Studiare e vivere la danza. Intervista con Placida “Dina” Staro

Foto di Manuela Ruggiu
Inesauribile ricercatrice e documentatrice, Placida “Dina” Staro è etnomusicologa, etnocoreologa e violinista dei Suonatori della Valle del Savena. Ha pubblicato numerosi testi e saggi teorici ed etnografici sulle danze e sulle musiche tradizionali, tiene seminari di antropologia della danza in Italia e all’estero. È membro dell’International Council for Traditional Music, Ethnocoreology Study Group, dirige il Centro di Ricerca della Cultura Montanara Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede. Insomma, una presenza costante nel dibattito e nella ricerca sulle espressioni coreutiche tradizionali in Italia; figura di studiosa indipendente e di attivista culturale che meriterebbe i più alti riconoscimenti da parte di chi si occupa di folk. L’abbiamo raggiunta per provare a fare il punto sull’argomento danza: “oggetto” di ricerca spesso trascurato anche dagli studiosi che analizzano le diverse stagioni del folk revival. Eppure esiste un mondo variegato di cultori, che lo facciano con spirito aggregativo e di socializzazione o per interesse verso tradizioni musicali e coreutiche. Al disopra di tutto, esiste una pratica della danza collettiva o rituale in molte realtà della Penisola, dall’arco alpino all’Appennino, passando per la Sardegna e l’area campana. Insomma, se in questi ultimi casi possiamo parlare di danza come pratica espressiva all’interno di un codice di linguaggio condiviso dalle comunità, nel primo caso si dovrebbe parlare di ballo come pratica ricreativa condivisa. C’è perfino chi, come Laetitia Carton, ha raccontato in un film, “Le Gran Bal”, il quasi trentennale raduno-festival di Gennetines in Francia. Il film ha fatto ballare il Festival di Cannes, raccontando un’esperienza straordinaria, collettiva e intima al contempo, di chi si ritrova per sette giorni in Auvergne a ballare e a suonare musica nella campagna francese. 
Si tratta di fenomeni di “super danze”, come Staro ha definito le forme di balfolk, di pizzica, di ballo liscio o le cosiddette mazurke clandestine (si veda il suo paper “Altrove e Altrimenti: la Danza delle “Anime Perse”, “XXIX Symposium of the ICTM Study Group on Ethnochoreology”, Retzhof, 2016) dalla funzione aggregativa, analizzate con taglio critico da chi privilegia lo studio della ritualità coreutica delle comunità locali. Il fatto è che non sempre all’interesse psico-fisico e di socializzazione corrisponde la volontà di andare a fondo da parte dei ballerini. E che dire di maestri che, talvolta, “costruiscono” forme e stili locali non comprovati da alcuna base documentaristica orale o visiva? Il loro ruolo di mediatori tra comunità locali e pubblico di cultori è quanto mai delicato e deve essere svolto con rigore. Naturalmente, è impossibile esaurire in una o più sessioni di discussione tutte le tematiche che un discorso sulla danza e per la danza spalanca, tuttavia proviamo a sollecitare una riflessione aprendoci, se vorrete, ad altri contributi. Per ora, non potevamo che iniziare confrontandoci una ricercatrice del tutto lontana dalla partecipazione e fruizione effimere.

Con la danza siamo parliamo di un’esperienza polisemica, pluridimensionale, perfino irriducibile. Eppure circoscrivere il campo di indagine è operazione necessaria: antropologia della danza, etnologia della danza, etno-coreologia. Proviamo a fare un po’ di ordine anche alla luce degli orientamenti internazionali più recenti?
La danza è un’esperienza vitale. Come tutte le esperienze vitali ognuno la riempie di nessi e significati che le attribuiscono il valore esistenziale, perché in grado di giustificarci come viventi. Vederla come oggetto è un evidente caso di reificazione. Il trasformare esperienze in oggetti risponde alla necessità di controllare un fenomeno. Una necessità che è individuale solo quando considerare la danza come necessaria  esperienza è in conflitto con il ruolo che si vuole avere all’interno delle strutture produttive. La danza produce  un altro modo per accedere alla percezione di sé e del mondo che porta ad una esperienza aumentata della verità del proprio esserci nel mondo. Questa la ragione per cui la gestione sociale della danza nelle diverse società porta ad esiti espressivi, e quindi a forme di disciplina, diverse. 
Monghidoro - Foto di Dina Staro
Queste forme di disciplina sono l’oggetto delle indagini antropologiche, etnograficheo, storiche. Oggetto di studi del campo etnoantropologico e storico sono le forme culturali di rappresentazione attraverso il movimento, in alcune culture chiamate danza. Storicamente solo la coreologia ha cercato gli strumenti per parlare di “danza” in senso stretto, cercando di precisare gli strumenti tecnici più adatti per evocare la danza in contesto grafico, filmico, verbale. Oggi se ne occupano anche psicologia, pedagogia, neurologia, e qualunque disciplina sia finalizzata alla puntualizzazione del fenomeno umano. Le discipline “classiche” antropologia della danza ed etnocoreologia sono ormai due facce della stessa medaglia, escluse per lo più dai contesti accademici e non. Recuperate quando sono portatrici di valore economico, Visto che il cane attacca dove vuole il padrone, oggi riflettono sull’uso fatto della danza nei contesti in cui è utilizzata. Oggi le forme delle tradizioni, le loro qualità addestrative e le loro filosofie, sono utilizzate  per la creazione del benessere psico-fisico nelle palestre e nei divertimentifici o, addirittura nei non-siti, come festival, centri sociali, aree abbandonate. La elaborazione della creatività non è più lasciata al vaglio della sanzione sociale, ma alla valutazione di singole persone, operatori, coreografi, teatranti, musicisti, ginnasti inseriti in un’ottica di mercato globale, spettacolarizzazione o addestramento ad un benessere pacificante. Se l’operazione riesce il premio è la visibilità all’interno del palcoscenico della cronaca. Non è detto, però, che quanto non si vede su quel palcoscenico non esista. Oggi la maggior parte degli studiosi di etnocoreologia e di antropologia della danza nel mondo è nei paesi asiatici e negli Stati Uniti. Il loro oggetto di studi è frantumato, nella maggior parte dei casi riguarda danza teatrale o forme di scuola, banda, fenomeni di costume legati al mercato, forme di migrazione transnazionale, come il tango. 
Giga Quattro Province
In Europa esistono esperienze di Centri di studio e documentazione anche accademici in tutti i paesi ex socialisti che riservano la loro attenzione non solo a folklore e folklorismi, ma anche a comunicazione simbolica, fenomeni di trasposizione e mutazione fin dagli anni ’60. In tutti gli altri paesi esiste almeno un centro universitario che fornisce sulla danza una formazione tecnico storica o artistico-atletica, con collegamenti conflittuali con gli ambiti etnocografico-antropologici. Il problema è nella definizione stessa delle discipline antropologiche, in continua ridiscussione e nella sistematica finalizzazione degli studi a … ricerche o fenomeni di mercato. Ma chi si occupa di danza ha già da lungo tempo compreso che la oggettivazione, la segmentazione dell’esperienza in oggetti quantificabili è un’esigenza delle società che, pilotando l’espressione motoria, attraverso la programmazione di eventi, percorsi educativi e quant’altro, riesce in questo modo ad accedere alla manipolazione dei singoli individui attraverso azioni di massa. Ne è stata testimone, fra gli altri, proprio l’esperienza di Rudolph Laban. Per questo molti coreologi fin dagli anni Ottanta dello scorso secolo hanno scelto alternativamente o contemporaneamente: di tacere, di bloccare la creazione di “oggetti documentari”, di sistematizzare la conoscenza acquisita e di agire direttamente come parte di un contesto sociale in cui danza è ancora parte non monetizzata dell’esperienza vitale. In ambito europeo ha preso avvio nel 2007 un master internazionale di secondo livello “Choreomundus” che rappresenta un’esperienza straordinaria. Nato dalle discussioni all’interno del ICTM Study group on Ethnochoreology sorte in seguito alla determinazione UNESCO sui patrimoni immateriali, questo master fa vivere insieme studenti/studiosi da tutti i continenti. Nel tentativo di rispettare le diversità di pensiero presenti anche nei percorsi accademici, il master si svolge in quattro diverse università in Norvegia, Ungheria, Francia e Inghilterra, con docenti provenienti da tutto il mondo.

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