“Donna, voja e fronna…” è composto da brani del repertorio di musiche di tradizione orale dell’Umbria, per gran parte scelti tra i documenti sonori registrati durante la campagna di ricerca del 1956, condotta da Tullio Seppilli e Diego Carpitella. I brani sono interpretati da Lucilla Galeazzi e Umbria Ensemble (formazione cameristica qui presente in quartetto flauto, due archi e pianoforte), con musiche originali di Piero G. Arcangeli e Raffaele Sargenti. Un book di circa cinquanta pagine introduce i contenuti musicali attraverso riflessioni di carattere storico, musicale, etnomusicale, metodologico. Il progetto si presenta come il risultato di un laboratorio “impossibile”, di un lavoro maturato dentro una pratica comune, dentro uno spazio non di mediazione ma di sperimentazione. E approfondisce - attraverso il dialogo tra gli interpreti e le espressioni musicali della tradizione orale umbra (canti devozionali, stornelli, ninna nanne e canzoni epico-liriche) - il ruolo della donna nel canto e nel contesto socio-culturale contadino. Di questa ambigua posizione riferisce anzitutto una riflessione dei protagonisti, riportata nella scaletta del disco in forma di “Dialoghetto”, che emerge tra le note sparse degli strumenti: cantare per la donna nel mondo contadino “è un modo di esprimersi” e “un modo di essere”, perché attraverso alcuni canti, che la svincolano dall’ambiente domestico, la donna assume delle posizioni, che hanno un valore sociale, culturale, politico. E da qui l’esegesi del titolo del progetto: “la voja” è la voglia della donna di comparire, “mettersi in piazza, cantare e sfidare” e “la voglia di andare altrove”.
E poi la “fronna”, come in quello stornello: “trema la vita mia come la fronna/ le bastonate che m’ha dato mamma”. La “fronna” è un simbolo della precarietà: “oggi stai bene e domani potrebbe avvenire un disastro in campagna” e perdi tutto, ci ricorda Lucilla Galeazzi. Insomma, “un titolo che ci riporta anche alla realtà di oggi”. A Piero G. Arcangeli - etnomusicologo, compositore e curatore del progetto - abbiamo chiesto di approfondire alcuni degli aspetti che ci sono sembrati più significativi di questo lavoro. Soprattutto perché negli scritti raccolti nel book svela alcune prospettive interessanti, che suggeriscono indirettamente anche nuovi paradigmi di analisi. Si è sviluppata così una riflessione densa e calibrata, che Arcangeli, in questa intervista/presentazione, ha ricondotto al cuore delle questioni che hanno ispirato “Donna, voja e fronne…”: l’idea di un approccio poietico entro cui coordinare l’incontro tra elementi distanti, la necessità di conoscere/comprendere, proprio dentro la tensione determinata da un processo storico e sociale di polarizzazione, musica colta e musica orale. E sperimentarne il dialogo attraverso prassi esecutive “altre”, sia per l’una che per l’altra.
In questo lavoro ci sono importanti elementi che raramente si incontrano: le musiche di tradizione orale umbre, registrate tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, cantate da Lucilla Galeazzi e suonate da Umbria Ensemble. Quali motivi ti hanno indotto a realizzarlo?
Mi è stato chiesto, e non è poco: una committenza è un attestato di credito, rimanda ad una qualche funzione artigianale, implica una condivisione di sensibilità e mestiere. Se una domanda arriva come domanda di senso, non resta che dare senso alla domanda.
Qui inizia il difficile. Come dico nel libretto, avevo evitato in passato di far incrociare la musica ‘orale’ contadina con quella scritta di ascendenza ‘classica-borghese’, proprio in quanto studioso e compositore, per una divaricazione insanabile generata da un lato dal rifiuto critico del ‘genere folk’ (campo di scorribande più interessate ad un’appropriazione indebita che consapevoli della auctoritas irripetibile delle fonti) e dall’altro dal narcisismo della musica d’arte, che paga con l’irrilevanza la propria ‘autonomia estetica’: uno sfizio privato, insomma. Perché dunque ho accettato la proposta? Se vuoi la verità vera, è che ad una certa età non si ha più il tempo di eludere le sfide impossibili, ne va della residua autostima… Aggiungi il gusto del paradosso, nel mostrare che soltanto la pratica rigorosa di differenze inconciliabili riesce ad aprire dimensioni di qualche interesse all’esperienza ‘poietica’. Per cominciare: nessuna contaminazione. Col consentire al gioco, sapevo di chiedere molto sia a Lucilla che all’ensemble: per l’una e per l’altro si trattava di varcare un confine insidioso. Non per niente abbiamo iniziato con degli incontri ‘seminariali’, certo non accademici, giacché scelte interpretative condivise mettevano ‘a rischio’ le rispettive competenze, per cui ad ogni ‘aggiunzione conoscitiva’ doveva corrispondere una ‘sottrazione di giudizio’, un passo di lato. E’ in questa fase che è maturata la selezione dei materiali etnomusicali sui quali concentrarsi, che rappresentassero – sia pure per poche suggestioni esemplari – la ricchezza dei reperti ‘umbri’, o meglio della cultura contadina e pastorale dell’Appennino centrale. Ma mentre le canzoni ‘epico-liriche’, le ballate e affini sono più vicine al senso e all’orecchio comune – sia perché di impianto para-tonale, che per i loro contenuti narrativi –, davvero problematico era ‘tradurre’ nel progetto le forme dello stornello, non solo per la sua molteplice funzionalità (dalla mietitura allo sberleffo), ma per la ‘durezza’ della sua arcaicità modale e la lontananza siderale del suo mondo. E’ questo il repertorio più propriamente ‘originale’, idiomatico, in particolare nella sua forma diafonica; eppure, quanti conoscono il canto a due voci ‘umbro-marchigiano‘ e riescono ad entrare in sintonia con le sue infinite metamorfosi? Ancor più paradossale il fatto che nel nostro organico la voce è una sola, per quanto straordinaria, il che ci ha indotto a ‘strumentare’ il canto, a volgere il discanto in contrappunto straniante.
Infine, muovendo dall’organico dato – dai limiti e dalle qualità di un gruppo con flauto traverso, due archi e il signor pianoforte (!) – si imponeva anche il dovere di rendere la vastità espressiva dei repertori, per cui non si poteva lasciar fuori il canto devozionale, o quello paraliturgico delle confraternite (ancora miracolosamente vivo in Umbria, fra Gubbio e Colfiorito), e non poteva mancare una risentita ninna-nanna, in un proposta ‘al femminile’. Il tutto calibrato come una performance live (pur lontana dagli stardard di un concerto ‘in presenza’), per alternanze timbriche e/o di stati emotivi, di climax e distensioni, senza rinunciare a qualche guizzo di virtuosismo (la classe…).
Dici di una ‘poietica’ che definisce uno spazio entro cui elaborare delle prassi comuni, evitando mediazioni fra prospettive differenti. In questa ipotesi c’è la consapevolezza della distanza tra linguaggi diversi, ma anche la voglia di sperimentare. Si può intravedere una nuova dimensione, entro la quale il lavoro artistico si pone al di fuori delle categorie e degli stereotipi?
La domanda, Daniele, è di quelle che ‘comprendono’ le risposte: te ne sono grato. Difatti, la distanza fra i linguaggi – almeno in questo caso – è irriducibile. E del resto, odio il ‘veniamoci incontro’, tanto più quando si tratta di inventare musica, o altro. In questo senso, niente contaminazioni… Diciamo – con valenza non meno ‘etica’ che ‘poietica’ – che la libertà di movimento di ciascuno/a inizia là dove inizia quella dell’altro/a; ma poi le strade divergono, se si vuol dare forma ad un progetto a più dimensioni, con l’ambizione – quando il gioco riesce – di tracciarne una ‘inaudita’.
Questo in ipotesi… Certo bisognerebbe tornarci ‘a verifica’, passando per i rimandi del pubblico, se possibile.
A ben vedere, i poli che sorreggono il progetto sono più di due: se da un lato vi è il repertorio tradizionale, dall’altro c’è UmbriaEnsemble. Nel mezzo, ma con posizioni diverse, vi sono Lucilla Galeazzi e Piero Arcangeli, accomunati probabilmente dalla tensione interpretativa, anche se mossi da prospettive diverse.
Sì, l’intenzione era proprio quella di un disegno multifocale, una struttura ‘garantita’ dalle tensioni interpretative, ma prima ancora da quelle latenti, emotive, dalle scoperte e dal desiderio di metterle in comune (‘se ci divertiamo fra noi, forse si diverte anche chi ascolta’)… Con Lucilla condivido un’antica ‘paticità’ – l’amore per il canto di cui abbiamo còlto, ciascuno a suo modo, gli ultimi bagliori – e l’amicizia con un ricercatore come Valentino Paparelli. Non meno significativa la frequentazione con le/i musiciste/i dell’ensemble, che ricordo ancora allieve/i di Conservatorio e già in attività quando m’imbarcai nell’impresa politica di un’orchestra cooperativa in Umbria, un’era fa… L’una e le altre sono parte esistenziale della mia contraddizione, che non è solo una ‘questione personale’, semmai una privazione pubblica, una schizofrenia d’epoca. E’ un po’ la storia della ‘musica contemporanea’, che si può pensare e dire solo al plurale (‘le musiche’); e giustamente, ma scontando cadute (provvisorie? definitive?) di senso-e-consenso.