Kokoroko – Tuff Times Never Last (Brownswood Recordings, 2025)

Secondo album per la formazione londinese capitanata dalla trombettista Sheila Maurice-Grey e il percussionista Onome Edgeworth. I due, come raccontano le cronache, si sono conosciuti in Kenya, dove è nata l’idea di un ensemble di base jazz ma aperto a contaminazioni di varia provenienza: dall’afrobeat al soul, fino al pop, bossanova e via così. Il disco d’esordio, datato 2022 e intitolato “Could we be more”, ha scardinato molte sicurezze avanguardistiche, per la scrupolosità con cui si è insinuato nel movimento musicale e culturale internazionale. Movimento che non ha potuto che elogiarne equilibrio, brio, freschezza, sfrontatezza e, allo stesso tempo, compostezza, chiarezza. Le critiche sono state unanimi nel definire questo ottetto giovane e vorace come una delle novità di cui avevamo tutti bisogno – l’eleganza con cui si incardina alla narrativa musicale contemporanea, quella sì urbana ma irriducibilmente extra-locale, è straordinaria. Perché alla leggerezza delle esecuzioni si affianca la profondità di una scrittura accurata, una struttura musicale in perfetto equilibrio tra sperimentazione, esplorazione etnojazz, polivocalità e, in generale, apertura, sguardo lungo: verso ogni elemento che può fissare il transito di una sensazione cosmopolita, verificandone, al tempo stesso, forza, determinazione, ritmo, armonia efficace. La dimensione live ha rappresentato l’orizzonte in cui si è mosso l’ensemble negli ultimi tempi. Orizzonte entro il quale ha preso forma “Tuff Times Never Last”, album composto da undici brani selezionatissimi, armonizzati dalla spazialità, dal movimento, da un canto perfetto (“My Father in Heaven”) e da arrangiamenti minuziosissimi (“Idea 5 – Call My Name”). Ascoltando questo nuovo album si arriva ad apprezzare anche un’elettronica morbida, come in “Three Piece Suite”, il brano che ha anticipato l’album, prodotto in collaborazione con Azekel, musicista di origine nigeriana di stanza a Londra. Come si può ascoltare anche in questo brano, gli elementi che costituiscono la dialettica dei Korokoro sono semplici, ma soprattutto coerenti. Vi è spontaneità e chiarezza, naturalezza: c’è ritmo, serrato e dolce, dritto, quasi melodico (Ayo Salawu e il già citato Onome Edgeworth alla batteria e percussioni), sostenuto e intrecciato dal basso funky di Mutale Chashi, c’è la chitarra (Tobi Adenaike), che non ha un ruolo di preminenza ma di incursione – tanto necessaria quanto decisa – e ci sono le tastiere, che spazzolano tutti i brani con registri asciutti e delicati (“Da Du Dah”). Tutto questo rimbalza tra i due fattori prominenti: le voci e i fiati. Sì perché l’impronta di questa fioritura abbagliante si tratteggia proprio lì, nello spazio definito dalla voce e dalla tromba di Sheila Maurice-Grey, dal sassofono di Cassie Kinoshi e da Richie Seivwright, all’altra voce e al trombone. Come si vede, la costituzione dell’ensemble poggia su una punteggiatura chiara, che trattiene un jazz che sperimenta la dimensione urbana inglese e africana ed esplora le combinazioni di una sovrapposizione elegiaca, che sfiora soltanto le metriche della narrativa storica, astenendosi dall’evocazione e attestandosi su una sperimentazione concreta. Ciò che sorprende più di tutto è l’assetto corale, che non va inteso solo in riferimento alle voci, ma piuttosto alla scrittura e alle esecuzioni. Per questo, fin dai suoi esordi e prima ancora di produrre il primo album, l’ottetto ha fatto presa in un contesto sì ricettivo (Londra e l’Inghilterra prima, poi il resto d’Europa e non solo) ma senza dubbio bisognoso di novità. Le cronache riportano spesso i parametri con cui i Korokoro si sono misurati sin dal 2018, quando il brano “Abusey Junction”, poi incluso nel primo album, pubblicato in “We Out Heredel”, una compilation della Brownswood Recordings, ottenne oltre venti milioni di visualizzazioni.  


Daniele Cestellini

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