniele sapeva parlarci benissimo delle fatiche dell'anima e “Cammina Cammina” ne è espressione molto intensa: l'uso della lingua napoletana contestualizza le emozioni create però da una storia perfettamente possibile in ogni luogo e compresa da tutti. La grande malinconia di questa canzone, l'amore che i versi descrivono, sono la testimonianza che solo chi ha conosciuto l'abisso comprende le stelle. 

Altro brano emblematico del disco è “John Barleycorn” dei Traffic ma che voi avete riletto come un brano senza tempo...
“There was three kings into the east,/Three kings both great and high,/And they hae sworn a solemn oath/ John Barleycorn should die.” 
Questi sono i versi con i quali si apre la Ballad del 1782 di Robert Burns, allora ventitreenne. In Due Radici John Barleycorn è il brano che più di altri rappresenta il trait d'union tra passato e presente. Il testo è quello leggermente diverso che Steve Winwood nel 1970 portò alla grande diffusione di pubblico con i Traffic e che ebbe un grosso impatto su tutti noi, negli anni in cui la musica di tradizione cominciava finalmente ad essere considerata non più come un qualcosa di povero e provinciale. Io ho sempre amato quella canzone e Stefano anche, per cui quando gliela proposi ne fu entusiasta e penso che questo sentimento traspaia nell'ascolto del brano. La storia dello Spirito del Grano, della nascita del whisky non appartiene molto alla mia parte italiana, ma quella inglese è felice di interpretarne le gesta raccontate nel drammatico e teatrale testo della canzone. Un brano senza tempo? E' una cosa che mi piace pensare, e se questo è l'effetto che siamo riusciti a trasmettere mi fa molto piacere, perché è esattamente come i racconti che si narravano attorno al focolare, quelli che cominciavano con “c'era una volta...”

Sempre nel versante delle radici inglesi mi ha sorpreso la scelta di “Horn & River Man” di Nick Drake, uno dei brani più intensi e poetici della sua produzione...
Non è la prima volta che canto un suo brano, l'ho fatto anni fa interpretando “Fruit Tree” con Beppe Gambetta nel suo disco “Rendez-vous” del 2008. Ci tenenvo particolarmente a tentare un omaggio a questo ragazzo geniale morto troppo giovane, a ventisei anni. La sua musica bellissima, fatta di armonie complesse ma assai orecchiabili, la sua voce tenue dal suono carezzevole e a volte quasi sussurrato, il suo carattere riservato e refrattario alle luci del palco... tutto questo era Nick Drake negli anni di massimo splendore dei Beatles e dei Rolling Stones. Nel 1969 “Yellow Submarine” e “Abbey Road” dei Beatles insieme a “Let it Bleed” degli Stones, raggiunsero un successo planetario.
In quello stesso 1969 venne pubblicato “Five Leaves Left”, l'album da cui è tratto “River Man”. Nick Drake fu uno dei tanti talenti che vennero stritolati dal confronto con quei colossi della musica commerciale. Del resto la sua musica era assai introspettiva, era un confronto da solo a solo con l'ascoltatore e questa era la sua forza. Ascoltandolo, sembrava che fosse lì con te, che ti raccontasse storie semplici e intense, non c'era mai un cedimento al verso superficiale. L'emozione che l'ascolto dei suoi brani causava, ci imponeva una fruizione silenziosa e attenta, un dialogo personale e sincero...
“Andrò a trovare l'uomo del fiume/ Gli dirò tutto ciò che posso/(...)/Se mi dice tutto quello che sa/Su come scorre il suo fiume”. “Horn”, che proviene dal suo disco Pink Moon pubblicato tre anni più tardi, nel 1972, è un brano assai breve e scarno, nell'originale poche note affidate alla sola chitarra. L'omaggio che Stefano ha voluto fare a questo brano e a Nick Drake è una sua propria armonizzazione per strumenti elettronici, che richiamano le sonorità che si stavano sviluppando in quegli anni; l'accostamento di questo brano con “River Man” è allora diventata molto naturale e sempre a proposito delle sovraincisioni, in chiusura di questo brano, che segna anche la chiusura del programma sia sul CD che sull'LP, vi è la presenza in secondo piano di una filastrocca proveniente da una registrazione della mia voce da bambino e che richiama idealmente l'inizio di “Due Radici”, dove grazie a una registrazione fatta da mio padre, canto “La Solitudine,” una piccola filastrocca all'età di quattro anni.

Non manca uno sguardo alla canzone d'autore con “Mio fratello che guardi il mondo” di Ivano Fossati e “Confessioni di un malandrino” di Angelo Branduardi...
Entrambe pietre miliari della canzone d'autore italiana. Due messaggi di speranza, diversi tra loro ma che vanno dritti al cuore. Il testo di “Mio fratello che guardi il mondo”, pubblicato ventinove anni fa, nel 1992, diventa sempre più attuale in questi tempi così insicuri. Ne ho parlato nel libretto allegato all'album: “Se non c'è strada dentro il cuore degli altri / prima o poi si traccerà,” scrive l'autore. Fossati, come tutti i genovesi, ha una personale riservatezza che chiunque visiti questa bella città ritrova nelle persone e nella pietra grigia di cui è fatta Genova, città sposata al mare ma innamorata della montagna. Il suo album è un inno a una libertà interiore e necessaria. 
Mi è particolarmente caro il brano che dà il titolo all'album, “Lindbergh”, perché ho sempre avuto la passione del volo e volare è sempre stato un mio antico sogno - aggiungo che a vent'anni presi il brevetto di volo, ormai scaduto purtroppo... - quindi il richiamo nel titolo al famoso aviatore fu il motivo principale del mio ascolto che mi commosse allora e continua a commuovermi oggi. Ed il testo di “Mio fratello che guardi il mondo” è bellissimo, amo molto cantarlo e questa nostra versione è un tributo proprio a Fossati, ai suoi versi unici e intensi. Il brano di Branduardi lo ascoltai nel 1975 e fui immediatamente colpito dalla bellezza dei versi di Sergéj Aleksándrovič Esénin tradotti in italiano. Renato Poggioli, critico letterario, slavista e traduttore, pubblicò nel 1949 l'antologia di letteratura russa “Il fiore del verso russo”, nella quale era presente la traduzione della poesia di Esénin “Confessioni di un teppista” a cui Branduardi con qualche ulteriore aggiustamento fatto da sua moglie Luisa Zappa, diede il titolo di “Confessioni di un malandrino”. A parte queste considerazioni ermeneutiche, il brano porta con sé il senso dello stretto rapporto del poeta con il mondo contadino in contrapposizione con la sua realtà di artista riconosciuto e apprezzato, magistralmente descritto da versi potenti e fortemente evocativi. Nel 1975 avevo diciotto anni ed ero affamato di storie e quei versi ebbero un effetto dirompente su di me: si parlava con parole semplici e dirette di un amore universale, di un passaggio fondamentale della vita, quello dall'adolescenza all'età adulta. Un momento di grande fragilità e profonda emotività espresso in maniera toccante da un giovane poeta che non ebbe il tempo di maturare la sua età adulta. Tentò più volte il suicidio, Sergej Esénin e ci riuscì a soli trent'anni la sera di lunedi 28 dicembre 1925.
 
Venendo ai brani di musica antica. Quali sono quelli a cui sei più legato?
In verità non ci sono brani a cui sono più affezionato, dipende molto dal contesto nel quale si presenta l'occasione di cantare. Trovo di grande intensità “Io non compro più speranza”, frottola di Marco Cara contenuta nel disco “Le Strade del Cuore” (2016) o “Eufrosina”, brano medievale di autore anonimo ne “Il Racconto di Mezzanotte” (2013); oppure il canto breve ma denso di significati di “Remember me” di Purcell in rapporto a “La Zotta” di Fogliano, entrambi scelti per essere proposti in questo “Due Radici”; a tutti son legato e slegato allo stesso tempo. Esistono indipendentemente da me, non me ne approprio perché non dimentico mai di essere un interprete. Questo mi permette un approccio ai brani abbastanza oggettivo ma in fondo certamente sentimentale.

Quasi in parallelo a “Due Radici” è uscito anche “La Porta d'Oriente”. Com'è nato questo lavoro in collaborazione con i Constantinople?
Constantinople è un gruppo domiciliato in Canada di musicisti di grande valore, di provenienza canadese, persiana, turca. Col fondatore del gruppo, Kiya Tabassian, ci incontrammo in occasione di un breve tour che stavo facendo in Canada e mi propose una collaborazione su un repertorio “mediterraneo”, in particolare su di un manoscritto di contenuto letterario e musicale redatto da un personaggio vissuto in pieno Seicento: il polacco Wojciech Bobowski, musicista, poeta, intellettuale, catturato dai turchi all'età di ventotto anni e trasferito in Turchia dove, divenuto traduttore del sultano e musicista del Serraglio di Topkapi, si convertì all'Islam col nome di Ali Ufki. Questo manoscritto contiene brani musicali e letterari di diversa provenienza, testi orientali e occidentali e anche ampi estratti della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, tra i quali il “Combatimento di Tancredi e Clorinda” monteverdiano: nell'elaborare il
programma ci è sembrato ovvio utilizzare questo capolavoro come ideale fil rouge tra i vari brani turchi, persiani e italiani che compongono il programma. Il rapporto tra Oriente e Occidente, il conflitto mortale, il dialogo amoroso, i significati religiosi che permeano il tessuto narrativo del “Combatimento,” la loro attualità, ci sono sembrati la chiave giusta per un momento meditativo sul senso delle cose, una chiave che aprisse ciò che si tende a chiudere.

Com'è stato lavorare con questo ensemble?
Grande comunione d'intenti, facilità di comunicazione, organizzazione e ospitalità impeccabile. Sono veramente grato a Kiya e agli altri componenti di Constantinople per il lavoro svolto e sono certo di poter parlare anche a nome di Fabio Accurso e di Stefano Rocco, i quali hanno partecipato con passione a questa nuova avventura concertistica e discografica. Indubbiamente ci si sente più ricchi dentro dopo aver condiviso tempo, chiacchierate, competenze e cibo con colleghi di questa levatura ed è ancora più arricchente sentire la comunanza di intenti musicali, interpretativi e non solo che fanno parte dell'idea concerto. Da queste esperienze si esce col desiderio di farne ancora, di studiare ancora, di progettare e eseguire ancora nuovi programmi. Il tempo deciderà.

Concludendo. Quali sono i tuoi progetti futuri? Cosa bolle in pentola?
Vivere, in questo momento delicato del nostro tempo. Vivere, non sopravvivere.
E poi vedrò, ascoltando il mio cuore.


 
Marco Beasley – Due Radici (Autoprodotto, 2020)
“Ho già scritto altrove che i dischi sono messaggi in bottiglia: come gli altri, anche “Due Radici” spera in un viaggio avventuroso e in un’onda pacifica, spera in un approdo accogliente”
. Così Marco Beasley ci schiude le porte al suo nuovo album “Due Radici”, registrato a Genova, città che lo ha accolto da diversi anni, tra marzo 2019, aprile e ottobre 2019, con la partecipazione di Stefano Rocco (arciliuto e chitarra barocca) con il quale aveva condiviso il trentennale cammino artistico con Accordone, insieme a Guido Morini. A lungo meditato e finalizzato in occasione dei suoi sessant’anni, questo nuovo disco raccoglie quattordici brani che rappresentano le tappe di un ideale  itinerario sonoro che si dipana da Napoli, città che diede i natali alla madre, a Coventry, dove nacque il padre, dall’Inghilterra all’Italia, attraversando secoli di storia e musica e, nel contempo, ripercorrendo il suo percorso artistico e formativo, nel quale sentimenti e suggestioni. Il solo avere tra le mani, il cofanetto che racchiude il disco è già un’emozione, un’emozione che cresce ascolto dopo ascolto ma anche leggendo le storie e i ricordi racchiuse nelle note personali firmate da Beasley e contenute nel booklet che lo accompagna e proposto anche in versione in inglese con tutti i testi e le traduzioni. Ad impreziosire il tutto un ricco apparato iconografico e una sorta di mappa concettuale in formato poster realizzata a mano e che riannoda i fili del tempo collegando le immagini con i brani del disco. L’ascolto si apre con una registrazione del 1961 in cui ascoltiamo la voce di Marco Beasley da bambino che recita la filastrocca “La solitudine” a cui segue la sontuosa interpretazione di “Poi che volse” del compositore cinquecentesco Bartolomeo Tromboncino e che ci porta ai primi contatti con la musica antica, scoperta proprio grazie all’incontro con Stefano Rocco che lo accompagna magistralmente. L’elegante resa della ballata narritiva “A scots tune” del compositore inglese Henry Purcell ci introduce alla prima sorpresa del disco “Mio fratello che guardi il mondo” di Ivano Fossati, interpretata con misura e gusto da Beasley e impreziosita dall’incanto delle corde di Stefano Rocco. Si torna al repertorio del Seicento con la poetica “Vuestros ojos” e il classico di Purcell “Music for a while” da “Oedipus” del 1692 per fare, poi, un salto indietro nel tempo, al Cinquecento, con la divertente licenziosità de “La Zotta” di Ludovico Fogliano e l’elegiaca “Si le parler et le silence” di Pierre Guèdron. Dal repertorio di Angelo Branduardi arriva “Confessioni di un malandrino” su versi di Sergéj Aleksándrovič Esénin, mentre dalla tradizione musicale garganica arriva la bella versione “La tarantella della neve” dal repertorio dei Cantori di Carpino. Il medley strumentale con “Blind Mary” di Turlough O’Carolan e la “Giga” funge da perfetta introduzione per l’incredibile versione di “John Barleycorn” dei Traffic di Steve Winwood. Uno dei vertici del disco arriva con la struggente “Cammina Cammina” di Pino Daniele che Beasley rilegge con passione e trasporto esaltando l’intensità poetica del testo. “Pase el agoa” dalla raccolta quattrocentesca “Cancionero Musical de Palacio” e “Folle è ben” di Tarquinio Merula ci accompagnano verso il finale con “Remember me” di Henry Purcell e “Horn & River Man” di Nick Drake che suggellano un disco prezioso ed emozionante come capita poche volte di ascoltare.


Salvatore Esposito


Marco Beasley, Constantinople & Kiya Tabassian – La Porta d’Oriente (Glossa Music, 2020)
Nel numero del 4 ottobre 2018 di Blogfoolk, Valerio Corzani aveva dedicato una gran bella foto al virtuoso di setar Kiya Tabassian, direttore dell’ensemble Constantinople. Da quel gruppo, un anno fa, avevamo incontrato il kanun di Didem Basar nel splendido album (“Chants des Trois Cours”) che Lamia Yared ha dedicato alle composizioni musicali colte attraverso l'Asia e il Mediterraneo. Ora, insieme all’ensemble Constantinople, il tenore Marco Beasley ci fa compiere un viaggio attraverso alcune delle pagine musicali più belle scritte fra il XIV e il XVII secolo fra l’area persiana, quella ottomana e la penisola italiana. Diciannove brani, un terzo strumentali, affidati al Costantinople in settetto, e una predilezione per il repertorio italiano con Borrono, Caccini, Monteverdi, Saracini e Strozzi. Cosa lega questi compositori ai repertori delle corti persiane e ottomane? Un manoscritto che ha viaggiato con Antoine Galland da Costantinopoli a Parigi, dove è arrivato nel 1675 e dove è custodito nella Biblioteca Nazionale. A raccogliere queste composizioni in un unico testo (“Mecmûa-i Sâz ü Söz”) era stato Ali Ufki, nato in Polonia nel 1610 col nome di Wojciech (Albert) Bobowski, arrivato quasi trentenne a Costantinopoli in schiavitù, per poi convertirsi all’Islam e prestare servizio come traduttore e musicista per Murad IV, Ibrahim I e Mehmed IV. Marco Beasley e Constantinople hanno selezionato alcune gemme da quell’autentica miniera che è la raccolta di Ali Ufki, proponendole dal vivo e registrandole con James Clemens-Seely a Banff, in Canada, a maggio 2019. L’album organizza con cura la successione dei brani. “Dalla porta d’Oriente” di Giulio Caccini apre il disco celebrando il canto monodico e gli aspetti recitativi eseguiti con padronanza ed espressione da Beasley. In sintonia con questo registro, un’attenzione particolare viene prestata al “Combattimento di Tancredi e Clorinda” con il recitativo del “Prologo alla Notte” di Torquato Tasso ad introdurre il primo dei tre brani di Claudio Monteverdi, “Notte, che nel profondo” e versi del Tasso intersecati a versi di Hafez premessi al “Dialogo dei duellanti”. Inevitabile trovare la “Morte di Clorinda” a chiusura dell’intero lavoro. Ma gli abbinamenti felici riguardano anche la voce di Kiya Tabassian che sa mirabilmente avvolgere al canto tradizionale “Fronni d’alia”, interpretato da Beasley, i versi di “Ey Sa¯reba¯n” del poeta persiano del XIII secolo Sa’di, preceduti dal ritmato brano strumentale “Fath-e Bâb” attribuito, come altri quattro brani, allo stesso Ali Ufki. L’album è anche un’occasione per ascoltare un trittico di tarantelle: si comincia con “La campana sona!” del XVI secolo per finire con il trascinante “Compendium Tarantulae”, strumentale che dobbiamo al lavoro di ricerca di Athanasius Kircher, passando per una danzante “Como sencza la vita” di provenienza napoletana, che mette in bella evidenza il violino barocco di Tanya LaPerrière. Tutti i musicisti offrono un contributo determinante e mostrano un alto grado di affiatamento, opportunamente in risalto nei brani strumentali più estesi come “Kürdi Pishrow”, con il dialogo fra la tiorba di Stefano Rocco, il liuto di Fabio Accurso, il violoncello barocco di Elinor Frey e le percussioni di Patrick Graham. Lungo tutto l’album, spicca l’intesa fra la voce tenore di Beasley e l’ensemble, abili a declinare questi repertori in molteplici contesti espressivi, così come a tessere elementi di continuità che dipingono una volta di più il Mediterraneo come sesto continente musicale.


Alessio Surian

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