Il Premio Loano è al lavoro per tutto l’anno. C’è la votazione primaverile di una giuria di qualità, che raccoglie giornalisti e musicologi, per il miglior disco di musica “tradizionale” italiana pubblicato nel corso dell’anno precedente. C’è il riconoscimento alla carriera e alla realtà culturale nazionale, scelto dagli organizzatori de La Compagnia dei Curiosi e dal direttore artistico John Vignola, che ha assicurato negli anni una coerenza e una continuità di intenti, con la consulenza di altre figure che nel movimento folk italiano agiscono da molto tempo. Infine, sulla base della scelte estetiche dei giurati, si costruisce la programmazione del festival estivo, che fa della cittadina ligure uno dei luoghi della musica, sito di confronto tra addetti ai lavori, musicisti e operatori culturali: non è un caso che il sottotitolo-slogan della manifestazione sia “Suonare, cantare, raccontare la musica popolare”. Per quanto detto prima, il Premio è unico in Italia, ed è un peccato che in dodici anni non si sia trovato modo di richiamare osservatori stranieri del mondo world per far conoscere quanto di ottimo si produce in Italia, accogliendoli in una località affascinante come la riviera ponentina o che il servizio radiofonico pubblico di qualità (per esempio Radio 3) non abbia mai pensato di portare i propri attrezzi per registrare i concerti o gli incontri che, al pomeriggio, tematizzano note, personaggi e culture musicali.
Certo è il consueto problema di budget ballerini, di tempi stretti per la programmazione, di chi lotta, anno dopo anno, per portare avanti un progetto culturale di cui altrove in Europa andrebbero orgogliosi. Che i folk awards di Loano siano un evento di primo piano, lo dimostra il fatto che quest’anno, dopo la pubblicazione dei nomi dello strameritato vincitore (l’organettista Filippo Gambetta con “Otto Baffi”) e dei piazzati, un navigato e colto musicista folk-world si lamentava (informalmente) dei riscontri, comunque solidi, ma non tali da portare al vertice il proprio album: segno che vincere il palmares di Loano conta. Questo aneddoto serve a far capire di cosa stiamo parlando e sottolineare che occorrerebbe che certi operatori culturali dessero più rilevanza a questa vivace manifestazione –non una riserva indiana ma un luogo di elaborazione culturale che dura tutto l’anno – per comprendere meglio lo stato dell’arte folk, invece di limitarsi a correre in Salento alla Notte della Taranta. Quest’anno la rassegna è partita dal territorio ligure, non soltanto perché si sono accesi i riflettori su alcuni “luoghi dei Doria”, ma soprattutto perché l’avvio lo ha dato (18 luglio) il concerto della storica Compagnia Sacco di Ceriana (IM), in occasione della pubblicazione del CD “Tabulae”. Delle loro polivocalità, del confronto con altre forme polifoniche italiane e mediterranee si parlato in un focus pomeridiano con il cantore cerianese Matteo Lupi, il produttore esecutivo Davide Baglietto e con il discografico-musicista Beppe Greppi della label Felmay, che il disco lo ha pubblicato, in un’intervista realizzata dallo scrivente.
Nell’occasione il sestetto cerianese ha dato prova delle originali procedure vocali a più parti, che fanno emozionare chi ha orecchio e sensibilità, con estratti dal proprio repertorio profano. Diversamente, nel concerto all’Oratorio delle Cappe Turchine, dove ha eseguito il repertorio religioso della Settimana Santa intonato dalle confraternite cerianasche (“Miserere”, “Stabat Mater”, “Domine Jesu Christe”, “Lauda da Madonna da Vila”, “Alma Contempla”, “Quasi Cedrus”). La Compagnia Sacco, di cui hanno scritto eminenti studiosi da Alan Lomax fino ai giorni nostri, è animata da una vivacità nel cantare insieme, che a Loano è proseguita con canti impromptu nell’informalità di un bar e della piazza del municipio loanese. Il giorno successivo Giuseppe Moffa (voce, chitarra e zampogna modificata e cornamusa) con i suoi affiatati Compari (piano e hammond, violino, percussioni, contrabasso) ha presentato il suo “Terribilmente demodé”, terzo classificato, già piazzatosi nella cinquina delle Targhe Tenco (Su quanto scritto da Blogfoolk si veda lo speciale). La cifra folk, i giri e accordi blues, rock e manouche di Spedino fanno breccia a Loano: la band sa il fatto suo, lui tiene il palco raccontando lo spaccato della piccola provincia molisana (è originario di Riccia tra Campobasso, Benevento e Foggia), che esce affrescato attraverso le sue song in dialetto o in italiano, ma anche con la ripresa di canzoni popolaresche entrate nel circuito tradizionale.
Prima del concerto, allo spazio lungomare Orto Maccagli era stato consegnato il Premio per la Realtà Culturale all’Istituto Ernesto De Martino, presenti il presidente Stefano Arrighetti e il ricercatore Antonio Fanelli. Nell’incontro pomeridiano, i due sono stati intervistati dal direttore artistico del Club Tenco Enrico de Angelis, e in compagnia del grande Gualtiero Bertelli hanno fatto vivere la lunga storia (dal 1966) di documentazione sul mondo popolare e proletario, portata avanti, non senza difficoltà logistiche e di finanziamenti, dall’Istituto prima a Milano, oggi a Sesto Fiorentino. Si diceva del cantautore veneziano Gualtiero Bertelli, monumentale personalità del folk revival italiano (ma sempre attivissima tra teatro e concerti con il gruppo La Compagnia delle Acque). Con l’autobiografia “Venezia e una fisarmonica. Storie di un cantastorie” e il ritratto che ne ha fatto il documentarista Piero Cannizzaro (cfr. l’estratto del film) si coglie quel fertile intreccio tra lingua nazionale e dialetto, la sua gioventù nella Venezia operaia del tempo che fu, la storia che da fisarmonicista novello lo porta nel Nuovo Canzoniere Italiano e oltre, ma anche l’essere lontano da certe diatribe filologiche. A lui è stato conferito il premio alla carriera 2016 e non abbiamo potuto fare a meno di emozionarci nel riascoltare la sua “Nina”, non solo una delle grandi canzoni d’amore italiane, ma, ha scritto Alessandro Portelli: «La più bella di tutto il nostro canone della canzone politica e di protesta, proprio perché la politica non è sbandierata ma incarnata nei suoi effetti sulle vite, i sentimenti, i rapporti dei protagonisti».
Venendo al vincitore Filippo Gambetta, lo strumentista genovese si è esibito in coppia con la canadese Emilyn Stam (pianoforte e violino) il 20 luglio sul lungomare. La sfida vincente di “Otto baffi” (si veda quanto scritto da “Blogfoolk”, che ne ha fatto un disco del mese) è quella di coniugare danza e ascolto; Gambetta è artista irrequieto e curioso, un esploratore a cui piace girovagare per pentagrammi geograficamente diversi, da solo o in compagnia di musicisti affini per capacità di dialogo. Se con Stam al violino, il duo è riconducibile alla pratica della nuova musica tradizionale, quando organetto diatonico e pianoforte si incrociano in maniera inusitata – e con successo – siamo di fronte a musica contemporanea dal forte appeal, perché Filippo è uno che ha idee per fare fruttare le potenzialità dell’organetto (melodiche, ritmiche e armoniche), conservando quella levità del linguaggio popolare (sottolineato dal ballo, per l’appunto). L’organettista era stato protagonista anche dell’incontro pomeridiano, in compagnia di Jacopo Tomatis, giornalista, saggista e studioso di popular music, e di Goffredo Plàstino, curatore del poderoso volume “La musica folk” (il Saggiatore 2016. Si veda la recensione del nostro Daniele Cestellini) e docente di etnomusicologia all’Università di Newcastle (Regno Unito).
Con il sottoscritto si è messo mano (e non è, letteralmente, sempre facile, considerate le sue circa 1280 pagine, più una sezione online scaricabile gratuitamente preso l’editore) a questo libro-strumento di lavoro, che percorre la teoria del fenomeno folk revival attraverso documenti, esperienze, tra ricerca e spettacolarizzazione, testimonianze di interpreti, polemiche tra studiosi (si veda la querelle sul folk a “Canzonissima”) fino alla contemporaneità con saggi teorici e case study. Tra gli ultimi un intervento che ha come ‘oggetto’ proprio Gambetta, musicista cosmopolita, testimone di ‘intercultura di affinità’ (Mark Slobin) attore di quell’articolato fenomeno di interazioni tra musicisti all’interno del circuito dei festival folk transnazionali, di cui il disco “Otto baffi” è la testimonianza. Era molto attesa la produzione-conclusiva (21 luglio) “Polvere” di Vinicio Capossela all’Arena Estiva Giardino del Principe. Per chi storce il naso di fronte ad un nome altisonante che ama il folk, ma non è folk: insomma è fuori dal “folk revival” – per fortuna? – , come fenomeno storico-musicale, diciamo che Vinicio era in forma ed è entrato con lo spirito giusto per la notte di Loano, con il suo set, applauditissimo da un pubblico accorso numerosissimo (tutti i concerti sono gratuiti), in sintonia con quanto fatto in questo festival ligure in una dozzina d’anni.
La sua band: Glauco Zuppiroli (contrabbasso), Mirco Mariani (batteria, mellotron), Sara Loreni (cori), la chitarra western e il banjo di Alessandro “Asso” Stefana, il cupa cupa gigante e la grancassa di Agostino “Ago Trans” Cortese, la vihuela, i flauti e il doppio clarinetto di Giovannangelo De Gennaro, vestito a metà strada tra un officiante e un pellegrino sulla via di Santiago. Capossela sciorina in prevalenza materiale tratto dal recente “Canzoni della Cupa” (si veda la nostra recensione di Salvatore Esposito), girovagando tra realtà e magia nelle lande di Irpinia e Texas, Gargano e Messico. La voce da folksinger, teatrante e storyteller non è sempre smagliante (ma così è Vinicio, lo sappiamo), su qualche passaggio indugia troppo, alcune incongruenze si avvertono nel sound della band, qualche canzone è fuori misura come il canto di lavoro salentino “Femmine”: siamo abituati a ben altre cifre canore (ah, ci fosse stata Enza Pagliara!), ma tant’è, la serata ci sta tutta. Quando con la sua visionarietà ci porta nel “Paese dei coppoloni”, tra conforto e dolore, gioia e memorie, quando protagonista è l’Alta Irpinia con i suoi personaggi, quando riprende le suggestioni dal mondo popolare sardo (la figura di “Su componidori” della Sartiglia di Oristano), tributa gli onori a Matteo Salvatore (il primo premio alla Carriera di Loano) con “Il lamento dei mendicanti”, “Lu ben mio”, “Li Maccaruni”, allora l’intensità cresce e si comprende cosa significa ricreare il mondo popolare con scelta estetizzante, ma con tratto poetico o che significa dare il giusto merito ai giganti del folk, come il cantastorie di Apricena (inutile fare confronti con l’originale: è un altro sentire, è un altrocantare).
Si susseguono “Dagarola del Carpato”, con tanto di guitarron e banjo, “La padrona mia”, che trova le trombe dei Mariachi Mezcal Sergio Palencia e Angelo Mancini. C’è la ballata “L’acqua chiara alla fontana”, impreziosita dalla vihuela di De Gennaro, ci sono “Zompa la rondinella” e “Lo furastiero”, mentre “Canti della Mietitura” sono intonati cappella da quattro voci. Ecco “Sonetti, “Franceschina la calitrana”, che è in salsa tex-mex, con i sospiri dellla fisarmonica di Vinicio. Ancora “Pettarossa la puttanazza”, e “Lo sposalizio di Maloservizio”; si balla all’incontraire con Ciccillo “Al Veglione”. Poi, gli immancabili cavalli di battaglia “L’uomo vivo”, “Al Colosseo”, “Il ballo di San Vito”, fino a “Il treno”, che chiude il cerchio con la “Cupa” ed annunciare la riapertura turistica, per un periodo breve, della tratta Rocchetta-Conza, nella terra del suo “Sponz Fest” (che quest’anno si svolgerà dal 22 al 28 agosto). Il pubblico balla e non sono solo i più giovani… È festa a Loano con la musica folk.
Ciro De Rosa
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