Stick In The Wheel è uno dei nomi che dimostrano come la scena folk britannica, al pari di quella d’oltreoceano, sia perennemente in grado di partorire nomi nuovi che garantiscono un costante ricambio generazionale nonché l’immissione di nuove e interessanti formule per rivisitare la tradizione. Il gruppo, nato circa otto anni a Londra, essenzialmente è divenuto un duo di cui ne sono parte Ian Carter (chitarre e voce) e Nicola Kearey (voce solista), anche se attorno continuano a ruotare altri musicisti, e così avviene in questo settimo album (includendo i due volumi battezzati “From Here: English Folk Field Recordings”, nei quali appare la crema del vecchio e nuovo folk revival inglese e di cui in pratica i due ne sono stati solo produttori e fautori). Tra le caratteristiche predominanti della coppia c’è una naturale passione per i canti della tradizione inglese che si riflette anche nel materiale di loro composizione, che è la parte più consistente del loro repertorio e risponde sempre a meraviglia all’idioma folk; questo però evocato attraverso un’ottica decisamente contemporanea che risulta lontana anni luce da una mera operazione di ricalco e, non solo appare imparentata con le più svariate espressioni musicali, ma è anche caratterizzata da soggetti che scavano nella storia della terra di Albione per confrontarla con il presente a dimostrazione che, pur in epoche diverse, non molto è cambiato in termini di ingiustizie, sopraffazioni, conflitti e tragedie.
Anche il nuovo disco appare come una sorta di opera a tema poiché prende in gran parte spunto da un antico testo, l’Exeter Book” che risale nientemeno che al decimo secolo; questo potrebbe aver influito su certe atmosfere piuttosto oscure e vagamente arcaiche anche se, va detto subito, è da rilevare la considerevole varietà con cui sono state arrangiate le canzoni, sempre comunque secondo un’ottica del tutto contemporanea. In “Hold Fast” si passa da “Top Knot” e “Soldier Soldier” (ispirata ad uno scritto di Rudyard Kipling di ovvio tenore antimilitarista), in cui la voce di Nicole è accompagnata solo dalla chitarra acustica, a “Bud & Snudg” che ha la cadenza di un morris (anche per l’uso del melodeon) e fa venire in mente l’Albion Band più ballereccia ma con un fervore più prossimo al punk che al folk-rock britannico; anche l’iniziale “A Tree Must Stand in The Earth” ha il sapore d’altri tempi, almeno sino a quando sopraggiunge una elettrica aspra e distorta. “Gold So Red” invece, una delle canzoni in cui la voce solista appare più o meno contraffatta, sembra decisamente in odore di psichedelia e “Possible Reasons For Eventual Admissions” è un brano lento e delicato che si poggia su una base elettronica, come avviene anche nell’unica traccia veramente tradizionale dell’album: “Drive The Cold Winter Away”, ancora con la voce di Nicole filtrata, ha un’atmosfera incantevole anche se l’arpeggio dei sintetizzatori potrebbe far pensare ad un incrocio fra i Kraftwerk ed Enya. L’elettronica è protagonista anche in “Nine Herb Charm”, in cui la voce recita su uno sfondo rumoroso e futurista che allontana pericolosamente il gruppo dall’ambientazione folk, come avviene nondimeno in “Villon Song” in cui il la Kearey declama con forza un testo scritto alla fine del XIX secolo dal poeta e giornalista William Ernest Henley sotto una ritmica martellante ed ipnotica; e la si ritrova infine nella conclusiva “Forward” che per fortuna recupera il fascino della contrapposizione fra il passato ed il presente. In sostanza, nel caso non fosse stato chiaro, questo è un album in cui è difficile annoiarsi e dove ogni singolo episodio può rappresentare una sorpresa ma anche un esempio di originale e prodigiosa ingegneria tesa a costruire un ponte fra tradizione e creatività.
Di tutt’altro tenore risulta invece l’ultimo lavoro di Cunning Folk, che per gli Stick In The Wheels è stato il bassista, oltre ad aver suonato con diverse altre band (come Circulus, Erland & the Carnival e Gay Dad) ed esibirsi in proprio anche come Nigel Of Bermondsey e Gentlefolk. Il suo pseudonimo principale deriva da un termine utilizzato per definire quelle figure proprie del folklore conosciute come guaritori ma addette anche a pratiche di magia e divinazione, diffuse come è noto non solo in Gran Bretagna ma ovunque in Europa. George Hoyle, questo il suo vero nome, presiede inoltre la South East London Folklore Society ed è molto attivo come organizzatore di festival ed altre manifestazioni dedicate alla musica ed alla cultura popolare inglese; infine i suoi due precedenti CD come Cunning Folk, pur proponendosi in una veste piuttosto fresca ed accattivante, erano prevalentemente acustici ed il secondo, “Constant Companion” conteneva perlopiù materiale di origine tradizionale.
“A Casual Invocation”, che lo stesso autore ha descritto come un incrocio fra i Martin Carthy, i Popol Vuh e Jean-Claude Vannier (compositore e arrangiatore francese che ha lavorato, fra gli altri con star come Johnny Hallyday, Jane Birkin e Françoise Hardy), è però davvero tutt’altra cosa: del primo artista citato in verità non c’è praticamente nulla perché questo disco gravita in un’area decisamente pop-rock, con sonorità molto anni ’70 che richiamano semmai Marc Bolan, il primissimo David Bowie, i Pink Floyd e, per restare in tema, il Donovan più psichedelico. Il disco infatti assembla in genere pianoforte elettrico, archi, sintetizzatori analogici ed altre sonorità piuttosto “vintage” e, benché non sia affatto privo di una certa “Englishness”, ha ben poco a che spartire con il folk e persino il folk-rock; l’episodio che più ricorda certo contemporary folk del passato è probabilmente il lunghissimo “A Song Of Low & High Magic”, un brano elettroacustico e prevalentemente strumentale che si snoda in oltre 18 minuti evocando, fra gli altri, i fantasmi di Roy Harper e l’Incredibile String Band. Sam Kelly (batteria) e Olly Parfitt (tastiere), già compagni d’avventura di Cunning Folk (voce, chitarre e basso) nei Circulus, hanno contribuito, insieme a Gemma Khawaja (voce) al risultato finale di quest’opera tutt’altro che disprezzabile, chiaramente confezionata con cura e finanche piuttosto elegante e piacevole, ma a mio avviso altrettanto lontana dai gusti di quanti di solito seguono una dieta musicale a base di Britfolk.
Massimo Ferro
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