A dir poco ipnotica, questa raccolta di brani nata dall’incontro tra Yagos Hairetis e Maria Christina Harper racchiude un viaggio in profondità, una lunga esplorazione del mondo intimo e sincero di due grandi strumenti, il liuto e l’arpa. Quest’ultima, suonata dalla Harper, avvolge le sette composizioni che compongono “Drafts”, primo album del duo, con tessiture morbide e taglienti allo stesso tempo, ponendo le basi di un racconto scarno, a volte brutale, a volte tenue e vellutato (per comprendere in pieno il “linguaggio” arpistico della Harper – jazzista con la passione per la tradizione greca, diplomata alla Royal Academy of Music di Londra – si consiglia soprattutto il progetto “Women of Jazz”, in collaborazione con la cantante e trombettista Georgina Jackson). Il liuto del cretese Yagos Hairetis (il quale si inserisce nel solco della tradizione musicale dell’isola greca tracciato dai fratelli Psarantonis e Nikos Xylouris, al cui centro vi è la lyra, cordofono discendente dalla più antica tradizione bizantina e diffuso in buona parte, e con varianti locali, dei paesi del Mediterraneo) si accomoda sempre con equilibrio nelle trame della struttura armonica dei brani, producendo dei canti straordinari e agganciando melodie che sembrano galleggiare sulle mille corde dell’arpa (“Meadow”). Nell’incontro di questi due musicisti e virtuosi dei rispettivi strumenti si è prodotto un nuovo spazio di scrittura musicale: aperto a tutto, pieno di riferimenti a tradizioni lontanissime (dalla cultura musicale cretese alle avanguardie jazz londinesi), ricondotto però alla prossimità (alla promiscuità) necessaria ai due strumenti. Una vicinanza che sembra configurarsi come l’unica possibilità di produrre musica insieme: che genera suoni attraverso il contatto, come dimostrano anche le “prove” dal vivo che i due musicisti hanno sostenuto e che, insieme alla scrittura dei brani, li ha portati a realizzare l’album. Così, in questo doppio vincolo creativo, in questa nuova maniera di dialogo fra i due cordofoni, scrittura e improvvisazione si mescolano con naturalezza, elaborando un flusso che, nel paradosso di una cantilena mai uguale, reitera la forma originale di un confronto tra elementi che si comprendono, tra sguardi che si intendono. Se le voci “naturali” dei due strumenti emergono in tracce sempre riconoscibili, riconducendo le composizioni musicali anche alle matrici più basilari dei suoni delle corde, ciò che rigenera nel profondo i dialoghi e i brani che li accolgono (con modalità differenti pur in una formula reiterata in cui si alternano melodia e ritmo, sperimentazione e tradizione) sono i suoni trasfigurati (“Lute Interlude”). Gli effetti che inglobano i pizzichi delle corde (e che a volte, pur nella loro presenza caratterizzante, sembrano appena accennati) attraversano l’intero album come un’orchestra, identificando un orizzonte popolato da una modernità densa e reale, ben piantata nel corpo tradizionale e storico della cassa armonica, del legno (“Intro”). Non può essere altrimenti, pur in un programma votato all’alterazione del suono tradizionale: alla base ciò che più di tutto si sente sono le corde, le mani che le suonano, la tecnica che le fa vibrare con una forza che, allo stesso tempo in cui ne rimarca il carattere irriducibile, le trasfigura (“Lost in the city”). Nella produzione di “Draft” questo è uno degli elementi che più colpiscono, perché sottende un lavoro di equilibrio: la dinamica effettistica, che vuole evidentemente essere efficace, non contrae lo spettro sonoro naturale dei due strumenti. E, in questo modo, ne amplifica le voci, incardinandole alla fonte acustica originale. L’ampliamento della gamma sonora apre, così, una narrativa più intensa, solo in pochi tratti attraversata dal canto. Sembra anzi che, in ragione della struttura multiforme e melliflua dei brani in scaletta, la voce di Hairetis – ambiguamente profonda, quasi nascosta – intervenga per necessità, inserendosi in spazi angusti quasi come uno strumento baritonale, un bordone lontano che sorregge con mistero e curiosità l’intreccio di liuto e arpa (“Bells”).
Daniele Cestellini
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