Ugo Gangheri feat. Ernesto Nobili – Cordofonie di pace (Autoprodotto, 2025)

Il chitarrista e compositore napoletano Ugo Gangheri propone un nuovo progetto musicale strumentale con la collaborazione di un visionario come Ernesto Nobili. Il titolo è “Cordofoni di pace”, poiché sono gli strumenti a corda ad intessere paesaggi sonori dove il suono ha lo stesso significato del silenzio sotto il comune denominatore della ricerca interiore. D’altra parte “cuore” è nell'etimologia di corda, il titolo è perciò tutt’altro che ossimorico, al contrario si legge come una bellissima ridondanza interiore che amplifica il concetto di pace di cui tanto si parla e di cui tanto si ha bisogno oggi. Nel disco le chitarre acustiche incontrano quelle elettriche, che a loro volta si uniscono a sonorità molteplici creando un mondo tra il reale e l’irreale. Il tutto assume una connotazione emotiva, mistica e metafisica coinvolgendo l’ascoltatore in un viaggio di ricerca di suggestioni tra il tangibile e l’immaginario. Tali atmosfere sono dovute alla varietà e competenza specifica dei musicisti presenti come Michele Signore (lira pontiaca), Mario Crispi (duduk), Carletto Di Gennaro (tamburi), Francesco Di Cristofaro (bansuri), Massimo D’Avanzo (kemenche), Edmondo Romano (chalumeau), Giosi Cincotti (pianoforte) e Antonio Fraioli (violino). Ognuno di loro arricchisce con riferimenti a diverse parti del mondo proponendo, più che un viaggio nello spazio, un viaggiare nell’interiorità. La dimensione multimediale, soprattutto quasi teatrale e cinematografica è sicuramente dovuta ultraventennale esperienza di collaborazione sul campo di Gangheri con un altro grande artista napoletano come Giobbe Covatta. Con questo lavoro, Ugo Gangheri conferma la sua natura di artigiano del suono e di esploratore sensibile, capace di rinnovarsi restando fedele a una visione musicale profonda, autentica, mai banale. Il disco si rivolge a chi cerca nell’ascolto una dimensione altra, capace di far vibrare corde invisibili, tra contemplazione e movimento. “‘O scuro” è la prima traccia in cui sullo sfondo creato dal flauto basso e dall’arpeggio cristallino della chitarra leggermente distorta si stende la melodia della chitarra solista. In “02-04-05” la presenza, dall’inizio alla fine delle percussioni fa da base ai guizzi delle chitare elettriche e agli aerofoni etnici che conferisce al brano un carattere tra l’epico e l’esplorativo. “Aiem’” è caratterizzato da un pad e da una nota ribattuta nel registro medio, sovrastato dalle svisate delle chitarre e alle metalliche scivolate su tutte le corde, alternate ad una scala modale. Eseguito da un florilegio di cordofoni. Segue “Aspettando la prossima luna” che si sviluppa con frasi melodiche e con suoni lunghi alternati a silenzi. “Colli del Tronto” è un toccante brano dalla struttura quasi minimal che parte dalla malinconica tonalità di Si minore. La cellula ritmica di quattro crome e due semiminime si ripete e vi si incastonano, di volta in volta, frammenti di scale modali. In questo sinuoso andamento è facile immaginare il dedicato paesaggio dei colli triontini e ascoltare il cuore nelle corde. “Craco” descrive la vita che un tempo c’è stata in passato in questo paese fantasma grazie all’intervento del flauto su una spola delle chitarre dal sapore modale. L’intervento della fisarmonica su lunghi accordi apre ulteriormente a paesaggi scomparsi e le percussioni quasi vogliono ricordare la terribile franca che ha decretato lo spopolamento di questo suggestivo paese della Basilicata. La spola di “Islamorada” ci porta nelle spiagge di questa stupenda città nelle isole della Florida, in cui si sentono echi di chitarre hawaiane e percussioni. “Nadir” comincia con un delicato arpeggio giro in minore della chitarra a cui si aggiunge una seconda chitarra, poi con altri effetti sonori si entra in un clima che invita all’introspezione e alla sospensione del tempo che resta per tutto il brano, volutamente senza un reale sviluppo, a volte sottraendo suono disattendendo le aspettative dell’ascolto, un dire molto senza molto dire. Lo sfumato finale ci ricorda che stiamo ascoltando suoni che non provengono dallo Zenith in direzione della testa ma da quello che c’è sotto i piedi, dal Nadir appunto, ovvero in direzione opposta: sono i miracoli dell’udito. Suoni lunghi del flauto uniti a pad nel registro grave evocano tutte le perplessità, le paure, ma anche le speranze auspicate della melodia a mo’ di tremolo creata con la chitarra di colui che si mette in cammino, sia esso quello fisico di Santiago o mentale che si può creare all’interno di una meditazione quotidiana. Ai mi dice che “Tago” può riferirsi principalmente al Fiume Tago, il più lungo della penisola iberica, che sfocia a Lisbona, o a un antico titolo militare della Tessaglia (Grecia) per un capo, ma anche a una municipalità nelle Filippine. Non è importante a quale interpretazione questo brano si voglia riferire: sicuramente ciò che conta è che il suo sound ci porta più o meno coscientemente a entrare nel tempo che scorre dentro di noi. Un disco “without words” ma che ci ricorda quanto la musica cominci proprio dove le parole finiscono, un lavoro urgente, attuale, terapeutico oserei dire, il cui ascolto rappacifica con il mondo.  


Francesco Stumpo

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