La svolta del folk francese: Malicorne (1974 – 1986) - I Parte

L’esordio appare sul mercato discografico nell’autunno del 1974, diventando ben presto n°1 in Inghilterra grazie a “Melody Maker”. Non manca nell’Esagono chi sottolinea somiglianze stilistiche con gli Steeleye Span, forse anche un po’ influenzato dalla gradita presenza di Martin Carthy negli studi durante la registrazione (ospite in quel momento di Yacoub, che aveva organizzato il suo primo concerto a Parigi). Ma è profondamente ingiusto sorvolare sulle originalità di questo gruppo di troubadours moderni dalla strumentazione antica e dall’approccio acustico poco “purista” che non cerca di far rivivere una tradizione intrappolata nell’ambra nonostante lo scenario rurale delle sue canzoni. In un panorama francese dominato dalle correnti musicali tradizionali bretone e occitana, in controtendenza rispetto all’epoca, riserva ai brani preponderanza più melodica che ritmica, relegando in un angolo le trascinanti arie da danza che andavano per la maggiore ovunque. Gabriel l’aveva sperimentato sulla sua pelle, come fossero proprio quelle ad attrarre maggiormente il pubblico: il successo planetario della memorabile registrazione all’Olympia di un paio di anni prima con Alan Stivell, non lasciava dubbi. Conseguentemente ciò conduceva ad una brillante assenza percussiva (identica a quella degli Span d’inizio carriera) che contribuisce a valorizzare le qualità di strumenti fino ad allora desueti se non pressoché dimenticati in Francia. Oltre, indubbiamente, ai lati più tristi, malinconici e ombrosi dei testi che erano dovuti sia all’approccio caratteriale di Yacoub che alle pratiche musicali anteriori di Hughes De Courson e Laurent Vercambre in seno alla musica classica occidentale e orientale (basta ascoltare la parte finale di violino al termine de “La Fille Soldat”). Il primo incontro tra Gabriel e Hughes era avvenuto nell’autunno del 1972 presso l’infermeria della caserma di Mont Valérien, dove riuscirono entrambi a farsi riformare: il primo rifiutando di alimentarsi, il secondo dichiarando dolori addominali insostenibili. Un’altra curiosità è relativa alle sedute di registrazione dove Yacoub utilizza anche una chitarra acustica Martin del 1939, in precedenza appartenuta al compianto Peter Green (1946 - 2020). Privo delle convinzioni ideologiche profonde di Stivell, Gabriel aveva abbandonato il gruppo dell’arpista dopo un capolavoro quale “Chemins De Terre”, attratto sempre meno dal folk bretone e sempre più dal repertorio tradizionale francese in generale (scherzosamente, durante i concerti Alan presentava Gabriel “bretonizzandogli” il nome in “Yacoubec”). Sempre più spesso scene contadine apparentemente sparite o inglobate nelle realtà urbane delle periferie, ricomparivano in personaggi superstiti di un universo nascosto, ignorato o dimenticato e nel loro immaginario musicale. Di poco antecedente era stata l’avventura discografica di Pierre De Grenoble assieme alla moglie Marie Sauvet (registrato nella primavera del 1973 e pubblicato nell’ottobre dello stesso anno da Barclay) a riguardo il quale i giornali specializzati scrissero trattarsi del primo disco commerciale di folk francese. Ma canzoni come “Le Prince d’Orange” o quella che dava il titolo all’album erano già state rivelate da altri chansonniers al pubblico che frequentava i piccoli club (e Serge Kerval, per esempio, aveva già inciso tra le altre, La Pernette, Le Prince d’Orange, Dame Lombarde, Les Trois Ecoliers, Le Bouvier, Quand J'Etais Chez Mon Pere o La Blanche Biche all’interno dei suoi dischi). Yacoub conosceva bene quella scena avendo precedentemente suonato chitarra e banjo nei New Ragged Company, gruppo di strumentisti francesi di old-time costituito a quindici anni con un repertorio di musica bianca statunitense. Alla fine degli anni ‘60 l’Esagono era ancora notevolmente influenzato dalla musica americana, nonostante gli sforzi di cantanti, strumentisti o collezionisti come Jean-Loup Baly, Jean-François Dutertre o Catherine Perrier che fonderanno “Le Bourbon”, primo folk-club transalpino. Si ingrossava sempre più la schiera degli amanti del folk al Club Hootenanny (Scena Aperta) presso il Centro Americano Per Studenti E Artisti di Parigi, al 261 di Boulevard Raspail o alla Chiesa Americana prossima ai giardini di Campi di Marte, sulla riva gauche, non lontano dalla Tour Eiffel. Il primo, per dodici anni (dal 1963) offrì il palcoscenico a centinaia di sconosciuti ogni martedì sera, affinché si esibissero davanti a un pubblico, liberamente e senza audizione preventiva. Avvenne grazie al francese di origine ebraico-polacca, Lionel Rocheman, egli stesso cantante, musicista, attore e si rivelerà, nonostante fosse una piccola sala in grado di ospitare una cinquantina di posti, una formidabile fucina di nuovi talenti acustici. Il repertorio
inizialmente anglo-americano, venne presto soppiantato dalla chanson française e tradizionale, liberandola così dal solco essenzialista in cui l’aveva rinchiusa l’intellettualmente gretta politica culturale del governo di Vichy dopo l'invasione tedesca nella seconda guerra mondiale. Un fenomeno non dissimile da quello avvenuto dalla fine degli anni ’50 negli Stati Uniti o in Inghilterra. Anche Gabriel Yacoub riscoprirà in questo modo il suo patrimonio popolare, suonare musica folk in quel periodo storico rappresentava già una forma di rivendicazione e corrispondeva allo spirito dei tempi. Aumentavano ogni giorno i ragazzi che  portavano capelli lunghi, parlavano di ritorno alla natura, ecologia, contestavano esercito, famiglia e società dei consumi, rifiutavano l’avanzata del nucleare, stavano perdendo anche i pregiudizi nei confronti della propria tradizione artistica. Nelle parole arcaiche si possono sviluppare anche visivamente, immagini narranti che dai racconti arrivano a farsi linfa e humus fertile, le inquadrature vanno oltre l’istante fissato, sono vitamine-nutrimento per l’anima, alimento prediletto dei cuori.  L’arte popolare e contadina di ieri trasportata nelle strade dell’oggi diventa musica intellettualmente sapiente, le canzoni delle tradizioni riescono ancora dopo secoli, a legarsi alla mente senza corde o nodi ma molte di loro nessuno le slegherà più. La registrazione audio del primo disco di Malicorne assomiglia un poco a un lavoro amatoriale, avrebbe sicuramente meritato migliore produzione, specialmente nel caso della già citata “La Fille Soldat” che soffre di un volume sonoro attutito, quasi si trattasse di una vecchia e logora audiocassetta. Per fortuna, al contrario, quella del disco seguente rasenterà una perfezione tecnica addirittura in anticipo sui tempi. La musica malicorniana non possiede il compito unicamente di accompagnare i testi e non assomiglia per niente ai clichés dei film storici dell’epoca ma si pone sullo stesso piano delle voci dei coniugi Yacoub, i quali si dividono la linea del canto principale inserendo però alcune stranezze. In “Le Deuil D’Amour”, ad esempio, Gabriel viene registrato due volte identiche a cappella, il suo canto nasale finisce così per conferire alla canzone una risonanza quasi da oboe o controfagotto. Oppure su “Landry” e “Reveillez-Vous Belle Endormie” dove le voci raddoppiate di entrambi i cantanti donano un tipo di risonanza ancora differente. Comunque per molti ascoltatori l’ascolto fu una vera rivelazione musicale e dopo decenni ha continuato a conservare un posto affettivo nelle collezioni, trattandosi di un gruppo d’eccellenza molto in anticipo sulla world-music. Scegliere di intervenire su un repertorio così lontano nel tempo da parte di tanti giovani artisti europei fu un recupero culturale preziosissimo. Collegato direttamente al passato rinascimentale che, secoli prima, aveva appreso delle proprie origini direttamente dal patrimonio popolar-folkloristico della terra. Ma ne aveva fornito nuova scrittura alimentata dalle più recenti conoscenze scolastiche e grazie così a  ben due fonti d’ispirazione, trasformato l’antecedente tradizione orale. Molte delle canzoni degli interpreti folk ne sono magistrali esempi, l’opera intera dei Malicorne si situa lungo le frontiere imprecisate e nei luoghi misteriosi esistenti tra i due universi culturali. “La Pernette” è l’unica complainte alla quale Gabriel compone una musica originale, un dialogo narrativo tra madre e figlia, privo di ritornello e riproposto (in lingua francese) in una versione proveniente dall’antico Delfinato, provincia occitana che si estendeva in
parte sul versante italiano delle Alpi (attualmente suddiviso tra le provincie di Cuneo e Torino). Il timbro de La Pernette si ritrova ripetute volte nei secoli, a partire da una “chanson de toile” (canzone di tela) chiamata anche “chanson d’histoir” dei trovieri del XII secolo. In una versione pressoché analoga del 1979 da parte del gruppo Gallican è il padre a sostituire la madre nel dialogo con la giovane innamorata. Era comune, in passato, che lo stesso testo fosse cantato su differenti musiche o che lo stesso timbro servisse a differenti testi, non esistendo registrazioni d’epoca si può solo ipotizzare e lasciarsi guidare dalla propria emozione come ha fatto Yacoub. Il “canto piano” sacro nel Medioevo fu lungamente l’unica musica in uso, tuttavia agli aspetti liturgici si affiancavano atmosfere e confidenze decisamente profane e il genio popolare finì per sostituire sempre più i dogmi cristiani. Canzoni e arie rimbalzarono ovunque
attraverso villaggi e valli e grazie a bardi la canzone francese prese ad essere un genere caratteristico, tanto concreto quanto spirituale. Ogni aspetto ed episodio della vita e della morte poteva venire cantato, suonato e danzato. Per ciò che concerne la complainte d’apertura del disco “Dame Lombarde” la sua origine è piemontese ma ha attraversato l’intera Francia al seguito delle guerre e nel XVII secolo è giunta pure sulle rive canadesi del San Lorenzo. Se ne contano sette versioni differenti per testo e musica ma che provenga da Québec o Arcadia la sfortunata protagonista incarna sempre il personaggio dell’avvelenatrice punita. Quello che cambia ogni volta è lo spione che passa dall’essere un infante nella culla, un amante, un usignolo nel bosco o una vicina di casa. Nel caso specifico dei Malicorne la versione proviene dal volume pubblicato da Henri Davenson: “Livre des chansons, ou introduction à la chanson populaire française” (Editions de La Braconnière - Neuchâtel, 1946). Si tratta di una versione raccolta nella regione del Mauriac (dipartimento del Cantal) dalla quale però viene omessa l’ultima quartina. Il secondo capitolo Malicorne giunge velocemente anche nel Belpaese del 1975 (grazie alla Ariston) in un periodo musicale finalmente favorevole in cui la disponibilità degli ascoltatori europei si era allontanata a grandi passi dalla tipica forma d’intrattenimento pop. È tra i primi dischi di folk francese e si trattò per molti, di uno di quelli veramente capace di far nascere una passione. La copertina interna dell’edizione italiana riportava accurate precisazioni a firma di Mony (Moni) Ovadia dell’allora “Gruppo Folk Internazionale”. Arrangiamenti giocati specialmente su mandoloncello e cromorno, impasti polifonici progrediti nel giro di un anno in maniera molto significativa, armonie vocali che raggiungono altissime vette nella rievocazione primaverile di “Marions les roses” dove cori, pause e ritmi progressivi disegnano un’atmosfera cortigiana. Il suono d’insieme gode di echi e riverberi, specialmente nel lungo ratto piratesco “Marion s’y promène” su una melodia parzialmente composta dal gruppo con giochi di armonie e contrasti e una voce molto sofisticata, perfino un ingegnoso trucco in studio per togliere un difetto di registrazione. L’affascinante complainte di cui è arduo stabilire l’origine, è presente in più di una regione francese e perfino in Québec, sotto differenti titoli “Le long de la mer”, “Isabeu s’y promene”, “Le plongeur noyé”. Serge Kerval tre anni dopo ne proporrà una dal titolo “La belle s’y promene” in un suo disco, proveniente dalla Touraine Orléanois molto simile nella prima parte di canzone ma che nel seguito devia decisamente verso “War Bont An Naoned”. In “Branle - La Peronelle” le due voci arrivano dopo un paio di cicli di accelerazioni di chitarra satura prima e violini poi che introducono un’aria risalente al termine del XV secolo e divenuta assai popolare durante tutto quello seguente al punto che se ne contano varianti in differenti regioni francesi. Ottima intuizione trans-epocale per una melodia che comunque ben si presta a “variazioni” anche in campo musicale medievale più ortodosso, se è vero che contemporaneamente anche Mélusine la inserisce “a cappella” nel proprio esordio discografico utilizzando nell’armonia, intervalli consueti nelle musiche popolari d’Europa Centrale e tre anni dopo, un altro celebre gruppo di folk francese, Les Ménestriers, lo registrerà per tre voci, oud, saz, flauto e quinterna mentre Serge Kerval (in una versione simile ma più lunga e proveniente dal Maine) in forma cantautorale. Ma si tratta di una canzone che incorpora spesso numerosi mutamenti testuali, in una versione fiamminga la protagonista viene rapita non da gendarmi ma da stranieri francesi che amano spassarsela mangiando buon cibo e bevendo vino. “J’Ai 
Vu Le Loup, Le Renard Et La Belette” viene proposta in versione unicamente strumentale e modale al posto di quella derivante da un canto origine medievale-borgognona con origini XV secolo nel paese di Beaune. Curioso per un gruppo che non ama particolarmente far danzare gli ascoltatori, una possibile interpretazione viene dal fatto che lungamente chiuderà i loro concerti e quindi rappresenta un efficace arrivederci per il pubblico. Ma si può anche ipotizzare che l’incertezza sulle origini a causa della sua trasmissione orale, abbia portato Yacoub a una “non scelta”. I Mont-Jòia di Jan-Maria Carlotti, ovviamente, non ebbero dubbi nell’utilizzare la versione occitana (che verrà più spesso ripresa in Germania, Danimarca o Quebec) mentre i Balfa Brothers le preferirono forma cajun. I bretoni Tri Yann ne avevano già proposta in 45 giri una variante in maggiore, l’anno precedente a quella dei Malicorne, sotto il titolo “La Jument De Michao” che nel 1976 raggiungerà il successo grazie all’inserimento in “La Découverte ou L'ignorance”. In Bretagna è popolarissima come an-dro (ripresa comunemente anche in Svizzera o Paesi Bassi), in Borgogna diventa una ronde cantata, il testo descrive l'intrusione da parte di una strega contadina in un sabba animalesco. Si tratta di una elaborazione del “Dies Iras” liturgico dove realtà e fantasia si mescolano, parodia e travestimenti tradizionali servivano al popolo per ironizzare. Malicorne opta invece per una versione a due tempi proveniente dall’ex regione francese dell’Alta Alvernia chiamata “Bourée a sette salti” (o “dell’ovile”). Ci sono però adattamenti in differenti lingue che trasformano completamente il significato, altri che prendono in considerazione solamente alcune parti, c’è stato chi come la compianta Veronique Chalot le ha cambiato il titolo (in “Danse Des Sorcieres”). Malicorne II nasce in un’epoca dove miracolosamente storia e modernità si incontrarono (e non solo sui pentagrammi), alle obiezioni colte di critici e detrattori, qui come altrove, si può facilmente rispondere che la musica popolare è sopravvissuta nei secoli e si è evoluta e trasmessa proprio grazie a cantanti e musicisti irrispettosi. Ben poco altrimenti, di quel ricchissimo patrimonio, sarebbe giunto ai nostri giorni, “cum bona pace” dei puristi. Un ottimo esempio è il brano di apertura del disco, raccolto in Normandia, “Le Mariage Anglais” dove l’amore si mescola ai rancori atavici tra Francia e Inghilterra ma alla fine trionfa. C’è chi considera che non esistano “musiche tradizionali” quanto piuttosto “contesti tradizionali” in cui si siano costituite ed è altrettanto vero quello che sosteneva il filosofo Paul Ricœur, ovvero che sia “l’alternarsi tra sedimentazione e innovazione a formare quella che viene chiamata tradizione”. Va detto comunque che le tentazioni folkloristiche e il dilettantismo di cattivo gusto non sono mai mancati neppure in terra di Francia. Una pietosa situazione coinvolse anche Malicorne il 25 ottobre 1975 quando la scenografia televisiva di una improbabile Arca di Noè impazzì: un coniglio terrorizzato si nascose sotto
una gallina costretta all’immobilità da fili di nylon che le tenevano le zampe ancorate al pavimento. Contemporaneamente una scimmietta urinava sulle decorazioni, rischiando seriamente di bagnare i musicisti seduti accanto su una triste panchina, che facevano finta di intonare a cappella “Marions Les Roses”. Tornando a cose serie: l’apparente contrasto tra la particolare vocalità nasale di Yacoub e quella esile e talvolta ingenua di Marie, evoca una dolcezza scrosciante che richiama malinconie naturistiche ma anche mondi di ombre. Ombre che inizialmente non appaiono nella spettacolare copertina, richiamante un’atmosfera fiabesca tanto ammaliante quanto inquietante. Perché l’ascolto rivelerà come dietro quelle abitazioni bucoliche crescano irrequiete oscurità, resuscitino notti in cerca delle proprie giornate piangenti. Nel simbolico “Le Garçon Jardinier” la rosa rappresenta l’amore ma l’amore è esigente; “Marions les roses” è canzone del Berry, come la precedente, appartenente alla tradizione della questua del Primo Maggio e in cui i giovani si recavano di fattoria in fattoria a mendicare cibo, uova, prosciutto, a volte venivano offerti loro anche sidro o vino, a seconda della regione. Una tradizione similare a quella di tante altre compreso l’Halloween del Nord America. Originariamente le occasioni principali di questua erano quattro: Epifania, Martedì Grasso, Pasqua e Primo Maggio (che sembrerebbe essere la più antica). Col passare dei secoli e sotto l'influsso religioso, verrà ricordata maggiormente quella pasquale, il cui oggetto centrale, l’uovo di Pasqua, è simbolo di vita e rinascita. Ancora nessuno lo sa ma di questi argomenti si occuperà più specificatamente, il disco seguente. Come sempre e ancor più di sempre, cromorno, dulcimer, bouzouki, ghironda, salterio, armonium, mandolino, violino o spinetta dei Vosgi sono strumenti riuniti in sonorità da estasi febbrile, fanno trasparire i colori delle piogge, delle stagioni, di parole indelebili che riemergono da antiche tracce su fogli di carta. Malicorne sa che è l’ombra che segna il tempo, si allunga e si accorcia ma che, pur essendo il suo opposto, ha bisogno della luce. Anche l’immaginazione è luce e questo disco disegna contrasti sottili snodandosi tra pennellate di mondi in divenire, dove realtà e anima si svelano con grazia melodica intrecciando riflessioni su solitudini, gesti e pensieri. In conclusione, il brano occitano “Le Bouvier”, fossile della tradizione catara dove nessuna parola del testo è casuale, evoca altri simboli, tradizionalmente ogni strofa veniva seguita da una serie di vocali che definivano un messaggio preciso. Senza dimenticare il finale “astronomico” che pone le capre in cielo, riferendosi alla costellazione dell’Auriga. E nel cielo si può osservare un’altra costellazione dell’emisfero boreale, facilmente individuabile a partire dalla coda del Grande Carro, ovvero quella del “Boote” che in lingua occitana si dice appunto “Boièr” (Bovaro). 

Flavio Poltronieri

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