Sanam – Sametou Sawtan (Constellation Records, 2025)

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Il poeta e saggista siriano Adonis, ne “Al-Thābit wa al-Mutahawwil” (Il fisso e il mutabile), scriveva che “la demolizione dell’origine deve essere praticata con l’origine stessa”. Sottesa da questa frase è l’idea che il rinnovamento non debba essere un abbandono totale del passato, ma un rinnovamento dall’interno. In altre parole, il vero cambiamento non viene “da fuori”, ma nasce dal cuore del patrimonio stesso. È un pensiero che ben si addice all’idea musicale dei libanesi Sanam, di cui esce per l’etichetta di Montreal il nuovo album “Sametou Sawtan” Il sestetto: Sandy Chamoun (voce), Farah Kaddour (buzuq) – fresca premiata agli Aga Khan Music Award per pratica musicale, competenza musicologica e attivismo sociale –, Anthony Sahyoun (chitarra e synth), Antonio Hajj (basso), Pascal Semerdjian (batteria) e Marwan Tohme (chitarra) comprende musicisti di rilievo della scena underground libanese. La band è nata nel 2021 sotto gli auspici di Hans Joachim Irmler (dei teutonici Faust: il che spiega molte cose del loro sound) che li volle sul palco in occasione dell’Irtijal, Festival Internazionale di Musica Sperimentale di Beirut. Sempre sotto la spinta del musicista tedesco, Sanam hanno esordito alla grande con “Aykathani Malakon” (Mais Um Discos, 2023), inciso in presa diretta, disco dall’attitudine avant folk, psych-rock, noise & kraut-rock su testi di poeti e compositori arabi classici contemporanei. Alla spontaneità espressiva di quel formidabile esordio è seguito il “Live at Café Oto” (Mais Um Discos, 2024), registrato nel venue londinese, che metteva in mostra la levatura concertistica del gruppo. A tal proposito, i Sanam hanno mietuto consensi in festival che contano come Le
Guess Who? e Rudolstadt. Solidità e ispirazione trovano conferma nel nuovo lavoro, prodotto da Radwan Ghazi Moumneh, aka Jerusalem In My Heart, il cui titolo, “Sametou Sawtan”, si traduce all’incirca con “Ho udito una voce”, esprimendo la “capacità del suono e del linguaggio di farci fermare, catturare l’attenzione e aprirci al momento presente”, dicono gli stessi musicisti nel presentarlo. Hanno iniziato a lavorare su “Sametou Sawtan” a inizio 2024, le prime idee sgorgate ai Tunefork Studios di Beirut e poi sviluppate e affinate a Beit Faris, dimora medievale nella città costiera di Byblos. Delle otto tracce, le ultime due provengono dalle sessioni di Beit Faris, mentre le altre sono state registrate ai La Frette Studios di Parigi durante il tour europeo dell’estate 2024. “Negli ultimi cinque anni sembra che tutti stiano lasciando il Libano”, spiega Chamoun, “l’album non parla letteralmente di questo, ma dell’idea che qualcosa ti stia abbandonando… una distanza dagli eventi anche se li stai vivendo, una distanza dalla tua casa anche se sei dentro di essa.” La scura, sinistra e inquietante “Harik” (“Fuoco” in arabo) dà l’avvio: reiterati spasmi di una voce ansimante, la ritmica martellante, innesti atonali di synth, chitarre stridenti e linee di buzuq distorto accompagnano il canto di Sandy Chamoun, autrice del testo scaturito con immediatezza dal sentimento di rabbia e la sensazione di devastazione di fronte al genocidio in atto in Palestina e agli attacchi israeliani in Libano. Ha un mood malinconico la successiva “Goblin”, sorta di ballata sul testo del poeta egiziano Ibn Nubāta (1287 –1366) con il canto che si dispiega sulle note della tastiera di impianto microtonale e sulle linee essenziali portate dal liuto a manico lungo. Nella
psichedelica e rarefatta “Habibon”, la voce di Chamoun, filtrata dall’auto-tune, canta liriche sull’amore dell’Imam Ali Ibn Abi Talib ("Prigioniera di colui che amo / nel mio cuore non c’è spazio per un altro / I miei occhi, il mio corpo lo cercano / ma lui è svanito dalla mia vista"). Procede acidamente e distortamente rock la magnifica “Hadikat Al Ams” (I Giardini di Ieri) su versi dell’eminente poeta e drammaturgo libanese contemporaneo Paul Chaoul. Un solo di buzuq apre la via ai nove minuti e mezzo di “Hamam” (Colomba), notevole rivisitazione di un canto tradizionale egiziano in cui il topos della migrazione degli uccelli assume significati metaforici e politici che ci portano direttamente nella stretta, brutale attualità della migrazione forzata; nel brano domina il timbro accorato e melismatico di Chamoun, che si snoda tra drone di synth, noise-rock, intrecci di chitarre e buzuq, stacchi convulsi di drumming e un turbinoso crescendo finale che si placa lasciando l’ultima nota alla voce di Sandy. Nel flusso sinuoso di “Sayl Damei” splende la parola del poeta persiano del XII secolo Omar Khayyam (“Quando leggi qualcosa di Omar, senti una connessione con l’oggi. La sensazione che non ci sia un percorso chiaro”, dichiara Chamoun). È una canzone sulle ossessioni dell’amore “Tatayoum” (Infatuazione), testo composto dalla stessa vocalist, dove il buzuq collide con l’elettronica analogica. Chiude il programma la title track che si nutre ancora delle liriche di Khayyam (il verso di apertura proviene dalle “Rubaiyat al-Khayyam”, che il poeta e traduttore egiziano Ahmed Rami riprese per dedicarle all’amata Umm Kulthum), illuminate dal calore vocale di Chamoun. Sanam fanno interagire con lucida consapevolezza eredità ed esplorazione sonora; la loro è musica che permane, densa e profonda. Opera fuori dagli schemi e di notevole caratura performativa, “Sametou Sawtan” si colloca tra i top album del 2025. sanambeirut.bandcamp.com/album/sametou-sawtan 


Ciro De Rosa

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