Liraz – Zan (Glitterbeat, 2020)

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Appartenenza, identità e femminilità sono tre parole chiave sempre più comuni nelle recensioni di molti album di artisti nordafricani, mediorientali, e centrasiatici. Questo disco in particolare racconta una storia a me molto cara, quella degli ebrei iraniani nella persona di Liraz Charhi, in arte Liraz. Attrice e cantante, Liraz nasce a Ramla in Israele nel 1978 da genitori Iraniani che fecero aliyah (ritorno alla Terra Promessa) nel 1970. L’arrivo in Israele per gli ebrei iraniani, e mizrahì in generale, rappresentò uno shock culturale trovandosi a dover affrontare un processo di assimilazione in una cultura a loro estranea che li etichettava sprezzantemente come persiani, proprio come in Iran erano etichettati come ebrei. Si percepisce questo sconforto nelle parole di Liraz, che pur non avendo mai vissuto in Iran si sente, grazie ai racconti dei famigliari, iraniana. È negli Stati Uniti che riesce a connettersi, finalmente, con la grande comunità iraniana di Los Angeles che in tanti chiamano Tehrangeles. Nella città risiedono moltissimi musicisti pop Iraniani costretti ad emigrare a causa della rivoluzione del ’79. Qui continuano a produrre la loro musica, distribuita nel mercato nero in Iran con l’appellativo di musica losangelina. È di questa musica che si innamora Liraz, del genere conosciuto come taraneh, le cui icone più emblematiche, come Googoosh e Delkash, avevano stregato l’Iran prerivoluzionario. La music di “Zan”, e del precedente “Naz”, può essere vista come un’interpretazione moderna del sincretismo musicale di quegli anni, dove elementi estetici e forme popolari occidentali incontravano ritmi, simbolismo e sonorità iraniane. Un mix di elementi che fatica ad emergere in Iran causa della censura di stato, ma trova posto nella scena world. Nel disco Liraz collabora, tuttavia, con musicisti Iraniani rimasti anonimi per ragioni di sicurezza, le cui tracce e pagamenti sono stati scambiati segretamente online passando per stati con posizioni più neutrali nei confronti della Repubblica Islamica. Una produzione accurata e pulita, pop elettronico e strumentazione occidentale incontrano ritmi persiani ed il baglama turco, registrato da un musicista anonimo residente in Iran. “Zan” significa donne in Farsi ed è dedicato alla genealogia al femminile e alle donne ebree di origine iraniana, storicamente escluse dalla produzione culturale e date in sposa appena adolescenti. Il disco è quindi una battaglia sociale, uno sfogo liberatorio, una rivendicazione e una celebrazione per chi ha combattuto contro tradizioni abusive come la madre e la zia, la famosissima cantante pop Rita. Ad aprire il disco è “Zen Bezan” dove l’elettronica contemporanea rinforza il sound delle sale da ballo Iraniane dei primi anni ’70 mentre gli archi fanno l’occhiolino agli artisti pop iraniani del passato. Partecipa all’incastro anche una percussionista di Tehran, il cui tombak si unisce alla band di Liraz. “Injah” ondeggia invece su un arpeggiator su cui gli strumenti e la voce si intrecciano in volteggi pittoreschi. Troviamo la stessa oscillazione in “Joon Joon”, brano poliritmico con classiche ritmiche persiane e un’anima disco. Joon è il soprannome della figlia di Liraz che spasso appariva in braccio alla madre durante le conversazioni con l’ospite coinvolto nella traccia. Fantastica l’interpretazione della ballad “Shaab Gerye” di Ebi, uno degli innumerevoli artisti pop ad emigrare, nel suo caso in Spagna. Il gioiello del disco è però “Lalai”, la ninna-nanna che la nonna di Liraz cantava a sua madre, sua madre a lei e lei a sua figlia. Una finestra sul passato che ricostruisce una melodia tramandata di donna in donna. Curiosamente, una ninna-nanna con lo stesso titolo e un arrangiamento incredibilmente simile figura nel disco “Asleep in the Bosom of Childhood” di Maureen Nehedar, che assieme a Liraz è l’unica cantante iraniana che lavora sulle sue radici in Israele. Entrambi i brani sono distesi, accompagnati da suoni atmosferici che ricalcano la tonica come un bordone enfatizzando la modalità e la microtonalità della melodia. Trovo particolarmente curioso che le uniche esponenti musicali della comunità giudeo-persiana siano donne, fatto particolarmente ironico se pensiamo che in Iran le donne non possono cantare in pubblico come soliste. Non solo, anche storicamente le donne erano scoraggiate a partecipare alle attività musicali in Iran in quanto ritenute poco rispettabili sia dai musulmani che dagli ebrei. Le canzoni delle donne si diffondevano nei cortili delle grandi case che ospitavano famiglie estese nei mellah, i quartieri ebraici. Qui si scambiavano racconti e insegnamenti per le più piccole mentre le donne più anziane alleggerivano i loro pensieri con la pratica del ‘dard-e del’ in cui si parla del ‘cuore addolorato’. Questa ninna-nanna è probabilmente figlia di quella tradizione. La musica degli ebrei iraniani è in larga parte scomparsa nel secolo passato. Il lavoro di Liraz, sebbene non mirato al recupero e al restauro di una tradizione scomparsa, diventa fondamentale perché dà voce a una comunità che la voce l’ha perduta. “Zan” è, forse incoscientemente, un simbolo per un gruppo etnico-culturale, una risposta ad un bisogno di rappresentanza e un baluardo identitario. Ci offre una finestra sulla vita di queste persone oggi, in un mondo globalizzato ma in cui le radici continuano a risuonare nelle memorie della gente. Liraz apre questa finestra con la musica, lasciando entrare sonorità elettroniche, pop e rock mentre delle donne cantano i loro mali raccolte in un cortile. 


Edoardo Marcarini

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