Per la terza volta di fila ci occupiamo di un trio. Dopo gli scozzesi Salt House (Blogfoolk #711) e i norvegesi-svedesi Mojna (Blogfoolk #712) è la volta degli inglesi Granny’s Attic, con il loro “Cold blows the wind”, album uscito qualche mese fa in versione digitale, ed ora disponibile anche su supporto fisico. Con un ben definito ed essenziale strumentario Cohen Braithwaite-Kilcoyne (anglo concertina, melodeon, voce), George Sansome (chitarra, bouzouki, voce) e Lewis Wood (violino, viola, voce), con il contributo in alcuni brani di Sid Goldsmith al contrabbasso, propongono un repertorio di canzoni e danze provenienti dalle contee meridionali dell’Hampshire e del Dorset, dalla nativa Worchestershire, dall’Herefordshire e dalle più settentrionali Yorkshire e Lancashire. Consultando l’elegante booklet, curato come la copertina (dal segno quasi picassiano) da Maria Alzamora, apprendiamo che dieci pezzi sugli undici dell’album sono di tradizione, raccolti tra fine Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento da appassionati e studiosi come Frank Dikson, Ralph Vaughan Williams, George Gardiner, i fratelli Robert e Henry Hammond (per citare solo quelli dalle cui raccolte proviene la maggior parte dei brani). Nel caso delle canzoni spesso si tratta di frammenti di testo, uniti fino a dare un senso compiuto alle storie in esse raccontate, mentre due dei tre strumentali sono dei medley di coppie di brani. Tra le molte cose positive che colpiscono all’ascolto di “Cold blows the wind”, in particolare segnaliamo il triplice, se non quadruplice carattere dell’album: alcuni dei pezzi arrangiati da George Sansome o da Cohen Braithwaite-Kilcoine, come l’iniziale “Where the swan swins so bonny” o “The false bride” si rifanno, nello stile di canto e nella loro asciutta forma, alle forme del primo folk revival, mentre nell’andamento, così come negli attacchi strumentali e nella base ritmica di “Claudy Banks”, “The nightingale”, “Lovely Joan” e “Jack the sailor”, si rintracciano spunti ispirativi di Fairport Convention, Steeleye Span e Pentangle. E ancora, gli strumentali che Lewis Wood ha arrangiato (la coppia di morris “Bobbing Joe/Lumps of pudding” e il medley “New allemand/Quick step”) o composto (“Conversations”) affiancano elementi tipici della tradizione inglese a frammenti comuni ad un’area geografico-culturale più ampia, che va dalla Francia fino all’area nordica. Non mancano poi due brani che, pur se tradizionali, assumono un tono più cantautorale, con una forte tensione emotiva: si tratta di “The mermaid” e, in chiusura, della title track. Da questa sintetica descrizione non si deve però trarre la conclusione che “Cold blows the wind” sia un album costruito secondo rigide compartimentazioni. Al contrario, in esso si avverte una capacità di osmosi e sintesi di stili e di caratteri che porta a risultati di qualità molto elevata e di grande godimento, in cui i richiami e le “lezioni” che si colgono non risultano né imitativi né una sorta di tributo ai maestri del passato e dell’oggi. E se, in conclusione, viene da dire che ogni tanto ci vuole un album così, che ci riporti all’essenza della musica folk e suoni con modalità vicine a una tradizione filtrata dalle lezioni e dall’esempio dei grandi gruppi del revival, allora possiamo affermare che “Cold blows the wind” è in questo senso un vero gioiello, da conservare nella nostra libreria musicale, per “indossarlo” quando vogliamo immergerci in suoni simili a quelli che hanno costruito il nostro più profondo gusto musicale.
Marco G. La Viola
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