Cocanha – Puput (Pagans, 2020)

“Puput” è il nome occitano dell’upupa euroasiatica, uccello dal becco lungo, sottile e leggermente arcuato, dorso arlecchino e volo a scatti e saltellante. “È stato scelto anche per la sua forza sovversiva. Viene a mettere in discussione la nostra misoginia e il nostro rapporto con la norma sociale”, spiegano le Cocanha, ensemble femminile di Tolosa che ha pubblicato il secondo album, prodotto dall’avventuroso Raül Refree, ben noto polistrumentista e compositore (ha lavorato con Rosalía, Lee Ranaldo, Niño de Elche, Sílvia Pérez Cruz e Lina). Le fanciulle hanno esordito con un EP (2015), cui ha fatto seguito “I ÈS ?” (2017). In “Puput” cantano in trio, Maud Herrera, Caroline Dufau e Lila Fraysse (voci, tamburo a corde e percussioni), ma dal loro sito si apprende che la formula è cambiata dal momento che solo le ultime due, Caroline e Lila, fondatrici del gruppo, compongono l’organico. Incidono per la piattaforma Pagans, lanciata dal collettivo elettro-acustico sperimentale guascone Artús. Cocanha si presentano come esecutrici di “Chants Polyphoniques à Danser”, rappresentano una nuova e originale generazione di musicisti (pensate a Le Mal Coiffées o ai San Salvador, i quali incidono per la stessa etichetta) che esplora le possibilità sonore e comunicative della lingua occitana, sia sul piano fonico che su quello del significato (scelgono con cura le storie tradizionali da cantare e la loro riappropriazione non rinuncia ad intervenire sui testi tradizionali); creano sulla base di un portato popolare e popular, facendo convivere moduli di tradizione orale (lingua locale, stili polifonici del Béarn, strumenti come il tamburino a corde) con svariate influenze vocali e percussive: body percussion, sguardo a Brasile e La Reunion, stili polifonici di altre aree, rock, hip hop. La loro prassi esecutiva ben si enuncia nel tema d’apertura, “Suu camin de Sent Jacques”, primo di dodici brani. Si tratta di un tradizionale in cui l’impasto delle voci è sostenuto dal ritmo percussivo del tambourin à cordes, il salterio a percussione (di solito suonato con il flautino dallo stesso suonatore) che fornisce il bordone ritmico. Le fanciulle utilizzano tre tamburi accordati in modo diverso e dotati di corde di differente materiale (metallo, nylon e budello). Ai guizzi vocali di “Cotelon”, una delle due composizioni originali dell’album, ispirata da un lavoro dell’etnologa Isaure Gratacos sulle donne pirenaiche (“Femmes pyrénéennes: un statut social exceptionnel en Europe”, 1987) segue il classico tradizionale “Colorina de ròsa” (che ricordiamo nella splendida versione di Rosina de Pèira) costruito sull’iterato ritmo del tamburino. “Quauque còp” è proposto in due versioni, la prima per voci che forniscono impianto melodico e ritmico, e percussioni, la seconda – ultima traccia del disco – è eseguita con una magnifica procedura polifonica per sole voci. “Dos branlaboièrs” è il primo dei brani monodici affidato al canto di Maud Herrera, come a segnare una sorta di interludio nel programma corale del trio. Dopo le forti pulsioni ritmiche di “Janeta”, il trio propone “La sovenença”, un altro dei brani di punta per la vocalità fortemente improntata alla danza. A Lila Fraysse è affidata “La femna d’un tambor”, cantata in occitano e francese. I colori vocali delle Cocanha ritornano in trio con “Lo castèl rotge” e nella potente “Au son deu vriulon” che esalta le tre tessiture vocali e che si sviluppa in un magnifico crescendo canoro. Il canto solitario di Caroline Dufau propone “Bèth aubre”, mentre “Los aucèls”, l’altra loro composizione ispirata alla poetica seicentesca barocca del tolosiano Pèire Godolin, rimette al centro i ricami delle vocalità e la corporalità percussiva. Artiste che mettono sul piatto espressivo gran temperamento, bei colori timbrici e notevole senso melodico e ritmico, poetica di una lingua antica; che si avvalgono di una produzione e di un suono contemporaneo che fanno di “Puput” un lavoro a cui suggeriamo di non rinunciare. 


Ciro De Rosa

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