Studiare e vivere la danza. Intervista con Placida “Dina” Staro

È stato scritto già in passato, ma non è superfluo ribadirlo qui: indiscutibile è il ritardo italiano con cui hanno preso le mosse gli studi scientifici sulla danza. Se ne possono identificare i motivi?
In Italia storicamente per secoli siamo stati in anticipo sulla danza, grazie alla particolarità legata alla multiculturalità millenaria che ci ha consentito di avere sempre al centro comunità di individui “non settarie”, se mi è concesso il termine. 
Rabbi, Trentino - Foto di Dina Staro
Questo anche dal punto di vista filosofico. Troppo lungo sarebbe risalire alle motivazioni che hanno portato ad un diverso pensiero filosofico-antropologico, ma siamo eredi di una tradizione culturale in cui il controllo sull’individuo spetta solo alla propria famiglia, a se stesso e, per chi vi crede, a enti superiori o inferiori. Nella nostra cultura la musica si suona, la danza si danza, la poesia si poeta. Tanto che nemmeno la Chiesa cattolica in millenni è riuscita a sconfiggere la passione del ballo, o del canto. Non è stato così dove è arrivata la Riforma, e la Controriforma, ad esempio. La necessità di spiegare la danza nasce ab origine dalla necessità di controllarla, per produrre rappresentazione, spettacolo ripetibile. Quindi da noi inizia con lo Stato Nazionale e con la necessità di creare un senso identitario: nazionale, nel II dopoguerra e regionale, dalla nascita dell’Europa in poi. Ma, ben prima delle elaborazioni anglosassoni ed europee, la etnografia italiana ha posto attenzione specifica sulla danza tradizionale in sé, non come teatralizzazione rituale, non come oggetto antropologico. E questo è stato merito di uno studioso-bibliotecario, Gaspare Ungarelli, tra il 1870 e il 1894, poi citato dall’intera pletora degli studiosi europei. E che dire di Gramsci e di Ernesto de Martino? Banditi dalla storia della disciplina perché già era in atto il conflitto per il pensiero unico di matrice oltre-oceanica, ma ben noti agli studiosi europei. In Italia abbiamo avuto il vanto, per molto, il difetto, per alcuni, di giocare in casa beneficiando della nostra mentalità “rinascimentale” senza reinventare tutte le volte la ruota. Umberto Eco definisce l’oggetto semiotico? Se ne discute con Ruffini, con Leydi, con Carpitella, e un’oscura studentessa del DAMS definisce l’evento danza e non la danza come più proprio oggetto delle discipline etnoantropologiche. 
Reno Folk Festival, San Lazzaro di Savena, 2018
Nozione che ha unificato etnocoreologia ed antropologia della danza. Certo l’oscura studentessa del DAMS non ha potuto vivere di questo, come i suoi colleghi esteri, ma questo è un altro discorso, legato alle tristi sorti della riproduzione della mediocrità che porta acqua solo al mulino dei poteri forti.

Quale il rapporto oggi con l’accademia e gli studi demo-etnoantropologici? Altrove, ci si può laureare in etno-coreologia. Qui da noi?
L’antropologia italiana è convinta di essere una scienza descrittiva tuttologa bastante a se stessa. Non riconosce quindi le competenze specifiche di persone di campi disciplinari affini, ma ne cannibalizza gli strumenti tecnici e analitici. Non ci si può laureare in coreologia, figuriamoci in etnocoreologia!

Entriamo nello specifico della ricerca: si può parlare nel nostro Paese di continuità nella pratica della danza tradizionale nella contemporaneità da parte delle comunità?  
Dove esistono forti impianti rituali nella vita comunitaria si. Vi sono diverse linee di evoluzione nella diverse comunità locali, alcune puntano all’assimilazione nella modernità attraverso la spettacolarizzazione di sé, altre cannibalizzano le proprie stesse forme producendo nuovi ibridi, altre si adattano alla modernità ibridandosi, alcune si reinventano adottando forme più accattivanti prese da tradizioni limitrofe, infine alcune si evolvono dall’interno, adeguandosi nei mezzi di comunicazione ma elaborando il proprio linguaggio per mantenere un’autonomia di sviluppo.

Con i processi di patrimonializzazione delle espressione di tradizione orale in atto e l’interesse verso i beni intangibili, come si pone lo studioso di fronte a fenomeni coreutici che mutano in rapporto con le dinamiche sociali e culturali dei gruppi sociali?  
Reno Folk Festival, San Lazzaro di Savena, 2018
Ogni studioso ha delle motivazioni uniche. Quindi ognuno elabora la strategia di azione che ritiene più fruttuosa per la comunità in cui vive. Questo non necessariamente coincide con il proprio interesse economico, visto che la cultura in generale, e quella “popolare” ancor peggio, non è ritenuta un valore economicamente produttivo per l’attuale società. Quindi se è un ricercatore di comunità, e questo è il caso di chi svolge questo lavoro, deve costantemente confrontarsi con le richieste manipolatorie da parte delle amministrazioni che vogliono utilizzare danza e musica come icone di presunte identità, di operazioni turistico-commerciali, etc. Il grado di mediazione diventa la chiave della possibilità di sopravvivenza della stessa danza e musica, in molti casi. Se il ricercatore agisce il comunità in cui questa specifica culturale è contestata, allora sono tempi duri, perché verranno utilizzati i risultati formali del suo lavoro utili alle strutture “di potere”, ma non il suo lavoro, né i suoi protagonisti. Ad esempio, nessuno finanzierà istruzione di bambini in musica e danza locale, ma qualunque ente finanzierà spettacolini di “professionisti” che rappresentano quella stessa cultura che, nel frattempo, viene opportunamente dichiarata in via di estinzione. Il miglior informatore è quello morto, o meglio morente, non certo il ragazzino magari incazzoso. Ovviamente, lontano, esotico è uguale a morto, quindi preferibile perché più facilmente risignificabile e manipolabile.

Catalogazione, analisi, trascrizione… Quali i nodi teorici e metodologici? Non sempre c’è concordanza tra studiosi?
Festa di Lognola, Monghidoro
Ti chiederesti se è necessario fare dei calcoli, analizzare le condizioni strutturali, verificare i materiali, considerare le finalità se si trattasse di dover costruire una casa o un ponte? O insegnare a qualcuno a costruirlo? Certo non lo puoi mettere davanti ad una casa, peggio ancora, alla foto o a un film di una casa e dirgli: copia! Allora perché non deve essere necessario se devi costruire una persona danzante o insegnare a qualcuno a trasmettere una cultura di danza, elaborata per sistemare l’equilibrio psico-fisico individuale e quello socio comunitario allo stesso tempo? Chi lo crede è vittima grave di alienazione.

Quali i tuoi rapporti con la rete di studiosi europei nel campo dello studio antropologico della danza?
I miei rapporti con gli studiosi europei, meglio, mondiali, sono molto buoni, infatti ho rapporti dal 1986 con enti, istituzioni, ho organizzato in Italia due convegni mondiali e uno in Svizzera, e sono vicepresidente dell’Ethnocoreology Study Group da otto anni. Certo c’è il problema che nessuna università italiana ha pensato bene di trovarmi necessaria, e io ho scelto molti anni fa di combattere qui e di non emigrare all’estero. Quindi ogni tanto vado all’estero a insegnare per contratto, poi ritorno a fare l’etnomusicologa-coreologa di comunità. Nell’ambito sono ritenuta piuttosto originale perché, in tempi non sospetti e con circa vent’anni di anticipo, ho condotto studi su musica e movimento con uno studio “dall’interno” , ho scelto come soggetti non i singoli anziani, ma interi paesi e i loro bambini, ho letto le parole di musicisti, cantori e danzerini mediando tra semiologia e filosofia e ritenendo filosofia naturale con terminologia tecnica quanto veniva considerato dagli studiosi “sistema di credenze”. 
Purtroppo mi fanno notare che in inglese sono pubblicati solo degli articoli, ma certo non ho né tempo né soldi per far tradurre il resto.

È stata superata la fase classificatoria, di descrizione e di catalogazione?
La fase classificatoria etc. non è stata superata! Invece viene oggi snobbata perché in questo ambito la ricerca è legata agli interessi di un pubblico, non di un’indagine scientifica ritenuta necessaria. Quindi viene utilizzata l’indagine antropologica per discutere i temi attualmente in discussione nella società. Vanno oggi per la maggiore: contenuti e forme che vengono trasmessi attraverso il corpo del danzatore nella danza e attraverso il discorso sonoro nella musica; relazione tra danza e potere, danza e “identità”, danza e “genere”, danza e forme di “terapia” etc etc. Notazione, trascrizione, catalogazione vengono utilizzati dove esistono istituti di ricerca, fondamentalmente paesi dell’est e Stati Uniti; classificazione è ancora, nonostante gli studi fatti negli anni ‘70/’80 lasciata alla formazione individuale, e in questo purtroppo in Italia tutto è lasciato al volontarismo, quindi siamo ben lontani da uno studio esaustivo.

Come è cambiato negli anni il pubblico degli appassionati e dei cultori della danza che frequentano stage e corsi (età, genere, provenienza sociale, ecc.)
Posso parlare solo per le mie esperienze dirette. Sono cambiate le proposte, il pubblico è lo stesso genere, da trent’anni la stessa generazione a cui si aggiungono le generazioni successive con le stesse motivazioni e lo stesso percorso: evasione e ricerca dell’esotico, nostalgia e ricerca del passato perduto, ricerca di comunità e creazione di sette, scuole, gruppi con propri linguaggi espressivi: 
Dina Staro e Bruno Zanella al Mulino a Casa Benni
ieri international Balkan israelitico Celtic, oggi dalla neo taranta alla mazurka clandestina al Generic afro. Una piccola minoranza si distingue dagli altri, ma in quel gruppo diventando poi “ insegnante”, affiliandosi ad una reale ed esistente comunità più o meno lontana con la quale stringe relazioni di continuità nel tempo. Queste persone svolgono poi da mediatore fra le comunità locali che ballano e quelle urbane, internazionali che si formano apposta per ballare in scuole, palestre, cantieri, rassegne e festival. Queste stesse persone solitamente fungono da cristallizzatori delle forme, con lo strano fenomeno per cui le comunità di danzatori seguono gli stessi modelli da trent’anni, mentre nei paesi quelli che ballano hanno in trent’anni modificato generazioni e stile. Negli ultimi dieci anni si assiste al doloroso fenomeno dei ballerini urbani che invadono, dove la situazione è più ospitale, e sovrastano i danzatori locali. Quelle popolazioni sono minoranze, e successivamente trovano conveniente adeguarsi alla maggioranza che li invita ai festival e costituisce una notevole fonte economica con l’etno-turismo. Ovviamente sempre se la danza è compatibile con i modelli del consumo urbano dei grandi eventi, quindi eseguibile collettivamente, con ritmi incitativi ed ossessivi o isocroni e ripetitivi, altrimenti il meccanismo dell’etno-turismo con scambio non si mette in atto e i mediatori visitatori loro stessi si propongono come modelli, come è sempre stato.

Didattica nella scuola: i licei coreutici possono favorire nuove prospettive di ricerca e di pratica?
Se pensiamo alla danza teatrale, e quindi alla teatralizzazione delle forme popolari, si, vedi ad esempio tarantarte, per parlare dell’Italia, ma pensa all’Irlanda o alla Spagna. Se pensiamo alla danza come espressione artistica e comunicativa condivisa da tutti gli individui, può essere utile in questo tipo di società. Se ci piace questo tipo di società.

Dina Staro con Franco Benni a Casa Benni
Immagino che tua conosca il film “Le Gran Bal”. Cosa pensi di un festival come Gennetines, che in Francia riunisce migliaia di persone da tutta Europa a ballare nella campagna francese?
Conosco il film, anche se ho visto solo i trailer e le sparate sulle passeggiate di Cannes. Cosa penso di Gennetines? Per me, sono state e continuano ad essere prove generali di globalizzazione, in seconda istanza una riunione di tribù, ed anche un Carnevale generazionale in un contenitore che crea meccanismi di affezione e di dipendenza, oltre che un mercato. Questi festival sono  eredi partecipativi e alternativi agli storici festival di gruppi folkloristici, delle riunioni interculturali dei gruppi interreligiosi francesi e  dei camp di Nordamericana origine. Nati nell’epoca dei grandi raduni della musica folk-pop-rock, si sono separati dai festival e feste che univano canzone politica, folk, rock,pop in nome di ideali sociopolitici, quando è venuto meno il collante ideale di quella generazione. Specializzandosi come contenitore di un genere specifico  hanno creato fenomeni di neo-trad, transnazionali e settoriali, che agiscono secondo meccanismi analoghi a quelli della musica e danza di consumo. Ora va il latino americano, domani il tango, la capoeira, e nei festival si passa dai balli circolari a quelli di coppia, con lo strano fenomeno che la tribù dei festival recepisce le istanze della musica di uso e consumo con una ventina d’anni di distanza. Ovvero ogni generazione percepisce come trad e neo trad le “etichette” musicali e danzerecce della propria infanzia e dei propri genitori. Il penultimo trend, ad esempio, ballare il “ circolo circasso” che origina dal bàl folk, sulle musiche del Carnevale di Bagolino o la pseudomazurka “clandestina” sui Pink Floid. Scomparse le “ comunità di base”  in cui usavano balli coreografati di origine medioorientale o celtica, quasi estinte le balere, ora sono proprio il liscio e le coreografie purchessia a riempire le notti dei festival e dei raduni. Ma, perso l’aplomb commerciale dei DJ nei luoghi della musica di consumo giovanile, eccoli approdare nei luoghi del “folk”. Il Disco-folk è già una realtà, come anche il ballo in silenzio (!) contraltare della tecno dance in cuffia. Il neo-trad non è né creatore, né promotore dell’evoluzione culturale, è traduzione residuale delle istanze superate o negate dalla società generale. I festival non sono altro che la  celebrazione ritualizzata di una nostalgia che non riesce a diventare utopica. Ma ci si incontrano tanti amici, si scambiano idee e ci rassicura:  esistono persone che condividono, se non visioni del mondo, per lo meno passioni.


Ciro De Rosa

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