Questo quinto album della Compagnia Daltrocanto – ensemble più che rodato e attivo da circa vent’anni – è uno dei paradigmi della musicalità di ispirazione popolare del nostro Paese. Non solo perché dimostra come il fluido della musica di tradizione orale scorra caparbiamente in tempi definiti da ben altro, ma soprattutto perché quel fluido spesso rimarca un’appartenenza (un sentimento di appartenenza) che ha molto a che fare con una tradizione ben più radicata di quanto si riesca a pensare. Ci capita spesso di verificare i rivoli di questo scorrere fascinoso, di questo scivolare involontario che le musiche fanno verso qualche forma di espressione non più strutturata. E ogni volta ci appare cristallina la volontà dei musicisti di non fermarsi, ma di continuare a camminare lungo un percorso che è molto più libero di tanti altri che si definiscono sperimentali o avanguardistici. La Compagnia – che ha base nel salernitano e non si fa problemi a scrivere per chitarra, bouzuki o ciaramella, facendone convivere le voci con grande armonia – si configura così come un baluardo di libertà espressiva. Non tanto e non solo in termini politici – non sappiamo se ce ne sia davvero bisogno: forse sì ma dentro la forma del fare, non solo del dire. Quanto in termini artistici – che vuole dire anche abbracciare con consapevolezza elementi espressivi che hanno a che fare con la politica, o ferse meglio con la socialità, con ciò che vediamo, insomma, che subiamo e che ci travolge. Sul piano artistico, l’ensemble ci appare sicuro e chiaramente convinto che lo spazio della musica suonata e cantata sia irrinunciabile se si vuole incontrare e capire il presente. Perché tanto si può cantare e suonare: cosa e come appartiene alla sfera delle scelte e, quindi, alla politica della musica, che diviene allora lo strumento migliore per “parlare” con sé stessi e con chi generalmente non si riesce neanche ad avvicinare. La scelta di costruire un album che ricomprende inediti e brani del proprio repertorio – brani particolarmente significativi, come “Ninna Nanna ai 700” – ci dice proprio questo: non si corre soltanto verso uno scenario di espressione popolare (che nell’album è richiamato attraverso passaggi decisivi e strumenti fondamentali, così come attraverso il dialetto) ma contro una cortina densa di conformismo. Squarciarlo significa anche decostruirne gli elementi che lo rendono una specie di paradigma, affiancando la forma che questi assumono, e alla quale a volte non si può rinunciare (anche solo per passione e formazione), con forme diverse. Quelle congeniali alla Compagnia richiamano la tradizione potente del nostro cantautorato, che si aggrappa alla vena politica del racconto artistico e che non concede sconti a nessuno dei temi della nostra attualità: la migrazione (con la già citata “Ninna Nanna ai ‘700”), la violenza (“Canzone per Tonino”), la diseguaglianza (“O bene o male”). In questo modo il settetto salernitano entra in uno spazio che si rinnova senza sosta, verificando con ogni brano la tenuta lirica di una proposta musicale consapevole e consapevolmente transitoria, in cui ogni voce ha un suo ruolo preciso e ogni suono rappresenta l’amalgama strutturata di una contemporaneità sfuggevole e da molti malintesa. Scorrendo i dieci brani in scaletta ci si immerge, proprio sulla scorta di questa analisi attenta del presente, in un quadro molto articolato e inclusivo. Come ci dice lo stesso ensemble parafrasando il tiolo “Come acqua di mare” scelto per l’album, la realtà è un insieme irregolare di presenze, che si allungano dal passato e che assumono forme sempre nuove man mano che le si guarda e analizza: “cos’è che del resto fa l’onda quando si infrange sulla riva? La incontra. Talvolta in maniera serena e lieve, talvolta in maniera burrascosa. E come tutti gli incontri, genera esperienza e fa nascere nuove storie da raccontare”.
Daniele Cestellini
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