Ci sono dischi che nascono per celebrare una storia e altri – molto pochi in verità – hanno intrinseca una forza in grado di riportarci indietro nel tempo nel punto esatto in cui si era interrotto. Quando nel 2003, la giovane cantautrice aversana Bianca d’Aponte venne a mancare, aveva solo ventitré anni e, allora, stava lavorando al suo album di esordio. La sua eredità musica consta di un piccolo corpus di brani di cui alcuni ancora in semplici bozze registrate in casa su musicassetta ed altri già più definiti e, in parte, pronti già per vedere la luce. La riscoperta di molti di questi brani è avvenuta lo scorso anno, in occasione della realizzazione del podcast “La chitarra e una tazza da tè”, un radio documentario interamente incentrato sul percorso artistico della giovane cantautrice aversana e sul Premio che ne custodisce la memoria, prodotto da Rai Radio Techeté e ideato e realizzato da Elisabetta Malantrucco e Mauro De Cillis. Da lì ha preso vita l’idea di un gruppo di amici, condivisa dalla famiglia d’Aponte e sostenuta dal NUOVOIMAIE, di dare finalmente forma al disco a cui Bianca non aveva potuto lavorare fino in fondo. A coordinare le scelte artistiche e promozionali è stato il collettivo “Noi siamo un Arcipelago”, formato da Elisabetta Malantrucco, Mauro De Cillis, Enrico Deregibus, Duccio Pasqua, Ferruccio Spinetti, Cristiana Verardo e dallo staff del Premio e da questo nucleo si è sviluppato l’“Ensemble per Bianca”, un ampio gruppo di musicisti e produttori – tra cui Fausto Mesolella, Ferruccio Spinetti, Bungaro, Saverio Lanza, Mauro Palmas, Cristiana Verardo e molti altri – chiamati a dare nuova vita alle sue canzoni. Sono stati selezionati dieci brani del repertorio di Bianca d’Aponte e ognuno è stato affidato a un diverso componente dell’Ensemble, che ha curato arrangiamento e produzione scegliendo atmosfere sonore capaci di far risaltare il songwriting essenziale e la voce di Bianca che, grazie al prezioso lavoro di recupero e restauro di Tommy Bianchi, con la supervisione di Foffo Bianchi risalta con il suo timbro caldo ed intenso. Il risultato è un album che, ben lungi dall’essere un’operazione nostalgica, sembra scritto oggi perché la voce di Bianca non appartiene al passato ma al tempo sospeso in cui vivono gli artisti che ci lasciano troppo presto. E i tredici produttori artistici coinvolti hanno fatto esattamente questo: restituire quella voce al suo presente. A riguardo Elisabetta Malantrucco sottolinea: “Nell’ascoltare per la prima volta questi brani, ho provato qualcosa di simile quando ho visto la Cappella Sistina per la prima volta restaurata: una grande emozione, come si trattasse di un’opera realizzata il giorno prima”. Nel testo introduttivo del disco, il giornalista John Vignola sottolinea la forza poetica di queste tracce: “Nelle tracce c’è qualcosa di cristallino, che a vent’anni, quelli che aveva l’artista, non è ancora incrinato dalle inevitabili disillusioni e nemmeno da ripensamenti, malizie tecniche o necessità, per così dire, mercantili. Rimane uno slancio creativo che vola verso un orizzonte lontano altri vent’anni, l’età oramai superata del Premio e qualcuno in più dalla scomparsa di Bianca, anni che non sono riusciti a scalfire una tale freschezza di musiche e di parole”. Accolti dal raffinato booklet illustrato da Clelia Bove, in arte Clelia Le Boeuf, che ci introduce al disco, l’ascolto si apre con “Anima scalza” il manifesto poetico di Bianca d’Aponte racchiuso in un climax di immagini che raccontano l’ingresso nell’età adulta e la perdita dell’innocenza e dell’incanto, ma nello stesso tempo l’autrice rivendica il diritto – quasi rivoluzionario – di “rubare” il tempo per continuare a immaginare. L’incanto acustico della chitarra di Fausto Mesolella dona al brano quell’equilibrio raro fra purezza e decisione, arricchito oggi dal
violoncello di Andrea Beninati, e dalla elegante architettura ritmica costruita dal contrabbasso di Ferruccio Spinetti e dalla batteria di Mimì Ciaramella. In “Benvenuto anche a te” la giovane cantautrice affronta senza filtri il lato oscuro della vita: dolore, estraneità, inquietudine. La voce si intreccia alla chitarra di Fausto Mesolella in un abbraccio che avvolge un testo sorprendentemente maturo per un’artista diciottenne, capace di guardare negli occhi il buio e dargli un nome. “Cantico dei matti”, ispirata dall’attività di volontariato nell’Accademia della Follia, è forse la canzone più simbolica di Bianca d’Aponte perché mette sullo stesso piano l’artista e il “matto”, entrambi guardiani di ideali che possono esplodere in canto con un soffio. L’arrangiamento di Gioni Barbera ne rispetta l’intimità visionaria, più universale della versione alternativa scritta con Oscar Avogadro. Con “Canto di fine inverno” torna la vena popolare, fatta di immagini nitide e fiabesche: un bambino, un tramonto, un amore che dura un battito ma resta eterno. La produzione moderna di Cristiana Verardo ne esalta l’aura ipnotica, rinnovando un brano che già sembrava arrivare da un tempo sospeso.
“Clessidra” è un addio senza rancore tra due anime libere: un amore breve, ma così vero da restare intatto nonostante il tempo. Bianca ne coglie la natura con disarmante lucidità, esaltate dall’arrangiamento di Saverio Lanza che interseca elettronica e chitarre elettriche e dai controcanti di Cristina Donà. In “Come Dorothy” la cantautrice dialoga con il Mago di Oz per raccontare la propria necessità di partire: zaino leggero, chitarra e una tazza da tè. Una fuga che è ricerca di sé, non una ferita. Il provino restaurato conserva tutta la freschezza di un’urgenza vitale, impreziosito dalla chitarra elettrica di Biagio Felaco. “Mary” è il racconto di un litigio tra due amiche e Alessandro Crescenzo costruisce un arrangiamento che evoca bene la luminosità adolescenziale, tra sorrisi, malinconie e riconciliazioni. Il vertice del disco è quella perla che è “Ninna nanna in Re”, un brano dalla linea melodica dolce ed antica al tempo stesso, con il liuto cantabile di Mauro Palmas e la chitarra di Marcello Peghin che ne esaltano magistralmente la tessitura poetica, colorandola di echi mediterranei. Se “Respira piano”, Bianca descrive con finezza il tempo dell’amore vivo, quello in cui tutto è ancora possibile e fragilissimo, la conclusiva “Straniero” è un brano introspettivo che Bungaro rallenta nella melodia mettendo in luce il testo con la complicità del pianoforte di Max Calò.
“Ensemble per Bianca” è, dunque, non chiude solo un cerchio realizzando il sogno a lungo coltivato da Bianca d’Aponte di pubblicare la sua opera prima, ma è soprattutto un disco da ascoltare con il rispetto per ciò che avrebbe potuto essere e con la gratitudine per ciò che è diventato. Bianca è qui con noi e non dobbiamo far altro che chiudere gli occhi ed abbandonarci all’ascolto.
Salvatore Esposito
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